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La post-adolescenza negli anni zero: "Ripescati dalla piena" di Daniele Pasquini

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Ripescati dalla piena
di Daniele Pasquini
Intermezzi, 2014

pp. 160
€ 13 - Ebook € 5


Nel suo Immaturità Francesco M. Cataluccio mette in guardia da quella che definisce “la malattia del nostro tempo”: l’esaltazione dell’età giovanile, assurta a Zeitgeist, onnipresente nella letteratura, nella musica e nel cinema, è una fuga dall’assunzione delle responsabilità, un sottrarsi allo sforzo di vivere nel mondo costruendo il proprio destino e, in sostanza, una retorica funzionale al turbo-capitalismo che vede nel rifiuto di auto-regolarsi e nell’incoscienza le condizioni migliori per crescerci tutti come fidati consumatori compulsivi.
È innegabile però che, al netto delle considerazioni socio-politiche, andare con la mente agli anni della propria pubertà è un atto piacevole e che quei momenti così determinanti nella nostra formazione personale resteranno per sempre tra i ricordi indelebili. Il motivo del successo di film come Boyhood, e forse anche il loro gioco facile, è proprio il mostrare il periodo della crescita nella sua essenza più intima, un’immagine potente che non può lasciare indifferenti chiunque abbia un minimo di capacità di immedesimazione e si ritrovi così a pensare al se stesso di alcuni (o di tanti, dipende dall’età) anni prima.
Ripescati dalla piena, un insieme di racconti di Daniele Pasquini, alcuni dei quali già pubblicati su riviste e online, si concentra proprio sul conflitto tra questi due momenti della vita, quello in cui ci si affaccia al mondo, a volte in maniera problematica ma mai cinica, e quello in cui, cresciuti, subentra la disillusione e l'inevitabile filtro che vira il passato su colori più rosei dell’originale.

I versi sciolti che aprono il libro mi hanno ricordato Le luci della centrale elettrica: essi mi sembrano infatti pervasi dalla stessa poetica dei testi di Vasco Brondi, che rende attraverso un’accozzaglia di immagini quotidiane ma laceranti un presente frammentato, privo di un senso complessivo che raccolga tutti questi pezzi di contemporaneità, i quali rimangono dunque dolorose parti di un tutto senza voce. È in questa mancanza di una prospettiva globale, conscia del proprio privilegio del vivere comunque una condizione di benessere ereditata dal passato ma allo stesso tempo afflitta ugualmente da un disagio esistenziale, che si scorge qualcosa di generazionale in cui tutti i post-adolescenti degli anni zero sapranno ritrovarsi.
Poi ci sono quelli come me. Che hanno ventiquattro anni, una laurea e sono già all’ultima spiaggia.
Il liceale che fa da voce narrante al primo racconto vero e proprio, Il fumo nei libri, potrebbe essere la versione più giovane dell’autore dei versi precedenti: il tono, mentre si narra degli ultimi anni di scuola e del piccolo spaccio di fumo all’interno di una biblioteca (un sistema collaudato di scambio droga-denaro tramite libri), è infatti più lieve, privo dell'ansia che avevamo riscontrato nel componimento in apertura, con la prosa ironica che ci si aspetta da un teenager non superficiale ai primi passi della costruzione della sua personalità. Personalità che passa, è inevitabile, anche dalla formazione di una coscienza politica, come accade nel racconto Social forum in cui la partecipazione, quasi casuale, alla manifestazione fiorentina sancisce il primo contatto con la varietà del mondo, il momento irripetibile in cui ci si fabbrica una propria, ingenua identità attraverso l’incontro/scontro con gli altri.

Il filo comune dei racconti successivi è quello della post-adolescenza, quel periodo in cui sono già arrivate le prime vere preoccupazioni (su tutte, il lavoro) e la vita rischia di farsi terribilmente standardizzata, senza più brividi. Un momento colto con immagini simboliche, ad esempio l’istante in cui vieni a sapere che la ragazza che hai baciato a 11 anni ha partorito e ti rendi conto di colpo di quanta acqua sia passata sotto i ponti nel frattempo. In sordina, e senza troppo vittimismo, l’autore parla di quella sensazione che abbiamo provato tutti nel rimpiangere quella libertà che avevamo da ragazzi e che non può esserci più. Lo scorrere del tempo visto dalla generazione Erasmus.

