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"Questo indomito cuore" di Pearl S. Buck

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Foto di Debora Lambruschini
Questo indomito cuore
di Pearl S. Buck
Sonzogno, 2015

traduzione e postfazione di Laura Lepetit

pp. 336
€ 16


È necessario un certo sforzo per ricordarsi che questo romanzo è stato scritto e ambientato nella provincia americana degli anni Trenta. La sua protagonista, Susan Gaylor, così straordinariamente moderna e complessa, i problemi che affronta tanto attuali, che per un attimo è facile immaginare questa storia nel mondo di oggi, adattandola solo un poco.
Ma da una donna del calibro di Pear S. Buck, autrice del romanzo, dopotutto ci si aspetta proprio questo, che il mondo da lei tratteggiato restituisca un’epoca e un ambiente ben precisi ma che sia in grado di parlare in qualche modo anche alle generazioni che sono seguite. Romanziera, saggista, autrice di racconti, vincitrice del premio Pulitzer per il romanzo La buona terra ed infine di un Nobel per la letteratura a coronare una carriera letteraria prolifera ed interessante, la Buck ha vissuto una vita tra Oriente ed Occidente, tra dedizione alla – numerosa – famiglia e alla propria arte, trasferendo nelle sue opere il mondo che con sguardo acuto osservava, le sue contraddizioni e complessità, dalla Cina agli Stati Uniti. Se il romanzo che le è valso il Pulitzer è lo straordinario dipinto di quella Cina rurale che così da vicino ha imparato a conoscere, This Proud heart (titolo originale di Questo indomito cuore, quest’anno apparso in nuova traduzione per Sonzogno) è, nonostante le naturali differenze, un’opera altrettanto intensa, traboccante di vita e passione, così carica di interrogativi e spunti di riflessione che coinvolge il lettore pagina dopo pagina.
Lo sfondo è una piccola cittadina della provincia americana degli anni Trenta, abitata da persone semplici, con desideri e speranze altrettanto semplici: il matrimonio con qualcuno del luogo, un certo numero di bambini vivaci e paffuti, un lavoro onesto e regolare, chiacchiere e serate al club per divertirsi insieme alle persone che si conoscono da tutta la vita. Esistenze semplici, regolari: bambine che uscite dalla casa paterna diventano donne con una famiglia propria da accudire, mariti che rincasano ogni sera alle sei stanchi ma sorridenti, i bambini ad attendere sul portico; le amiche di sempre che si ritrovano al pomeriggio a chiacchierare di futilità di fronte ad una tazza di the e una fetta di torta. Poche aspirazioni, nessun desiderio di fuggire alla routine di vite fatte di sogni in serie, nessun tentativo di distinguersi, uscire dal coro. Naturalmente le immaginiamo, queste vite all’apparenza tutte uguali, che nel privato celano piccoli drammi e insoddisfazioni, rancori repressi, infelicità; come non è difficile immaginarne per alcuni la soddisfazione per le gioie semplici di una vita che rispecchia la stessa semplice aspirazione, la sicurezza di una felicità misurata, che si conforma alle regole di una società ritirata e immutabile.
È quella stessa vita che Susan Gaylord, protagonista del romanzo, sognava anche per sé accettando di sposare Mark, l’amico di infanzia, e insieme a lui mettere su famiglia come le sue compagne hanno già fatto. Ma Susan, ovviamente, è diversa dalle altre, dalle loro aspirazioni limitate: più felici forse perché non tormentate dall’essere diverse, sempre un poco più belle, più brave; soprattutto, ciecamente devote a quella vita semplice, che qualche volta può deludere certo, ma alla quale non è possibile immaginare alternativa. Susan, che si ostina a voler essere come tutte loro e soffre profondamente se Mark o chiunque altro ne loda l’eccezionalità, lei che vuole solo confondersi in quella folla di mogli e madri tranquille, essere come ogni altra donna in quel piccolo paese. Sa benissimo però di non poter essere come loro, qualcosa le brucia dentro da tutta la vita: è a suo padre, povero professore con l’animo del poeta, che deve questo suo desiderio di essere anche altro, ed è grazie a lui se ancora bambina aveva scoperto un certo talento nella lavorazione della creta. Il dono per la scultura coltivato con spensieratezza giorno dopo giorno fino a quando, poco prima del matrimonio con Mark, l’opera eseguita per una ricca famiglia del luogo le viene pagata una cifra notevole; è in quelle ore di lavoro che scorrono veloci, dimentica di ogni cosa se non della sua arte, nella soddisfazione per la cifra guadagnata grazie solo al lavoro delle sue mani, che Susan diviene davvero consapevole del proprio talento. A lungo messo a tacere, il piacere di creare non può essere più contenuto ora.

