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La bellezza e gli oppressi

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La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia
di Salvatore Veca
Milano, Feltrinelli, 2002

€ 13.00
pp. 175

Dieci lezioni sull'idea di giustizia. Per Salvatore Veca, uno dei più celebri filosofi politici italiani, ragionare di giustizia nel tempo inquietante del globo conteso, significa, citando Camus, misurarsi con il fatto dell'ingiustizia, dell'oppressione smisurata, ma anche serbare intatta la speranza della bellezza, sondare lo spazio del cambiamento, non utopico, ma possibile.

Veca declina così temi di centrale importanza per la filosofia politica contemporanea: il fatto del pluralismo (ricordando Berlin), il pluralismo come valore, i problemi insoluti di una teoria della giustizia senza frontiere, nel momento in cui gli stati nazionali abdicano i loro poteri erosi a istituzioni internazionali, spesso vacue (quando non direttamente a multinazionali), nell'ambito della cosiddetta costellazione postnazionale (come ci ha insegnato Jurgen Habermas), l'analisi del senso dell'ingiustizia come sentimento di non riconoscimento dell'identità, come sentimento di esclusione da cerchie di pari che si riconoscono mutuamente, fino a giungere a questioni più metateoriche, o comunque interne al dibattito dei paradigmi di giustizia, inaugurato nel 1971 dall'opera capitale di John Rawls, A Theory of Justice: il contrasto tra teorie utilitariste e teorie dei diritti, il debito largo delle teorie dei diritti e degli utilitaristi nei confronti di Kant, l'importanza per la filosofia politica delle scienze storico-sociali e psicologiche, le questioni di giustizia procedurale, il percorso intellettuale di Rawls successivo alla sua opera principale.


Nell'ultima lezione, quella in cui si dibatte il tema livido della guerra giusta e dell'ingiustizia della guerra, Veca sostiene che la filosofia politica, se vuole giungere ad una soluzione del rompicapo della giustizia globale, deve adottare una prospettiva, quella dell'utopia ragionevole, un criterio normativo, quello dello sviluppo umano come libertà, ed un metodo, quello della giustizia procedurale minima (con un'implicita critica all'idea di giustizia procedurale pura proposta da Rawls).

Nella presentazione di questo libro, non potendo dispiegare ogni tema trattato, ho deciso di soffermarmi sull'analisi del senso di ingiustizia, di cui Veca si occupa nell'ottava lezione.
Il senso di ingiustizia è un sentimento morale, la sua analisi perciò richiede la distinzione tra sentimento, valutazione e credenze: sentire che p è credere che p. L'ingiustizia può essere riferita a noi in quanto pazienti morali, o in quanto agenti morali. Nella misura in cui siamo pazienti morali l'ingiustizia è un'ingiustizia distributiva: x ha più risorse, beni, opprtunità di me e io ne ho meno di quanto dovrei. In quanto agenti morali invece l'ingiustizia esplica il fatto dell'esclusione: i partecipanti sono esclusi dal riconoscimento di meriti all'interno di una cerchia di pari, e dalla possibilità di cooperare all'esplicitazione di regole condivise nelle pratiche comuni (in entrambi i casi l'ingiustizia, come insegna Aristotele, è un fatto di pleonexia). Sentire l'ingiustizia significa sentirsi non riconosciuti come membri cooperanti, significa vedere ostruite le possibilità di avere alcun ruolo nella costruzione di mondi sociali condivisi. Il senso di ingiustizia è perciò la revoca del rispetto da parte degli uomini, il non riconoscimento dell'altro uomo come degno di cooperare alla creazione di pratiche comuni, cioè come uomo degno di essere tra gli uomini perché essere che si pone dei fini. Se ciò avviene, e si rompe il legame sociale, la virtù della lealtà tra cittadini, allora:

“il nostro mondo sociale è un mondo fatto da altri, un mondo alla cui specificazione noi non abbiamo partecipato. Un mondo sociale fatto da altri è un mondo per noi straniero, un mondo intrinsecamente non nostro: è vero, naturalmente, che noi siamo tutti immigranti in mondi non nostri per il semplice fatto che non scegliamo di nascere nel mondo sociale in cui accade che nasciamo”.