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CriticaLibera - La storia di Samia Yusuf Omar, piccola guerriera senza paura

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C’è stato un tempo, in cui ho sentito quella spinta. Quella dei piedi che devono correre, degli arti che devono stendersi, tirare e non cedere, mentre i muscoli si gonfiano. Un tempo in cui essere un’atleta era tutto ciò che volevo, tutto ciò che mi importava. Io non ero un talento, però, e il mio sport non era correre. Non sono cresciuta in un paese in guerra, non ho vissuto la vita di Samia Yusuf Omar. Così ho mollato, nel mio mondo occidentale, un calmo caos di certezze, non c’è nulla di così importante, che ti spinga a correre. Lei no, lei ha sempre lottato, con il suo corpo esile che correva come volasse, e le scarpe sfondate, la luna sul campo, quando a Mogadiscio c’era il coprifuoco. Perché avere una certezza, e uno scopo, quando vivere è una scommessa quotidiana, quando gli affetti sono uno scudo fragile, perché fragili sono i legami, di fronte alla guerra e fragile è la pietà di fronte alla paura, ecco, avere uno scopo è l’unica cosa che può spingerti oltre. La vicenda di Samia andava raccontata, e Giuseppe Catozzella, giornalista e scrittore, l’ha fatto nel migliore dei modi (leggi la recensione). Non solo perché ci sono milioni di ragazze e ragazzi come Samia che sfidano la sorte ogni giorno, per mesi in cammino su strade di torture e sofferenze, di ricatti e stenti, affrontando il Viaggio come fosse una tappa già segnata, nella vita di chi è nato dalla parte sbagliata del Mediterraneo, ma perché ce ne sono tanti altri che non devono dimenticare che dietro ogni morte c’è una storia, una speranza di futuro uguale alla loro, ci sono sogni, ci sono legami, ci sono valigie con dentro mondi interi, e questa non è un’avventura, non è scegliere di partire, è scegliere di essere. 

La gara di Samia Yusuf Omar, che partecipa alle Olimpiadi di Pechino 2008, rappresentando il suo paese, la Somalia, è una corsa coraggiosa, con un finale già scritto. Tutte le altre atlete, sulla pista, sono veloci “come gazzelle, come libellule o colibrì”, lei corre e arriva ultima, con 11 secondi di ritardo, e in quel momento, inquadrata con il volto sofferente e le gambe esili, senza l’ombra di un muscolo, senza l’opulenza delle forme, Samia rappresenta davvero il suo paese, e l’angolo nascosto in cui l’Occidente l’ha lasciato, per poi accorgersi che esiste solo come un fenomeno di cui impietosirsi. Così, dopo aver perso, con le telecamere e i giornalisti pronti a intervistarla, la giovane somala, riflette, attraverso la voce che il suo scrittore le dona: 
Ero arrivata ultima, eppure, ecco l’incredibile, dopo nemmeno dieci minuti sono stata sommersa anch’io dai giornalisti di tutto il mondo. La ragazzina di diciassette anni magra come un chiodo che viene da un paese in guerra, senza un campo e senza allenatore, che si batte con tutte le sue forze e arriva ultima. Una storia perfetta per spiriti occidentali, ho capito quel giorno. Mai avevo avuto un pensiero simile. Non mi è piaciuto.

