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J.M. Coetzee, "L'infanzia di Gesù"

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L'infanzia di Gesù
di J.M. Coetzee

traduzione di M. Baiocchi

Einaudi, 2013

256 pp.



J.M. Coetzee, premio Nobel nel 2003, vincitore del Booker Prize nel 1983 e 1999 - uno tra i pochissimi autori ad averlo vinto due volte - è uno scrittore tutt'altro che facile. Chi conosce la sua opera conosce la sua grande capacità introspettiva, che riesce sempre a smuovere le angosce fondamentali del lettore e a suscitare in lui un remoto senso di disagio. L'infanzia di Gesù, l'ultimo romanzo dello scrittore originario del Sudafrica ma naturalizzato australiano, pubblicato in Italia proprio oggi da Einaudi, non sfugge a questa dinamica.

Ambientato in un tempo/spazio imprecisato, è la storia di un uomo maturo e di un bambino di cinque anni che giungono in un Paese straniero dove vengono loro assegnate nuove identità: è questo l'esito di una ricollocazione esistenziale di cui non è dato sapere la ragione. Nulla infatti viene rivelato della precedente vita di alcuno dei protagonisti, si intuisce solamente che ha avuto luogo un processo di azzeramento per cui l'arrivo in questa terra costituisce una sorta di rinascita. Nessun legame di parentela vi è fra Simón - l'uomo - e il bambino che lo accompagna: i due si sono incontrati sulla nave che li stava conducendo verso questo "Nuovo Mondo",  e proprio lì Simón ha preso in carico il piccolo David dopo che questi ha perso i documenti di viaggio con le indicazioni per raggiungere la madre. Questa ricerca diventa pertanto il compito primario di Simón, convinto di poter riconoscere la madre del bambino quando la incontrerà.

Ciò che maggiormente colpisce in queste pagine è la strana atmosfera che aleggia su Novilla, la cittadina dove i protagonisti vengono reimpiantati: le persone sembrano non provare emozioni e vi è uno strano senso di accettazione della realtà contro cui David, che probabilmente non è del tutto "azzerato", tenta di opporsi con una logica del tutto estranea ai suoi interlocutori. Anche l'incontro con Inès, la donna che "diventerà" la madre del bambino, avviene in modo surreale, quasi come in una strana allegoria dal significato misterioso. Strano è anche il rapporto che legherà la donna a questo ineffabile bambino, intelligentissimo e capace di lunghe dissertazioni quasi filosofiche con Simón, eppure testardo e - diciamolo pure - a tratti insopportabile, specie quando pretende di avere il controllo di tutto quanto accade intorno a lui. L'atteggiamento a tratti dispotico del bambino e le ansie della sua nuova madre saranno causa di una nuova partenza e di un pellegrinaggio senza meta per un ulteriore reimpianto.

L'infanzia di Gesù è un libro interessante: non è - ahimè - il grande Coetzee di Aspettando i barbari, Vergogna o La vita e il tempo di Michael K, eppure già dalle prime pagine emerge la grande capacità narrativa dell'autore, che esercita su chi legge un singolare magnetismo grazie al quale la lettura procede spedita per tutta l'opera. Il romanzo presenta diversi spunti di riflessione, sulla realtà multiforme come nel Don Chisciotte, il libro che David utilizza per imparare a leggere e che subito diventa per lui un tesoro da preservare a tutti i costi, o più in generale sui diversi modi di dare significato alla propria esistenza e alle relazioni con l'Altro. Il finale aperto non svela alcuno dei misteri o delle metafore - talvolta un po' spiazzanti - contenute nella storia, quello che resta alla fine della lettura è una strana sensazione di incompiutezza, come se lo scrittore avesse inteso proporne una libera interpretazione, tra sfumati richiami biblici, possibili rivelazioni messianiche e frequenti incursioni nella psiche dei personaggi.

C'è chi, nel testo, ha trovato una sorta di "allegoria dell'immigrazione", o forse solo un riferimento al fenomeno ormai globalizzato degli esodi verso non già il benessere ma la mera sopravvivenza: può darsi, ma in tal caso la visione di Coetzee si rivelerebbe un po' troppo edulcorata (improbabile, quindi). Nella vicenda c'è di sicuro l'impatto con un mondo nuovo, letteralmente in questo caso, e quindi la necessità - e tutta la fatica - di (ri)dare un senso all'esistenza, giacché improvvisamente non vi è più un passato cui appoggiarsi. Tuttavia la vita a Novilla, questa enclave primitiva dove il progresso alienante pare non sia giunto per nulla, scorre serena e senza drammi, l'approdo alla terra promessa non è fatto di barconi che affondano, di scafisti criminali e di disperazione, nulla vi è dell'immane tragedia che caratterizza la realtà dei giorni nostri. A Novilla le huddled masses sono accolte forse senza particolari riguardi ma non c'è la vergogna dei respingimenti o delle deportazioni nei CIE. E direi che non è poco.

Stefano Crivelli