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#CriticaLibera - Gli strumenti umani, gli strumenti della poesia: Vittorio Sereni nel centenario della nascita

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Che la parabola poetica di Vittorio Sereni (1913-1983) si chiuda con la lirica Altro compleanno è indicativo e in un certo senso ribadisce, à bout de souffle, l'ossessione o, per dirla con lo stesso luinese, la 'fedeltà' a una delle sue 'esili' ma vitali e feconde mitologie. Già nella raccolta d'esordio, Frontiera (1941), era stato messo in versi un Compleanno dove il soggetto poetante si rivolgeva a una "città grave" e quindi a una "amara estate". Incisivo e memorabile l'epilogo, gravitante attorno all'immagine, vivida e quasi cinematografica, di "una strada senza vento" in cui si inoltra "la giovinezza che non trova scampo" del poeta. A distanza di quarant'anni, l'ultimo testo che suggella l'ultimo libro sereniano (Stella variabile, 1981) ripropone lo stesso doloroso 'sentimento del tempo' cristallizzato in un immaginario estivo-metropolitano che sembra aggiungere una postilla fondamentale alla poesia 'giovanile':
A fine luglio quando
da sotto le pergole di un bar di San Siro
tra cancellate e fornici si intravede
un qualche spicchio dello stadio assolato
quando trasecola il gran catino vuoto
a specchio del tempo sperperato e pare
che proprio lì venga a morire un anno
e non si sa che altro un altro anno prepari
passiamola questa soglia un volta di più
sol che regga a quei marosi di città il tuo cuore
e un'ardesia propaghi il colore dell'estate.
(Altro compleanno)[1]
Con il preciso riferimento stagionale del primo verso fa irruzione da subito il dato biografico (il poeta è nato il 27 luglio) o, per meglio dire, esperienziale che nutre tutta la produzione poetica di Sereni, forse la più grande, per esiti artistici e per impatto sulle generazioni successive, nel panorama del secondo novecento italiano. Soprattutto l'importanza e la peculiarità di questa scrittura hanno modo di emergere in quell'equilibrio (sempre ricercato e perennemente provvisorio) tra esistenza e scrittura che alla fine si propone come una vera e propria cifra distintiva. Potrebbe essere questo, infatti, il filo conduttore da seguire - uno dei tanti, in verità, che si dipanano dall'opera in versi del luinese - per "festeggiare", anche con il supporto di alcune recenti novità editoriali presenti sugli scaffali, il centesimo compleanno del poeta. 

Distillata nell'arco di un quarantennio, pur attraversando tendenze e temperie culturali eterogenee - dagli esordi attigui a certi caratteri dell’ermetismo fiorentino fino alle prove più mature, contrassegnate da un registro prosastico e narrativo -, la poesia di Sereni rimane comunque fedele a un nucleo concettuale che riconosce nella necessità e nel fondamento esperienziale della dizione poetica il più alto valore possibile. All'insegna della 'frontiera', di una zona di riporto tra la vita vissuta e la sua riproposizione sulla pagina bianca ("Mai la pagina bianca o meno per sé sola invoglia", Un posto di vacanza, I, 9) sembra svilupparsi, infatti, tutta l'attività poetica sereniana. Basti constatare con quale frequenza e con quale evoluzione metamorfica si riscontri questo tropo nell'opera del luinese: dal correlativo oggettivo (e storico) del primo libro al limbo/purgatorio del Diario d'Algeria (1947), dal dialogo con i trapassati alla dimensione onirica delle ultime due raccolte, Gli strumenti umani (1965) e la già citata Stella variabile.

In quest'ottica il 'mito' giovanile sereniano dell' "unico libro", al di là delle svolte e degli sviluppi che prenderà la sua poesia, si realizza nella fedeltà, assoluta e a tratti lacerante, al reale fenomenico, agli attimi che lo compongono ("A quegli esperti avrei voluto dire delle altre ombre e colori / di certi attimi in noi, di come ci attraversano nel sonno / per sprofondare in altri sonni senza tempo, / per quali secche e fondali tra riaccensioni e amnesie, / di quanti vi spende anni l'occhio intento / all'attraversamento e allo sprofondo prima che aggallino / freddati nel nome che non è / la cosa ma la imita soltanto", Un posto di vacanza, VI, 14-21). Un'adesione, questa, che tuttavia, non restringe la visuale del poeta, il quale, se tiene un piede ben piantato dentro le contingenze della realtà, è altrettanto vero che con l'altro varca, in ogni istante, la frontiera: "Sappi - disse ieri lasciandomi qualcuno - / sappilo che non finisce qui, / di momento in momento credici a quell'altra vita, / di costa in costa aspettala e verrà, / come di là dal valico un ritorno d'estate" (Autostrada della Cisa, 9-13).

