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Weber, uno studioso di professione

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La politica come professione
di Max Weber
Oscar Mondadori,Milano 2009


con un saggio di Massimo Cacciari

pp. 176
€ 8.00
“La scienza come professione”, conferenza tenuta da Max Weber all’università di Monaco nel novembre del 1917, ha, all’apparenza, la forma di un piccolo trattato pedagogico sulla figura dello scienziato. All’apparenza. Perché Weber, nel suo lavoro, sta bene attento a non fornire allo studente, a cui l'autore si rivolge, semplici “linee guida”: egli propone una visione più ampia, quella del principio dell’oggettività che, come afferma il filosofo russo Jurij Davydov, costituisce un fatto di veridicità, innalzando il ragionamento a giudizi generali. E, attraverso citazioni che riflettono il carattere erudito di Weber, e che spaziano da Platone alle Upanishad, da Tolstoj a Goethe e a Nietzsche, il testo scorre sostenuto da consequenzialità logiche verificabili empiricamente. Ma qual è il destino di un uomo che, avendo deciso di dedicare la sua vita alla scienza, assiste alla corruzione della propria interiorità di fronte al “cattivo mondo”? C’è una condizione essenziale: l’«ispirazione». Aggiungendo questo concetto, Weber, abilmente, ribalta ciò che in passato si credeva fosse scienza, cioè mero esercizio di calcolo, e avanza ciò che potrebbe essere:
«Voi mi porrete infine la domanda: se così stanno le cose, che cosa offre allora propriamente la scienza di positivo per la “vita” pratica e personale? E con ciò ritorniamo al problema della scienza come “professione”. In primo luogo, naturalmente, la scienza offre conoscenze relative alla tecnica per dominare razionalmente la vita». (pag. 39)
Qui il nucleo della conferenza: la scienza usata con responsabilità offre, per il bene umano, i metodi per rendersi conto del proprio operare.

Più avanti nel tempo, il 28 gennaio del 1919, sempre all’università di Monaco, gli studenti ascoltano la seconda conferenza: “La politica come professione”. L’incipit non è rassicurante: «La conferenza che per vostro desiderio dovrò tenere vi lascerà per molti aspetti inevitabilmente delusi», dice Weber. Eppure, anche qui le proposizioni che la compongono sono concatenate da conseguenze logiche, stavolta storicamente verificabili. Molto più complessa della prima, “La politica come professione” parte dalla nozione di Stato, quella nozione ormai diventata celebre, che suona:
«lo Stato consiste in una relazione di potere di alcuni uomini su altri uomini fondata sul mezzo dell’uso legittimo (va a dire: considerato come legittimo) della forza» (pag. 53),
e passa all’analisi del potere legittimo, ai modi di fare politica, alle più intricate vicende politiche del suo tempo, che illustra con una invidiabile scientificità, e alle figure del potere. Tra le figure, quella del giornalista è sicuramente la più affascinante. Questi due testi, soprattutto l’ultimo, forse non si presentano come attuali. Sappiamo bene quanto la politica sia dominata da leggi dinamiche, spesso non determinabili: essa è legata all’attimo, addirittura all’attimo in cui è pensata. Tuttavia, per formazione, o ri-formazione del nostro secolo, un ritorno ai temi trattati da Weber non guasterebbe. Appare adesso seducente, o una necessità, rispolverare parole come “ispirazione”, “vocazione”, in un periodo storico in cui l’unico leitmotiv pare essere una politica filtrata dall’eros più scadente e dall'incapacità di concentrarsi su se stessa. Weber, come un maestro che vorrebbe consolarci, ci insegna infatti che:
«…soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: “non importa, andiamo avanti”, soltanto quest’uomo ha la “vocazione” per la politica». (pag. 135)
Speriamo bene.

Dario Orphée