La paura più grande per Pasquini (o almeno per i suoi protagonisti) è quella di ritrovarsi in una famiglia come quella del racconto Nessuno dei tre, formata da padre tassista blandamente destrorso, moglie fedifraga e figlio omosessuale cleptomane: nessun contatto umano tra loro, solo routine quotidiana che asporta dall’esistenza ogni possibile slancio, in un equilibrio mostruoso fondato sul non detto e sull’apatia. Per i tre protagonisti giungerà però il momento non più rimandabile del guardarsi in faccia senza ipocrisia e, finalmente, sapranno riconoscersi; un quasi lieto fine precluso ad un altro ritratto familiare, quello de La cosa pubblica, dove torna il tema del tradimento, quasi fosse naturale sbocco del processo degradante dell’integrarsi in una famiglia.
Il timore è quello che non ci sia scampo per nessuno da questo meccanismo, se è vero che in Dove sono finiti tutti gli esseri umani/2 ritroviamo il Bandelli, protagonista sedicenne de Il fumo nei libri, a piangere invecchiato sulla sua condizione di “incastrato” nella routine della vita da adulto. Essa appare come una sconfitta inaccettabile anche in On the road, racconto che trae il titolo dal festival che aveva svezzato la protagonista, una giovane ragazza di cui seguiamo i tremori e gli stupori fino a coglierla, emblematicamente, alla fine di un’epoca, il momento appunto in cui quella rassegna che tanto ha significato per lei viene chiusa: metafora cristallina del passaggio non voluto e traumatico dall’età delle scoperte e degli sballi a quella che dovrebbe segnare la famigerata e vituperata maturità, da cui guardare in una prospettiva straniante quell’adolescenza un tempo creduta unica ed eterna. E allora tocca pure specchiarsi nel volto stempiato di Job, l’olandese conosciuto anni prima ad un rave e che ora, abbandonate le feste e le droghe, ha messo su famiglia e tiene in braccio un marmocchio ricordandosi a malapena dei trascorsi che avete condiviso.

I diversi narratori dei racconti sono tutti variazioni del giovane uomo medio-borghese, benestante ma non eccessivamente ricco, colto e dallo sguardo curioso sul mondo, laterale ma non distaccato. Leggendo Ripescati dalla piena mi sono venute in mente anche altre due band, oltre alle Luci: lo sguardo di Pasquini nei confronti della sua contemporaneità è simile a quello di Niccolò Contessa, leader de I Cani, e a quello de Lo Stato Sociale; stessa distanza dai riti sociali cui comunque non si rinuncia, stesso punto di vista a un tempo comprensivo e giudicante sui cliché propri ed altrui. Stessa ironia, di quel tipo che il neolaureato de La cosa pubblica fa su se stesso riflettendo sulla propria condizione di fresco disoccupato; è, anche, ironia sull’ironia altrui, e solo una dose minore di cinismo rispetto a quello usato dai gruppi citati evita a Pasquini gli eccessi e l’ambiguità di un modus ridendi che può essere interpretato come senso di superiorità, volontà di mostrarsi comunque più scafato degli scafati. L’autore privilegia il racconto delle sue storie all’effetto sarcastico, a tutto vantaggio del libro.

La vita dei protagonisti si divide tra uscite con gli amici storici, partite della Fiorentina, lavori saltuari (spesso nel mondo del giornalismo e degli aspiranti scrittori) e rapporti altalenanti con le ragazze; esemplare compendio di questo piccolo universo provinciale è il racconto Un gioco da bambini. Una normalità descritta con sicurezza e con uno sguardo divertito ma mai sbracato, sempre con un occhio verso gli aspetti più malinconici di questo stallo esistenziale in cui molti potranno facilmente riconoscersi, pur senza essere mai stati innamorati di Gabriel Omar Batistuta.
forse la provincia non è un’area geografica, ma uno stato dell’anima. Provincia è esagerazione indebita delle emozioni, sopravvalutazione del peso degli eventi, del ruolo delle persone
Spesso Pasquini scegli il finale in minore, senza il colpo di scena o la chiusura epocale: raramente la vita concede conclusioni nette e pirotecniche, il suo flusso prosegue blando come era iniziato. In conclusione, direi che tutti i racconti sono piacevoli e ben scritti; forse, per riallacciarci al discorso di Cataluccio e del suo Immaturità, manca sempre un passo ulteriore, il più difficile: appurata la feroce anche se morbida ineluttabilità della transazione dall’adolescenza all’età adulta, dal tempo dei sogni a quello della concretezza, cosa si può fare per andare avanti? Fermarsi malinconicamente a constatare la sconfitta è dolce(amaro) ma, alla lunga, può condurre alla frustrazione, al cinismo, al fatalismo. L’opposto di ciò che rimpiangiamo. Bisognerebbe, allora, trovare una via perché crescere non sia morire. Io, coetaneo di Pasquini, penso che ci si possa provare. Abbiamo tutto il tempo per cercare assieme. 

Nicola Campostori