Da Frontiera:


Alla giovinezza
È cominciata una canzone losca
di rane tra le colline
e da un'estate mortale
- forse l'ultima tua -
s'avventano rondini in volo
perdutamente, come tu cammini
verso un'aria fondissima, brumale.
E delle voci che da me
si dilungano, quale
potrà volgere il tuo e il mio cammino
a una marcia d'insonni girasoli?
Ma non sanno altro bene o altro male
che un lago azzurro o grigio
i tuoi occhi dall'ombra d'un viale.
Strada di Zenna
Ci desteremo sul lago a un’infinita
navigazione. Ma ora
nell’estate impaziente
s’allontana la morte.
E pure con labile passo
c’incamminiamo su cinerei prati
per strade che rasentano l’Eliso.

Si muta
l’innumerevole riso;
è un broncio teso tra l’acqua
e le rive nel lagno
del vento tra stuoie tintinnanti.
Questa misura ha il silenzio
stupito a una nube di fumo
rimasta qua dall’impeto
che poco fa spezzava la frontiera.

Vedi sulla spiaggia abbandonata
turbinante la rena,
ci travolge la cenere dei giorni.
E attorno è l’esteso strazio
delle sirene salutanti nei porti
per chi resta nei sogni
di pallidi volti feroci,
nel rombo dell’acquazzone
che flagella le case.
Ma torneremo taciti a ogni approdo.
Non saremo che un suono
di volubili ore noi due
o forse brevi tonfi di remi
di malinconiche barche.

Voi morti non ci date mai quiete
e forse è vostro
il gemito che va tra le foglie
nell’ora che s’annuvola il Signore.

Da Diario d'Algeria:
Rinascono la valentia
e la grazia.
Non importa in che forme - una partita
di calcio tra prigionieri:
specie in quello
laggiù che gioca all'ala.
O tu così leggera e rapida sui prati
ombra che si dilunga
nel tramonto tenace.
Si torce, fiamma a lungo sul finire
un incolore giorno. E come sfuma
chimerica ormai la tua corsa
grandeggia in me
amaro nella scia. 

Sainte-Barbe du Thélat, maggio 1944
Non sa più nulla, è alto sulle ali
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando
di pregar per l'Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.
Ho risposto nel sonno: - E' il vento,
il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d'angeli, è la mia
sola musica e mi basta -.
Campo Ospedale 127, giugno 1944
Da Gli strumenti umani:

Ancora sulla strada di Zenna
Perché quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché ridicono che il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è primavera, è un'estate,
l'estate dei miei anni.
Sotto i miei occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo bruciante di dolore.
Ma l'opaca trafila delle cose
che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei secoli,
le scarse vite, che all'occhio di chi torna
e trova che nulla nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni enormi
e un altro paesaggio gira e passa.
I versi
Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l'ultima sera dell'anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non è più felice l'esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l'Arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c'è sempre
qualche peso di troppo, non c'è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
Da Stella variabile:

Addio Lugano bella

quando nella notte ce ne andammo
Bartolo Cattafi
Dovrò cambiare geografie e topografie.
Non vuole saperne,
mi rinnega in effigie, rifiuta
lo specchio di me (di noi) che le tendo.
Ma io non so che farci se la strada
mi si snoda di sotto
come una donna (come lei?)
con giusta impudicizia.
                                 E dopo tutto
ho pozzi in me abbastanza profondi
per gettarvi anche questo.
Ecco che adesso nevica...
Ma io, mia signora, non mi appello al candore della neve
alla sua pace di selva
                                  conclusiva
o al tepore che sottende di ermellini
legni bracieri e cere dove splendono virtù
altrove dilaniate fino al nonsenso
ma vizze qui, per poco che le guardi,
come bandiere flosce.
Sono per questa - notturna, immaginosa - neve di marzo
                                   plurisensa
di petali e gemme in diluvio tra montagne
incerte laghi transitori (come me,
ululante di estasi alle colline in fiore?
falso-fiorite, un'ora
di sole le sbrinerà),
per il suo turbine il suo tumulto
che scompone la notte e ricompone
laminandola di peltri acciai leggeri argenti.
Ne vanno alteri i gentiluomini nottambuli
scesi con me per strada
                                   da un quadro
visto una volta, perso
di vista, rincorso tra altrui reminiscenze
o soltanto sognato.


Di taglio e cucito
                         Il giocattolo,
pecora o agnello che rappezzi
per ingiunzione della piccola,
di testa forte più di quanto non dica
il suo genere ovino
è in famiglia con te. Il tuo profilo
caparbio a ricucire il giocattolo
e quella testa forte: paziente
nell'impazienza - e il tuo cipiglio
che pure non molla la presa
sulla mia vita che va per farfalle
e per baratri... Per ogni
graffio un rammendo, per ogni sbrego
una toppa.
                 Quanto vale
il lavoro di una
rammendatrice, quanto
la tua vita.

Autostrada della Cisa
Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.
Sappi - disse ieri lasciandomi qualcuno -
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Ancora non lo sai
- sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

intervento e selezione antologica a cura di Pietro Russo

[1]. Tutte le citazioni dei versi sereniani sono tratte da V. Sereni, Poesie, ed. critica a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995.