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Da Lucy a semplicemente “lei”. Ma resta un capolavoro

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Quando lei era buona
(When she was good)
di Philip Roth

Einaudi, 2012 (1967)
p. 312


Non c’è nulla da fare, quando capita fra le mani un libro di Philip Roth e leggi l’ultima riga hai un moto di soddisfazione. Sono anni che mi arrovello per capire se è più grande lui o Cormac McCarthy, la trilogia sull’America o la trilogia della frontiera. È una lotta serrata ma come un po’ l’ultimo scudetto è sempre il più bello, appena finito questo romanzo Philip torna a sopravanzare Cormac. “Quando lei era buona”, edito da Einaudi, uscì per Rizzoli nel 1970 con il titolo “Quando Lucy era buona”. La lei nella nuova traduzione di Norman Gobetti è dunque Lucy Nelson. La storia è ambientata a Liberty Center, una cittadina americana del Midwest degli anni quaranta.

Qui si scava in maniera corrosiva nell’animo di una ragazza segnata fin dall’infanzia, a causa di un padre alcolizzato e violento e di una madre sottomessa. Ma il germe del collasso umano è ben dentro l’organismo familiare da almeno due generazioni. Il libro, infatti, si apre con la triste storia della sorella del nonno di Lucy, che diventato grande proverà a ergersi a nume tutelare del focolare domestico, per salvaguardare un equilibrio impossibile fra sua figlia, che è la madre di Lucy, il marito che la martirizza, Lucy stessa e la moglie. Con la capacità di smussare gli angoli tipica dell’adulto autorevole, il nonno prova a costruire un fortino domestico che esorcizzi le angosce e i masochismi di Lucy. Ma è solo un bagliore, con Roth il rovesciamento delle sorti è in agguato, sostenuto dalla freddezza di uno stile che mastica pagine quasi cinicamente. Anche il nonno ne uscirà con le ossa rotte, una sorta di padrino mal riuscito della provincia profonda. Ma nessuno dei familiari coglierà le pieghe del temperamento di Lucy portato all’auto-distruzione, al danneggiamento di ogni relazione e, di conseguenza, delle vite di chi le orbita attorno.

La bellezza di questo libro riposa nei momenti di svolta: non tanto della trama, che pure c’è, implacabile, ma del profondo di Lucy. Che pare, a volte, avvicinarsi a scelte salvifiche, compreso un aborto. E mentre il lettore aspetta la parola che sigilla la decisione, una parolina semplice semplice, un sì, un no, dunque nulla di trascendentale, il dialogo interiore si riapre improvviso come una voragine a rimettere in discussione, a rimescolare e a portare Lucy a compiere esattamente l’opposto di quanto poco prima pareva maturato.
L’aborto, il figlio… Lucy ha ceduto alle lusinghe di Roy Bassart, un militare reduce dalle isole Aleutine, e si è ritrovata prima incinta e poi sposata. Ora c’è da dire che il matrimonio per Lucy rappresenta la giusta prospettiva di riscatto: dentro una sua famiglia, potrà plasmare il proprio uomo e cancellare totalmente la figura e il ricordo del padre. Per questa idea autentica, rinuncia a proseguire gli studi al college, per il marito si tortura nel trovare la formula giusta della maturazione, concepita secondo i suoi canoni. Gli sforzi tuttavia decadono in una trappola di solitudine, materiale e interiore: Lucy realizzerà di non essere mai stata innamorata di Roy che anzi non stima e reputa irresponsabile.

Con queste premesse, non sorprende che i conflitti coniugali si facciano sempre più duri e che Lucy si ritrovi dominata da una folle determinazione a combattere una guerra personale. Che appare giusta, intendiamoci, ma come ogni guerra ha esiti incerti. Alla fine il lettore si accorge di essere passato da un incipit dominato da un’apparente calma piatta a toni di tensione tagliente. Fra intrecci temporali che fin dalla fine della prima parte svelano molto, non tutto, ma che non disturbano, perché travolti anch’essi dalla forza di una scrittura che, come poche altre, dà voce eroica, in senso greco, dunque tragico, al desiderio e al tormento.