in

Invito alla lettura di Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita

- -

Il Maestro e Margherita
di Michail Bulgakov
Oscar Mondadori, 1991


Traduzione di S. Prina
pp. 558
€ 10,50




Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, scritto negli anni ’30, ma pubblicato postumo solo negli anni ’60, dopo pesanti interventi censori e finalmente in edizione integrale nel 1973 e poi nell'edizione definitiva, basata sugli autografi, nel 1989, ha tutti i diritti di essere tenuto ben fermo nel canone novecentesco, fors’anche considerato un classico, sebbene inestricabilmente legato ad una precisa, drammatica e opprimente, situazione storico-sociale e culturale.

È un’opera composita in cui si alternano più piani narrativi: quello della realtà contemporanea (il referente, il mondo dell’autore e del lettore implicito); quello della fantasmagoria, il Diavolo in persona e i suoi aiutanti che vengono a smascherare e riparare le storture della realtà; e quello del romanzo storico, incentrato sul ruolo e sui dubbi di Ponzio Pilato sulla crocefissione di Gesù. I modelli letterari cui implicitamente o esplicitamente Bulgakov fa riferimento sono il Buvard e Pécuchet di Flaubert (gli incipit delle due opere sono quasi perfettamente sovrapponibili) e il Faust di Goethe. Da un lato quindi la satira sociale, bonaria in Flaubert, feroce in Bulgakov, e dall’altro la grande varietà stilistica, una specie di summa delle più diverse modalità narrative, dal comico, al tragico, dal sublime alla narrazione storica, dal razionale al sentimentale. Se di Flaubert manca la bonomia, di Goethe manca il grande afflato filosofico, l’epica dell’opera-mondo: e ben si capisce, vista la condizione esistenziale di Bulgakov costretto a trasformare la bonomia in risentimento feroce e l’afflato filosofico nella pura e semplice libertà di espressione. E sono proprio questi due elementi, il risentimento e la mancanza di libertà d’espressione, così contingenti, così legati alla situazione dell’uomo Bulgakov, così apparentemente estranei alla creazione letteraria, che, viceversa, rientrano nel romanzo sottoforma di lievito e d’ispirazione, liberandolo dalle pastoie dell’arido autobiografismo.

Indipendentemente dai riferimenti letterari, il testo di Bulgakov attrae subito per la grande capacità di concertare i diversi elementi della narrazione, concertazione che, se non si può definire musicale, è sicuramente teatrale e di grande fascino: paesaggi, sfondi, dialoghi, pensieri, movimenti dei personaggi sono posti sotto l’occhio del lettore in maniera strabiliante, ed emergono un dinamismo e una plausibilità non comuni. In Bulgakov i dettagli realistici, la vivezza della scena, i particolari grotteschi, comici, incongrui hanno la funzione di presentare un mondo inafferrabile per i personaggi e per lo scrittore. Bulgakov è un Kafka al contrario, con in più un evidente spirito vendicativo e a-religioso, forse addirittura irreligioso: l’elemento angosciante, inquietante, opprimente, misterioso, violento, autoritario, non s’abbatte sul personaggio “buono”, controfigura dello scrittore, bensì sui burocrati, i conformi, i funzionari soddisfatti di sé, sugli arrivati e gli arrivisti, i privilegiati, i “sempre in regola”, senza, per altro, nessuna distinzione sociale o culturale.

Il Maestro e Margherita (e la scelta del nome rimanda di nuovo al Faust) ha come tema lo scontro tra il mondo della realtà, dove trionfa la meschinità, il privilegio immeritato, il conformismo e che coinvolge tutti i personaggi e tutti i ceti sociali, dal funzionario di grado elevato al barista, dall’impiegato alle domestiche (e qui da un lato Bulgakov non tace le differenziazioni sociali della Russia comunista e dall’altro, però, non ne fa motivo di differenziazione del giudizio sull’umanità: i poveri di spirito, i piccoli non sono migliori dei grandi – e la lontananza da ogni consolazione di carattere cristiano è uno dei significati più specifici del romanzo) e il mondo della fantasmagoria, che rappresenta anche forse la libertà della letteratura rispetto alle pastoie di una realtà irrespirabile, ma si realizza e opera nel mondo del romanzo attraverso il Male, il Diavolo addirittura (e mai epigrafe è stata meglio scelta) e soprattutto non nasconde il risentimento, lo spirito vendicativo (altro elemento a-cristiano): è il diavolo a fare giustizia, a salvare i buoni e spaventare i cattivi. Spaventare, sì, perché in realtà i cattivi non vengono sconfitti, ma solo spaventati e torneranno ben presto ad affondare gli artigli sul mondo, ne riprenderanno possesso, attraverso una disperante (altro elemento a-cristiano) normalizzazione razionalistica dettata dall’autorità, che svuota la fantasmagoria, la letteratura, d’ogni potere di sovversione. Dicevo che il motore del romanzo sta nella drammatica situazione personale dello scrittore e che essa rientra a pieno titolo nel mondo della finzione romanzesca, non ne inficia la plausibilità e la coerenza interna. Anche se lo scrittore, il lettore implicito e il lettore contemporaneo possono vedere un lumicino di speranza nel fatto stesso che un libro del genere possa essere stato pensato e scritto nella Russia degli anni ’30 – ed è, per altro, quanto Montale ebbe a dire su questo romanzo.

