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La Repubblica tradita

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Il grande gioco del potere
di Sandra Bonsanti
Chiarelettere, 2013

pp. 240

 

Sandra Bonsanti, giornalista e scrittrice, alla Camera dei Deputati dal 1994 al 1996 quando è stata membro della commissione parlamentare antimafia, vanta una prestigiosa esperienza: Il Mondo, Epoca, Panorama, La Stampa, La Repubblica, dove è stata una delle firme più prestigiose prima di diventare direttore de Il Tirreno. Questa le ha permesso di vivere e raccontare ciò che il giudice Giovanni Falcone definì “Il grande gioco del potere”. Con questo libro, torna in qualche modo sul luogo del delitto visto che già con Longanesi ha trattato i misteri della Repubblica e fatti conosciuti in prima persona, dalla storia di Roberto Calvi al crollo del regime Andreotti-Craxi. Da Gelli al caso Moro, da Gladio alle stragi di mafia, in una terribile circolarità che permette di dire a uno degli interlocutori intervistati: “tutto comincia dalla Sicilia e tutto ritorna in Sicilia”.
Ma siccome si parla di un libro, seppure un saggio e non un romanzo, sottolineo subito un aspetto pregnante. Cosa vi si trova, al di là delle vicende e dei personaggi? I greci usavano due termini per dire “parola”: logos ed era la parola intesa in un’accezione divina; epos ed era la parola strumento di comunicazione, la parola che fondava un senso di comunità, di sentire civile. Ne “Il grande gioco del potere” emerge l’epos. Secondo aspetto: è possibile riscontrarvi un sistema di valori a cui credere e che certi poteri, certi subdoli protagonisti hanno violato, perfino assassinato. L’ethos. Terzo elemento, nel libro c’è tanta poesia, un rumore di fondo lirico che è il rilancio di una speranza.

C’è bisogno della speranza che Sandra Bonsanti prova a coltivare animando l’associazione Libertà e Giustizia, nata nel 2002 su proposta di note personalità della cultura italiana, come Gustavo Zagbrebelsky, che chiude il volume con una dotta dissertazione sul denaro trasformatosi da mezzo a fine. Tra gli obiettivi: laicità dello Stato, efficacia e correttezza nell’agire pubblico, equilibrio tra i poteri. Temi che sembrano esclusi dall’attuale dibattito, dimenticati o bistrattati.

Un filo rosso lega la vicenda italiana dal dopoguerra: ovvero centri di potere occulto, spesso annidati negli stessi edifici dove onesti e coraggiosi funzionari dello Stato indagavano e provavano a scoperchiare le manovre più oscure, perfino golpiste, hanno lavorato per svuotare la Costituzione e spingere l’Italia verso derive autoritarie o al più oligarchiche. Nel libro ricorrono la P2 e Licio Gelli, trame velenose, più o meno esplicite che nulla avevano e hanno a che fare con il principio di trasparenza e il tentativo inclusivo di allargamento della democrazia. Servizi segreti che come in un gioco di scatole cinesi si articolavano in strutture ancor più segrete di quanto già non fosse la casa madre: Gladio, in primis. Ma oltre a Gladio, esisteva (esiste?) una struttura ulteriormente nascosta dove si sono potuti celare manovalanza e condizionamenti della vita civile che andavano al di là degli impegni atlantici sottoscritti dall’Italia dopo la spartizione del mondo decisa a Yalta.
Cose risapute, certo, ma quel che emerge è un carattere più generale di questa deriva: al di là di Gelli e della P2, con annessi e connessi, emergono elementi di natura culturale come il gellismo e il piduismo, la tendenza cioè di uomini e apparati di perseguire un disegno di modifica sostanziale dell’assetto del potere in funzione del potere stesso, strategia grazie alla quale porre sotto controllo ogni possibile contropotere legale, autonomo e indipendente, dalla magistratura alle forze armate al sistema dell’informazione. Se alcuni uomini e organizzazioni sono stati buoni maestri, non sono mancati e non mancano allievi che hanno imparato la lezione e provano a metterla in pratica magari con strumenti più eleganti, ma che non spostano di una virgola il risultato.

C’è chi ha scelto la strada della deformazione, della negazione della democrazia, magari confondendo l’opinione pubblica con il mantenimento delle procedure formali, e c’è anche chi ha scelto la strada del silenzio e dell’accondiscendenza. Qui entra in ballo il ruolo della sinistra italiana e del Pci prima del suo scioglimento: sapevano gli alti vertici del Pci dell’esistenza di strutture clandestine e semi-clandestine rivolte proprio contro di loro in un’eventuale precipitare della situazione? Era disposto il Pci a stare il gioco, rischiosissimo, del potere imperniato peraltro su quello che venne definito “fattore K” e cioè l’impossibilità per i comunisti non tanto di assumere incarichi ma perfino di avvicinarsi all’area di governo? Quali contropartite esistevano?
C’è un passaggio del libro, un inciso, dove a Sandra Bonsanti deputato viene fatto rilevare come non fosse opportuna una legge sul conflitto di interessi. Difatti dal 1996 al 2001, quando il centro-sinistra si dilanierà in tre governi (Prodi, D’Alema, Amato) ma avrà pur sempre la guida di Palazzo Chigi, nulla in questa direzione verrà fatto. E Berlusconi potrà, tornato al comando, diramare il famoso editto bulgaro che permise la cacciata di Biagi, Luzzatti e Santoro dalla Rai. Già, Biagi, quello che all’epoca dello scandalo P2, altri personaggi chiedevano di fare fuori dal “Corriere della Sera” sul quale si sprecavano tentativi di infiltrazione e conquista. Ecco un esempio di circolarità perversa, come si manifesti quella siciliana accennata in precedenza rimando invece alla lettura. Ne vale la pena.