E Susan sogna ciò che anche oggi appare proibito: essere tutto, avere tutto. Una famiglia serena, il proprio lavoro. È il dilemma arte/vita, l’angoscioso tormento tra cosa siamo disposti a sacrificare, felicità famigliare o ambizione:

Voglio essere la miglior moglie del mondo, la miglior madre. Voglio fare un monte di belle cose nel bronzo e nella pietra, cose che dureranno in eterno. Voglio vedere il mondo e la gente … Non c’è niente che non voglia fare.

Susan non vuole rinunciare a niente, né alla propria arte né all’amore di Mark e dei suoi figli; spinta da un’energia che sembra inesauribile si getta pienamente in ogni cosa che fa, inconsapevole di quanto sia straordinaria. Non svelerò se alla fine Susan riuscirà ad ottenere tutto o se dovrà arrendersi al compromesso; non anticiperò altro della trama che pagina dopo pagina andrà complicandosi per la protagonista e la sua famiglia, delle prove che dovrà affrontare, delle lacrime e delle consolazioni. 
Scoprire l’intreccio di Questo indomito cuore è compito e piacere del lettore; una trama che affascina naturalmente, mentre cerchiamo di afferrare il destino di Susan e dei personaggi che la circondano e lentamente svelano la propria natura profonda. Ma ciò che, a mio avviso, rende questo romanzo estremamente interessante – e della cui riscoperta non possiamo che ringraziare ancora una volta Sonzogno che con la collana Bittersweet sta riportando alla luce opere che vale la pena recuperare – è l’assoluta attualità dei temi e dei personaggi, in grado di dialogare con i lettori del tempo allo stesso modo di quelli di oggi.

Perché il nodo centrale in fondo è proprio questo: è possibile per una donna riuscire ad ottenere ogni cosa, una famiglia unita e la soddisfazione della propria ambizione? Tralasciando le questioni puramente logistiche – certo non di poco conto nella vita reale – si può in qualche modo trarre appagamento da entrambe le sfere, pubblica e privata, si può essere moglie e madre amorevole e soddisfatta e allo stesso tempo non rinunciare alla propria indipendenza e al proprio talento? Arte e vita, il dilemma intorno a cui così tanti si sono tormentati, possono in qualche modo esistere con pari intensità e soddisfazione, senza che l’una offuschi l’altra, senza dover rinunciare a niente, senza compromessi? La Susan creata dalla penna di Pearl Buck è una donna che non può vivere senza la propria famiglia e il suo ruolo di moglie e madre, così come non può vivere senza essere una scultrice e dedicarsi alla creazione. Entrambe le cose sono la sua essenza ed è impossibile rinunciare all’una o all’altra, come invece hanno fatto le persone intorno a lei, tra cui lo stesso Barnes, il maestro che per primo ne ha scoperto il talento:

Non verrò meno a nessuno dei miei compiti. Posso essere tutto: moglie, madre … e me stessa. […] Chi era Barnes, del resto? Aveva anche lui i suoi difetti. Era limitato a suo modo come Lucile Palmer e, per quanto avesse fatto del bello il cibo dell’anima, non vedeva altro che quello. Non capiva per esempio la necessità e la bellezza della famiglia, del lavare, del cucinare, del piantare giovani piantine, del canto, dell’amore! Non aveva altra comprensione al di fuori dell’impeto che lo portava a tradurre i suoi fantasmi in creta o in marmo. Ma lei! Lei non soltanto aveva bisogno di essere, ma anche di creare. In lei non c’erano dualismi, non unilateralità. Aveva bisogno di tutto, non poteva fare a meno di nulla.

