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«Se io devo morire, tu devi vivere per narrare la mia storia». Le vittime di Gaza non sono cifre, ma storie e mondi da raccontare: “Non siamo numeri” a cura di Ahmed Alnaouq e Pam Bailey

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Non siamo numeri. Le voci dei giovani di Gaza
a cura di Ahmed Alnaouq e Pam Bailey
Nutrimenti, 9 maggio 2025

Traduzione dall’inglese di Clara Serretta

pp. 368
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)


Voglio che il mondo sappia che in Palestina ci sono scrittori, artisti, pensatori e, soprattutto, amanti. Voglio che il mondo sappia che siamo esseri umani proprio come voi. (p. 100)

Quanti morti servono perché una storia diventi importante? Quante lacrime per meritare ascolto? La Palestina è un luogo dove crescere significa imparare a sopravvivere al rumore delle esplosioni. Non siamo numeri è un testo che dà voce a chi è rimasto invisibile, ridotto a statistica nelle cronache di conflitti che noi sentiamo lontani, ma che ci riguardano da vicino, come quello in Medio Oriente. Le pagine raccontano giovani vite sospese tra le macerie, le loro speranze infrante e il bisogno essenziale  di una vita normale. Non si tratta di storie scritte per suscitare compassione né per denunciare la violenza e la disumanità, ma di voci che ci invitano a riconoscere le persone dietro le cifre, i loro sogni e le loro storie.

Il libro nasce da un progetto culturale, We Are Not Numbers, fondato nel 2015 da Pam Bailey, giornalista freelance statunitense, e da Ahmed Alnaouq, giovane laureato in lingua inglese da Gaza, con lo scopo di dare voce diretta ai giovani palestinesi, spesso confinati nell’immagine di vittime anonime nelle cronache internazionali. Prima di diventare un libro, Non siamo numeri era una piattaforma digitale, un laboratorio di scrittura, che ha coinvolto attivisti, giornalisti e giovani palestinesi in una rete di racconti, testimonianze, diari direttamente dal cuore di una delle zone più martoriate dalla guerra, e dall’occupazione, del mondo. Le voci raccolte appartengono a giovani tra i 18 e i 29 anni, molti ancora impegnati nella resistenza della loro terra. Alcuni di loro, però, sono tragicamente stati uccisi proprio nel periodo in cui questo libro veniva preparato e pubblicato e ciò conferisce a queste testimonianze scritte un’intensità e una urgenza che non si possono ignorare.

La Prefazione di Cecilia Sala insiste sulla necessità di leggere questo libro, perché ha il potere straordinario di

squarciare il velo di bugie, ignoranza o preconcetti e farci vedere che cosa c’è davvero dietro ai titoli di giornale quando recitano venti, trenta, centocinquanta morti. […] Numeri senza storia, facce, paure; numeri senza sostanza. Un numero non è mai stato innamorato, non ha l’emicrania, non se la fa addosso per il terrore quando sente arrivare le bombe, un numero non sogna. (p 13)

Prima dei racconti, il libro si apre con una Introduzione firmata da Bailey e da Alnaouq, che spiega la nascita del progetto We Are Not Numbers, conosciuto anche con l’acronimo WANN. La finalità è stata quella di offrire uno spazio sicuro e non violento per dare parola e dignità ai giovani palestinesi, costretti a vivere tra guerra e occupazione. Il WANN ha conseguito anche il premio Front Line Defenders, ma i fondatori del progetto narrano anche, non senza amarezza, dell’immobilismo o della complicità delle potenze mondiali di fronte al massacro di uomini, donne, bambini e soprattutto di così tanti giovani talentuosi che avrebbero potuto fiorire se solo fosse stato loro concesso. Tra le storie raccontate nel libro, quella del cofondatore del progetto, Ahmed Alnaouq, colpisce per la sua tragica intensità. Durante gli attacchi israeliani del 23 ottobre 2023, Ahmed ha perso ventuno membri della sua famiglia, appartenente a quella che lui descrive come una grande famiglia allargata, molto unita, com’è comune a Gaza. Tra le vittime c’era anche suo fratello Ayman, giovane coraggioso, gentile e amato da tutti, sia dai familiari che dagli estranei. Segnato dalla seconda intifada del 2000, quando aveva appena dieci anni e vide morire cinque suoi compagni di gioco, Ayman scelse la via dell’impegno umanitario per aiutare il suo popolo. Ma l’ingiustizia quotidiana e la brutalità sistematica finirono per soffocare ogni speranza in una resistenza pacifica. Fu così che, in mancanza di alternative, si arruolò nei gruppi armati, e perse la vita. È una vicenda che non cerca giustificazioni, ma invita a comprendere, ad andare oltre le semplificazioni.