Riguardo alla condanna universale su tutta la società russa di quegli anni, che salvo il diavolo e i suoi grotteschi aiutanti, non risparmia nessuno, nemmeno il Maestro e Margherita, nemmeno il malinconico Ivan, rimane nel romanzo una specie di filo penzoloni, non raggomitolato al resto della narrazione. Si tratta del personaggio Rjuchin, che accompagna il furioso Ivan all’ospedale psichiatrico e che impressionato dalle sue accuse sembra voglia sottrarsi a quella vita insensata di poeta di regime, ma anche lui sembra ritrarsi, sembra volersi ri-immettere in quella vita, e fare di quella aspirazione solo una parentesi: è quasi un personaggio che sarebbe potuto essere, che avrebbe potuto rappresentare un’alternativa, ma viene bloccato, irrisolto (non so quanto consapevolmente da parte di Bulgakov, troppo risentito e disperato per permettersi un personaggio positivo).

In un certo senso il risarcimento fantasmagorico offerto dalla letteratura contro la realtà è da un lato una sorta di patologia psichica individuale e dall’altro denuncia la patologia sociale delle credenze: gli afflitti saranno consolati (come vorrebbe la buona speranza cristiana), sì, ma solo grazie alla vendetta e non per l’avvento di un mondo migliore. Il male può essere combattuto sola dal Male.

Tra il mondo della realtà e quello della fantasmagoria risarcitoria e liberatoria, vi è il mondo storico e letterario del romanzo di Pilato, dove, per altro, la maestria narrativa di Bulgakov si manifesta scevra di quei residui ideologici ed esistenziale che sono al contempo, però, il lievito dell’opera. Il mondo di Pilato non si abbandona, ma nemmeno si nega, alla sovrapposizione con la realtà contemporanea, basti pensare al comportamento ambiguo e fraudolento dei servizi di polizia dello stesso Pilato. Ma anche in questo caso si potrebbe far emergere il disperato pessimismo dell’autore: mentre nel romanzo di Pilato c’è ancora qualcosa da salvare, se non altro la cattiva coscienza di Ponzio Pilato stesso, o l’abnegazione di Marco Levi, che però scrive una pergamena del tutto infedele su Cristo, nella realtà contemporanea non c’è proprio più niente da salvare: la Storia ha fatto il suo corso, ha negato ogni consolazione. Realtà contemporanea, romanzo storico e fantasmagoria risarcitoria si sfiorano, si toccano, si incontrano e, soprattutto, si scontrano senza compenetrarsi, senza che uno possa agire sull’altro. Sono mondi separati. È la stessa separazione che vige tra Bene e Male: il Bene può agire attraverso il Male, ma non può mischiarsi ad esso, e per altro rimane distante e inaccessibile alla realtà, alla storia e alla fantasmagoria (non vi è nessuna rappresentazione del mondo del Bene).

Che l’opprimente situazione politica, sociale e culturale contemporanea allo scrittore e le epurazioni staliniane siano il motore, anche letterario, del romanzo sta a dimostrarlo, questa frase che sembra buttata lì di sfuggita: “supponiamo persino che non ci piglino…” (pag. 440) dice il Maestro a Margherita che vorrebbe tornare a vivere una vita normale. E considerare la situazione esistenziale dello scrittore interna al romanzo è suggerito anche da una chiave che lui stesso fornisce (spesso gli scrittori offrono al lettore non implicito una chiave per penetrare al di là dell’involucro letterario che riveste la sua opera, chiave che lo porta alla sua vita, alle sue idee sul mondo) ad un certo punto il Maestro dice “Quando la gente è stata depredata di tutto, come noialtri, cerca salvezza in una forza ultraterrena” (pag. 442). Ancora una volta, patologia sociale delle credenze religiose e patologia individuale della fantasmagoria.

Un elemento strutturale che ribadisce la separatezza dei due mondi è la diversa rappresentazione in essi del “tempo dell’orologio”: nel mondo reale esso è continuamente ribadito e specificato in termini di orario e giorni della settimana; nella fantasmagoria esso è annullato e il suo trascorrere è sospeso. Nel romanzo di Pilato (il terzo mondo, come s’è detto) è rappresentato come nel mondo reale, salvo che nel finale dove si scopre che Pilato ha atteso 2000 anni prima di potersi considerare salvo.

Certo, parlare di irredimibile pessimismo, di disperante e disperata concezione della realtà a proposito di un’opera tutto sommato comica, varia, divertente, multicolore, teatrale, frizzante, può sembrare prenderlo contropelo, tradire i dati immediati (o superficiali) con cui vuole presentarsi al lettore. Cionondimeno sul piano della formalizzazione letteraria e sul piano dell’orizzonte ideologico entro cui si inscrive, non è da dubitare che il romanzo vada letto in quella prospettiva. Forse si potrebbe ribadire che il fatto stesso di essere stato scritto è di per sé una speranza per l’umanità e che la prospettiva disperante va applicata alla realtà, al mondo, ma non alla vita, a una vita che può ancora essere comica, varia, divertente, multicolore, teatrale, frizzante: in fondo, basterebbe cambiare il mondo.