In queste righe c’è la motivazione per cui si decide di raccontare una storia così, per vergogna, come ha ammesso lo stesso Catozzella, “perché da italiano non ho fatto niente perché ciò venisse impedito”, ma anche, mi sento di aggiungere, perché nessuno si abitui alle commemorazioni e pensi che possano bastare. Indignarsi non è necessariamente capire, ma raccontare e testimoniare è un atto di comprensione e di amore. Grazie alla comprensione, profonda, dello scrittore, e all’incontro con i superstiti di questa storia, tra cui l’amata sorella Hodan, Giuseppe Catozzella racconta la vicenda di questo scricciolo somalo in prima persona, e i pensieri di Samia diventano parole, autentiche, reali, sussurrate a chiunque si accosti a questo libro bellissimo, che ha meritatamente vinto il premio Strega giovani, e che commuove, oltre a toccare profondamente il lettore. Il sogno di diventare un’atleta vera nasce dall’umiliazione alle Olimpiadi, e la piccola Samia decide in cuor suo che è a Londra 2012 che deve arrivare. Sembra trovare il coraggio, un giorno, dopo aver conosciuto una giornalista americana e si trasferisce, lasciando tutto e tutti, in Etiopia. Ma ancora una volta è un destino clandestino il suo, i documenti non arrivano e lei non può allenarsi se non di notte, come a casa sua, tanti anni prima. Un nuovo viaggio la attende a questo punto, quello verso la libertà vera. L’Europa è il suo sogno, la Finlandia la sua meta. Così intraprende il Viaggio, attraverso il deserto, fino in Libia, perdendo ogni consapevolezza umana, navigando nell’egoismo e tra gli stenti, diventando l’animale che i suoi aguzzini vogliono che sia 
Il viaggio dentro il container spalanca gli occhi sulla follia degli uomini. Dopo poche ore non ci sono più differenze di sesso. Uomini e donne sono uguali, ci si riduce al minimo comune denominatore. Di te resta solo l’ombra che chiede di sopravvivere. Non ricordi nemmeno più se sei donna o uomo. Dentro quel container forse c’era qualche cristiano etiope, ma la maggioranza era musulmana. Eppure non c’era donna con le gambe o la testa coperte. Tutto fuori, tutto esposto, perché non rimane più niente, se non quel corpo che ricordi essere tuo solo per alcuni particolari. Il neo che hai sulla coscia. Le dita storte dei piedi. La cicatrice sulla pancia. Sei tu.
Poi la parte più “facile” del viaggio di Samia, quando finalmente arriva a Tripoli, e tutto il mondo riacquista colore, insieme alla libertà, al pensiero quasi incredibile che il deserto sia rimasto dietro le spalle, dopo quasi un anno dalla sua partenza, la piccola guerriera, ormai l’ombra di se stessa, è pronta per prendere il mare e arrivare a correre sui campi europei, che tanto sogna. Leggendo la storia è come se si leggesse la storia di un parente, perché Samia diventa un po’ noi, il suo linguaggio, fatto di termini all’inizio estranei, diventa un linguaggio familiare. Per un attimo - lo spazio di alcune pagine - cominci a nutrire una speranza: forse non è davvero la sua storia, magari scopro che lei ce l’ha fatta, che ora corre ed è felice, che è rimasta a Tripoli, che questa storia può avere un finale diverso: 
Ci sentivamo salve. Eravamo in città, c’era tutto ciò che serviva per vivere, era lì e nessuno ce lo avrebbe strappato di mano o ci avrebbe bastonato. Acqua, frutta, cibo. Sarei rimasta a Tripoli anche per tutta la vita, come molte pensavano di fare appena arrivate, se non fossimo state tahrib e la polizia non ci avesse odiato a morte per gli accordi che il governo libico aveva preso con quello italiano. Dovevamo essere respinte nei nostri paesi. Questo lo sapevamo. 
Ma questa storia è una storia vera, non la riscrive la fantasia, non la rende migliore il tempo. Questa è la storia di Samia Yusuf Omar, morta nel Mar Mediterraneo il 2 aprile 2012 mentre tentava di raggiungere le funi lanciate da un’imbarcazione italiana. E questa stessa storia si ripete ancora, centinaia di volte, con questo stesso identico finale, ancora adesso, mentre la stiamo leggendo. “Non dirmi che hai paura” si ripetevano Samia e sua sorella, per tenere lontano quel mostro; ma la paura è il lusso della felicità, scrive Catozzella, ed è senza paura che Samia è annegata nella sua libertà.