E questa è solo una delle tante storie. Difficile dire quale mi abbia colpito di più: ogni testimonianza lascia un segno, ognuna rivela il desiderio profondo di far sapere al mondo che i palestinesi non sono né numeri, «né vittime, né eroi» (p. 99) ma semplicemente persone, con le stesse emozioni e bisogni di chiunque altro. Alcuni degli autori oggi vivono fuori dalla Striscia — in Egitto, in Qatar, in Arabia Saudita o in Inghilterra — ma non possono più abbracciare i loro cari. Altri, come Hind Khoudary, giornalista per Al Jazeera English, hanno scelto di restare a Gaza, legati al dovere morale e all’amore per la propria terra e la propria gente. Attraverso questi racconti di memoria, quotidianità e perdita, il lettore si rende conto di una verità spesso oscurata: il conflitto e il massacro non sono iniziati il 7 ottobre 2023, ma molto prima. Israele, nella totale impunità garantita dal silenzio internazionale — oggi diventata complicità occidentale — ha per decenni condotto attacchi contro i civili, negato le proprie violenze, occupato territori in modo illegale e trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto. Le lunghe e umilianti file ai checkpoint per ricevere cure mediche o semplicemente per andare a lavorare sono da sempre parte della vita dei palestinesi, non degli israeliani. In quella terra, essere arabo significa essere considerato un nemico da controllare o da eliminare.

Non si tratta di propaganda. A confermare queste verità sono anche voci ebraiche autorevoli, storici e intellettuali che si oppongono al fondamentalismo sionista e denunciano con coraggio queste ingiustizie.
Chi legge questo libro non può che provare frustrazione e impotenza, ma anche una profonda speranza che Gaza continui a resistere — non solo con la forza, ma anche con le parole, la cultura, la memoria — in attesa di un cambiamento geopolitico reale. Un cambiamento che potrà arrivare solo se guidato da leader capaci di vedere nell’altro non un nemico, ma un essere umano con cui costruire una pace vera e duratura.

Per chi come me, ha letto molte pagine di autori palestinesi, giornalisti e scrittori, e tramite Instagram ne ascolta quasi ogni giorno – direttamente da Gaza – queste pagine non sono solo storie: sono volti, nomi, messaggi in chat, vite che continuano a resistere dentro e fuori le parole. Penso ai tanti Mahmoud, ai tanti Ahmed, Nada, Khaled che hanno scritto We are not Numbers e quelli che da mesi, quasi un anno ormai, mi scrivono da Gaza raccontandomi le loro giornate, le perdite dei cari, i loro sogni, la fame e la sete che li logora. Quello che mi colpisce dei palestinesi è la loro forza, la loro resistenza, che io credo, derivi dal forte senso religioso e dalla cieca fede in Allah, ma anche da un nerbo indomito, tipico di un popolo mediterraneo forgiato da decenni ormai dalla lotta coraggiosa contro le avversità quotidiane. Nutrimenti offre un volume curato e ben tradotto da Clara Serretta, che restituisce con delicatezza la voce originale degli autori, una memoria che chiede di essere onorata.
Ogni voce in questo libro è una finestra aperta in un muro di macerie. Le parole dei giovani di Gaza non chiedono pietà, ma di essere ricordati e noi, ascoltandole, possiamo impedire che il silenzio sia l’ultima parola.

Siamo così abituati ad andare avanti dopo questi traumi, che ci siamo convinti che sia la norma. Impacchettiamo le nostre perdite, la tristezza e il dolore e voltiamo pagina. Torniamo al lavoro o a scuola con un enorme bagaglio di emozioni sulle spalle. Peccato, però, che il peso aumenti sempre più. […] Le storie tristi sono impresse nel DNA dei palestinesi. Sono cresciuta con i racconti dei miei nonni, che sono stati sfollati durante la Nakba del 1948 e del 1967. Ho sentito parlare dei massacri avvenuti prima che io nascessi, come quello di Deir Yassin del 1948 e di Sabra e Shatila del 1982. Questi eventi non fanno solo parte della nostra storia, sono parte integrante della nostra vita quotidiana. Affrontiamo la brutalità dell’occupazione, che si tratti di un’aggressione  o di un’espropriazione o della pulizia etnica dei palestinesi in Cisgioradania e a Gerusalemme, nei quartieri di Sheikh sono Jarrah e Silwan. Sono talmente abituata a queste storie che ho smesso di vedere il quadro generale. Le ripetute tragedie che colpiscono quasi tutti i palestinesi mi ha fatto perdere la prospettiva. Questa vita non è normale. Non è normale che un’intera famiglia venga cancellata dall’anagrafe, perché morta a causa di un bombardamento israeliano. Non è normale vedersi negata l’infanzia […]. (pp. 268-269)

Marianna Inserra