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Roberto Bazlen. Un'eminenza importante

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Se volessimo chiederci, per puro senso di gratitudine, chi dobbiamo ringraziare per avere la possibilità di leggere alcuni (sono pochi) di quei libri che, anche se non la cambiano, almeno la vita ce la segnano, be’, a volte rischieremmo di stare senza risposta. Farsi una tale domanda diventa però spesso fondamentale. È quello che ho pensato quando ho letto per la prima volta Svevo; va bene, Una vita e Senilità sono stati inizialmente ignorati da critica e pubblico per cui sarebbe ancora più difficile ringraziare qualcuno. Stessa domanda mi colse però con Kafka, o Musil. Non so perché, me lo chiesi anche quando provai a affrontare Freud; o quando un giorno mi prese la curiosità di sapere come diamine potesse essere nata una bellissima casa editrice come Adelphi, e per colpa di chi. E indagando, ho conosciuto un nome che nella prima metà del ’900 i cosiddetti addetti ai lavori conoscevano e rispettavano, con quasi una devozione alcuni, e con vera insofferenza altri (sembra abbia detto Vittorini: «Bazlen io lo lascerei ad Astrolabio»).

Roberto Bazlen (detto Bobi) nacque nel 1902 a Trieste (ancora asburgica) e crebbe su un humus mitteleuropeo che ne segnò la ricerca estetica e la passione letteraria; minuto, con gli occhiali, delicato, vivrebbe bene in un romanzo di Bernhard. Divenne intimo di Montale (tanto che lo si potrebbe definire con l’odiernamente inflazionato  termine “editor”: editor di poesie, sì, anche di quelle: leggendo il loro epistolario si capisce quanto il poeta lo tenesse in considerazione nella “lavorazione” delle sue liriche), a cui segnalò il talento ignorato di Svevo («Vorrei far scoppiare la bomba Svevo con molto fracasso», scriveva a Montale nel 1925), che finalmente ebbe il timbro critico, che lo emancipò, di una figura importante come quella dell’autore di Ossi di seppia.
Bazlen fu un consulente editoriale
sotterraneo e indipendente che passò tra la Frassinelli e le Nuove Edizioni Ivrea di Adriano Olivetti (con Luciano Foà), la Ubaldini e la Boringhieri, Guanda e la Bompiani, Astrolabio, la Einaudi: godeva di una reputazione direi quasi metafisica, che portava personaggi come Valentino Bompiani a affermare, nel 1945: 
«Bobi Bazlen. Disposto a una più vasta, anche totale collaborazione: letture, segnalazioni, dirigere una collana. È straordinario, ha la memoria a bottoni. Si direbbe che ha letto tutto. Senza fermarsi? Gli dico di sì, subito, ma non si fermerà neppure con me; comincia a fiutare un compenso fisso; vuole un tanto al libro; poi si vedrà. Cos’è che lo muove e lo chiama; è tutto cultura e si direbbe non contenga altro dentro di sé. Ma qualche segno avverte che non è vero: forse legge per non pensarci. Si agita sulla sedia come se avesse la coda.»
Memorabile e storica è la lettera (12 giugno 1951)con cui “consigliava” a Foà, allora ancora alla Einaudi, L’uomo senza qualità di Musil: 
«Come livello non si discute, e (malgrado le riserve che vi farò e le infinite altre che si possono fare) va pubblicato a occhi chiusi. […] Da discutersi molto, invece, da un punto di vista editoriale-commerciale. Qui, devo fare l’avvocato del diavolo. E come avvocato del diavolo, ho quattro argomenti. Il romanzo è
1°) troppo lungo
2°) troppo frammentario
3°) troppo lento (o noioso, o difficile, o come vuoi chiamarlo)
4°) troppo austriaco.
[…] Io stesso, benché il libro valga per infinite altre ragioni che non siano il racconto vero e proprio, dopo essere vissuto praticamente due mesi leggendo ogni giorno, sono rimasto un po’ a bocca asciutta, perché, tirate le somme, vorrei anche sapere chi vive, chi si sposa, chi crepa.»
Robero Bazlen fu dunque, possiamo dire, il padre illegittimo e occulto di tanti libri oggi ritenuti fondamentali, di quei libri che attraversano e creano il tempo senza soccombergli: Schnitzler, Kafka, Bachmann, Jung, Freud, Svevo, Musil, Rilke, Strindberg… Aveva un’idea di letteratura che per una ragione o per l’altra mai si vide concretizzata in un’unica isola editoriale, fino alla nascita di Adelphi nel 1962: insieme al fuoriuscito einaudiano Foà, Bazlen la crea, portando con sé un giovane Roberto Calasso.
Occulto”, riferito a Bazlen, è un aggettivo non casuale; si potrebbe anche utilizzare la classica locuzione “eminenza grigia”: ciò che lo ha caratterizzato, e lo fa anche oggi in verità, è un’invisibilità che cercò spontaneamente in vita, interessato solo a far parlare i libri, e tramite i libri solamente poteva far filtrare un qualcosa di sé: tutto il contrario di quello che si potrebbe pensare richiamando alla mente parole come “fama”, “vanesiate”, “pubblico”, “riflettori”, Bazlen rappresenta in forma pura il puro amore per la letteratura come conoscenza, crescita, rottura e crisi, anche dolore («Bisogna abitare nel proprio inferno»), assai ben lontana dall’intrattenimento spettacolare e per immagini, consolatorio, che tanti scrittori sembrano cercare.

Nel 1984 esce, per Adelphi, Scritti, una raccolta contenente un romanzo visionario e strutturalmente aperto (Il capitano di lungo corso), vari appunti e aforismi (Note senza testo), le Lettere editoriali e le Lettere a Montale. Dalla bandella, citiamo Roberto Calasso
«[…] l’immagine che per molti si è fissata di lui è quella di un infaticabile scopritore e suggeritore di opere, di autori. Ma basta aprire una pagina qualsiasi di questi Scritti per avvertire che quell’immagine è parziale e sviante. Singolare non è tanto che apprezzasse e consigliasse quei libri […]; singolare è che una vita così viva, che un’intelligenza così bruciante, che una limpida vocazione sciamanica sfociassero, come nella loro principale manifestazione pratica, in quell’attività del consigliare libri. Taoista (è l’unica definizione che gli si può applicare senza imbarazzo), Bazlen aveva imparato da Chuang-tzu che il sapiente lascia il minimo di tracce: quei libri di cui parlava e che consigliava erano le sue tracce.»
Segnalo anche il bel Diritto al silenzio. Vita e scritti di Roberto Bazlen, di Manuela La Ferla (Sellerio, 1994), e Lo stadio di Wimbledon, di Daniele Del Giudice (Einaudi, 1983).

Piero Fadda