Barnes, burbero, solitario, geniale, è impressionato dal dono di quella giovane donna che pare così inconsapevole del talento che possiede mentre ostinatamente continua a scegliere entrambi i mondi, vita e arte, anziché come lui dedicare tutta sé stessa alla creazione. Ciò che lo sconcerta più di tutto è che proprio ad una donna sia stato concesso un talento del genere, anche se è una donna come Susan, dalle mani forti, che non teme la fatica, che sa vedere la vera bellezza. Essere donna in un mondo di artisti è un’altra chiave di lettura del romanzo della Buck che non smette di stupire ancora una volta per la sua modernità. In Barnes, che impreca «Accidenti, tre volte accidenti che questo talento sia stato dato ad una donna!» e la mette in guardia da un universo maschile, dove in quanto donna le sarà richiesto di faticare molto di più per dimostrare il proprio talento e superare pregiudizi e meschinità, sentiamo lo stesso avvertimento che ancora oggi, purtroppo, risuona in taluni ambienti. Susan, che dalle piccole forme in creta si ritrova presto impegnata a scolpire grandi statue in marmo, conosce la fatica fisica di quel lavoro che le consuma le mani, il pregiudizio e l’ostilità di un ambiente dominato da uomini, la gelosia e l’incomprensione. Ma ogni cosa sembra non toccarla davvero, perché solo creare, rendere vive quelle immagini che le affollano la testa ha importanza. Ed è la solitudine che ricerca in quelle ore di lavoro, la mente piena solo della sua arte, dimentica del mondo e dei suoi doveri di figlia, moglie, madre, spinta da un bisogno impellente, necessario come la vita stessa:

Quello che la gente non capisce […] è che non si tratta affatto di quello che fai. Il mondo può vivere benissimo anche senza quel po’ di musica, o di poesia, o altre cose che persone come me e te sentono di poter fare. Il problema non sta dunque in quel che si fa o non si fa, ma piuttosto nella domanda: che cosa sarà di te, di me? […] sacrifica il tuo talento, se puoi. Se puoi, vuol dire che puoi farne a meno; e tutto diventa semplice. La gente ti capisce e ti vuol bene, perché si sente simile a te. Dio, come odiano coloro che stanno più in alto! Allora cercheranno di sopprimerti, se possono. Tutto, purché tu affondi.

Vivere accanto ad una donna come Susan non è un compito facile, non lo è mai, non perché la sua arte la consumi da dentro o l’ambizione le tolga serenità: Susan è una donna tranquilla, equilibrata, che si destreggia piuttosto abilmente tra i doveri domestici e quelli verso sé stessa, non ha niente dell’artista maledetto, egocentrico e bizzarro che abbiamo amato attraverso tanta letteratura e cinematografia. Ciò che rende difficile starle accanto è questa sua inquietudine di fondo, il suo essere così eccezionale e diversa da quello che gli altri si aspettano, da quello che la società vorrebbe per lei. Quella provincia sonnacchiosa che è rifugio e prigione insieme, da cui è necessario almeno una volta allontanarsi e vivere un’avventura, scoprire il mondo. Nonostante le sue scelte siano in parte così convenzionali come ci si aspetta da una giovane donna della sua generazione, Susan in fondo non tradisce sé stessa, i propri sogni, le proprie aspirazioni. Nel desiderio di avere tutto, di non sacrificare nemmeno una parte di lei, risiede appunto il suo essere un personaggio così vivo, moderno, complesso. Vive la vita pienamente, sensi di colpa fugaci, senza scendere a compromessi: non con la società patriarcale di una città di provincia alle cui vite conformarsi, non con il mondo artistico che guarda con sospetto al nuovo. Un mondo quest’ultimo più conservatore e maschilista di quanto si sarebbe portati a pensare, dai meccanismi complessi che tuttavia Susan non aspira mai davvero a comprendere.

Ciò che le interessa dell’arte è soltanto dare forma ai propri fantasmi, per nulla spinta dal desiderio di primeggiare, dall’ambizione, dal desiderio di successo. Solo creare, nella tranquillità del luogo adibito a studio, e sentirsi viva.

di Debora Lambruschini