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#CriticaLibera - Quello sfregio alla nostra innocente passione

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La partita del Diavolo                                   
di Roberto Renga e Chiara Bottini              
Absolutely Free Editore, 2015                            

pp. 184                                                                    
14                                                                         

Il giorno perduto
di Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto
66THAND2ND, 2015


pp. 329
€ 18

Il 29 maggio è il trentesimo anniversario della strage allo stadio Heysel. Esce in questi giorni l’ultimo lavoro di Mario Desiati, per Rizzoli, dal titolo “La notte dell’innocenza. Heysel 1985, memorie di una tragedia”. Lo scrittore pugliese oscilla tra ricordi personali, narrativa e cronaca, un modo tutto suo per ridare voce a una tragedia, in parte dimenticata, perfino oltraggiata, e riportarla nel presente. Una storia vera raccontata con piglio narrativo. Ma restando sempre sul filo degli accadimenti.
Dove invece si può parlare di pura fiction è nei due romanzi che propongo. Entrambi, è ovviamente un caso, sono scritti a quattro mani. Roberto Renga è una storica firma del giornalismo sportivo italiano, Chiara Bottini è blogger juventina, consulente e autrice. Li divide una generazione, li unisce questa prova letteraria, “La partita del Diavolo”, scandita da capitoli introdotti da brani musicali. Dovremmo leggerli con questo sottofondo che va dalle composizioni dei due “nemici” Salieri-Mozart, ai Queen. Ho trovato la cosa molto cinematografica, d’altronde ogni morte ha una sua colonna sonora.
Scrivono Roberto e Chiara: «L’amicizia tra danneggiati è un sentimento molto particolare». I danneggiati si sparpagliano a tutte le latitudini, sono i fanatici della politica e i fanatici degli stadi, o semplicemente i fanatici delle botte, del teppismo. Così, per passare qualche ora la domenica. Tra questi “danneggiati”, l’amicizia evocata dagli autori si salda lungo una sottile linea rossa che unisce Bruxelles e Belgrado, i nazionalisti di ogni risma e le cricche delle partite truccate.
A Bruxelles si sta per giocare la finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. A Belgrado sta per scoppiare il finimondo e nelle curve del Partizan e della Stella Rossa, le due squadre calcistiche della capitale jugoslava, si addestrano le future tigri di Arkan. Nella sua terribile evidenza, la ricostruzione di Roberto e Chiara, giocata sulla scia di un noir sentimentale, appare verosimile. Il libro finisce per attirare l’attenzione su qualcosa di nuovo, su una chiave di lettura alternativa, una storia “altra”, non vera ma non per questo meno credibile. Così che il romanzo torna a proporsi come uno dei generi legittimati a trattare argomenti che potremmo pensare confinati alla cronaca, in questo caso nera e sportiva, a stimolare la voglia di approfondire i fatti di quel giorno, aldilà del trentennale, quarantennale o ricorrenza di rito.
Ricordo che la partita Juventus-Liverpool colpì l’immaginario di molti scrittori di quel periodo: ci fu un intenso dibattito tra Malerba, Calvino e Soldati. Marguerite Duras intervistò Michel Platini, il campione della Juventus che decise la finale con un calcio di rigore abbandonandosi poi all’esultanza. Platini rispose alla Duras: «quando cade l’acrobata entrano i clown». È una frase di una cinica professionalità, di “acrobati” ne erano caduti 39. Si pone ancora la domanda sulla liceità di continuare a giocare quella partita, se considerare o meno quel trofeo.
Cartwright e Favetto danno un tocco di stiletto: «Intorno tutto è infinito. Voci suoni colori deflagrano e raggiungono il silenzio. Sono le 21.40. L’assurdo è così banale che le squadre entrano in campo». Sapevamo che il male era “banale”, qui entra in scena l’assurdo, al termine di un racconto di solitudini. I binari scorrono paralleli, c’è il viaggio di un introverso tifoso inglese che raggiunge Bruxelles in nave e autostop, schivo anche nei confronti dei suoi amici, con il padre morente a cui vuole raccontare che il destino potrà pure tradire ma il Liverpool no.
E c’è il viaggio di quattro ventenni che abbandonano una valle piemontese dove pescano a mani nude i pesci nei torrenti e con una R4 provano a sfidare il Frejus, le autostrade francesi e infine quelle belghe. Un loro amico è nella rosa della Juventus, in finale partirà dalla panchina e chissà che non possa giocare qualche minuto decidendo l’incontro. Quattro coetanei assieme, la vita davanti, in un abitacolo angusto come quello della Renault. Ma si sa: i valligiani sono gente chiusa. Ciascuno dei quattro amici ha serrato con il lucchetto parti di sé. Il potenziale entusiasmo che dovrebbe accompagnare una zingarata di questo genere non esplode. C’è un limbo nebbioso in tutto il romanzo, di attesa arcigna che è come polvere su vecchi manoscritti che impedisce di distinguere i caratteri.
Poi, l’inglese e i ragazzi italiani hanno di fronte la tragedia. L’assurdo. Perché per un gioco non si può morire. Non si deve morire. L’assurdo non si spiega per definizione, per l’Heysel, inoltre, ogni spettatore allo stadio e ogni spettatore alla tv più che non essere in grado di capire, non voleva capire. La tragedia di Bruxelles è dunque un “assurdo al quadrato”. Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto, scrittori e collaboratori di quotidiani nei rispettivi paesi, scelgono il lato intimista di chi era impreparato a vivere la schizofrenia e vi si è trovato immerso. Scaraventato. Come nel peggiore… non tanto incubo quanto indizio di vite che si sarebbero rivelate in seguito sbagliate.

Marco Caneschi