Un affascinante viaggio nel mare nostrum per scoprirne la metamorfosi tra specie aliene e inquinamento: “Tropico Mediterraneo” di Stefano Liberti




Tropico Mediterraneo. Viaggio in un mare che cambia
di Stefano Liberti
Laterza, 20 settembre 2024

pp. 200
€ 18,00 (cartaceo)
€10,99 (eBook)

La verità è che il Mediterraneo è un caso unico al mondo: perché è un mare semichiuso con una densità di popolazione tra le più elevate del pianeta. È un mare incastrato tra le terre, un “campo di golfi”, come lo descrisse ormai novant’anni fa George Simenon nella serie di reportage che scrisse mentre veleggiò per tre mesi lungo il bacino. È anche un oceano in miniatura, perché vede esplodere in modo esponenziale tutte le criticità che riguardano le grandi massi d’acqua del pianeta. (p. 124)

I cambiamenti che riguardano la superficie terrestre e l’atmosfera sono ben noti, perché sono visibili e alla portata ormai di tutti, ma quelli che riguardano il mare - altrettanto preoccupanti - rimangono pressoché nascosti, visibili solo a chi ha vissuto e ancora vive di mare. È per questo motivo che, rispetto agli altri aspetti del cambiamento climatico e dell’inquinamento (scioglimento dei ghiacciai, eventi meteorologici estremi, deforestazione, piogge acide e altro ancora) i vari governi si sono mossi tardi o comunque in maniera non adeguata quando sono stati lanciati i primi campanelli d’allarme da parte di chi studia il mare o vive di mare, come biologi marini e pescatori. Peggio ancora: il nostro mare è “un lago” su cui si affacciano alcuni Stati, quelli nordafricani, che continuano a ignorare gli inequivocabili segnali dei cambiamenti irreversibili del Mediterraneo e della perdita della sua meravigliosa e unica biodiversità.

Stefano Liberti, giornalista e film-maker, da anni si occupa di reportage di politica internazionale e in questo libro, ci accompagna in un’affascinante traversata nel mare nostrum, ormai Tropicus, alla scoperta - come recita il sottotitolo -  di un mare che cambia. Con un piglio accessibile, che incanta e che cattura chi legge, il giornalista ci mostra, spostandosi da una costa all’altra del bacino, la metamorfosi del Mediterraneo, un dramma senza eguali sì, ma senza dimenticarsi di lasciare aperto qualche spiraglio di speranza

Il risultato è un libro davvero interessante, arricchente e scorrevole: è un ibrido tra il reportage, il racconto di viaggio e di incontri,  interviste a pescatori, a ricercatori e anche ad artisti che in maniera creativa cercano di valorizzare la ricchezza marina. Ogni luogo ha una sua specialità e un suo dramma da affrontare che diventa però una sorta di prisma di una serie di cambiamenti che rendono evidente il fatto che il Mediterraneo abbia raggiunto il suo punto di non ritorno.

Quali sono le cause di questa metamorfosi del nostro mare? La risposta richiede un’argomentazione articolata che l’autore ci fornisce sin dalle prime pagine: è vero che siamo di fronte a un serpente che si morde la coda, per cui ogni aspetto è causa e insieme conseguenza di certi fenomeni e che, probabilmente, il cambiamento climatico in atto è un «acceleratore di crisi. Si innesta su problemi preesistenti e li acuisce» p. 38), ma è anche vero che  il maxi allargamento del Canale di Suez nel 2015 (processo iniziato già nei decenni precedenti, in verità) e lo scarico delle acque di zavorra hanno rappresentato la via privilegiata all’importazione e alla proliferazione di specie aliene aggressive che stanno minacciando la speciale biodiversità del nostro Mediterraneo.

Quello delle specie aliene è un termometro che ci indica quanto sta cambiando il Mediterraneo. “Il nostro è ormai un mare subtropicale. Non si tratta di qualcosa che avverrà in futuro, ma che è già avvenuto”, dice Azzurro sgranando gli occhi per dare la giusta enfasi alla sua affermazione. “Negli ultimi vent’anni abbiamo visto un significativo incremento di nuove introduzioni, accompagnato da una più marcata capacità invasiva delle specie introdotte. […]le specie autoctone sono destinate a perire. Le nicchie ecologiche non tollerano la presenza di due specie in competizione: quella con caratteristiche di maggiore forza e capacità di adattamento prevarrà. (pp. 20-21)

Il biologo marino Ernesto Azzurro, intervistato dal nostro autore, spiega che il danno è ormai in atto, in particolare nel Mediterraneo orientale, dove le specie aliene hanno sostituito quelle autoctone. Gli esempi eclatanti più vicini a noi sono due: il famigerato granchio blu nelle sue due varianti ha spazzato via quello arancione delle nostre coste e sta facendo razzia degli ambienti lagunari, come le acque basse delle tunisine isole Kerhennah e del Delta del Po, famoso per la pesca delle vongole di Goro. Estremamente pericolosi per la ricchezza dei nostri fondali e dei nostri vivai marini sono anche il pesce scorpione, il pesce palla maculato - che ha praticamente distrutto la biodiversità marina di Cipro -, innumerevoli meduse più o meno grandi, la caulerpa taxifolia, la cosiddetta “alga assassina” che si sta sostituendo alla preziosissima posidonia, vero vivaio per la riproduzione di centinaia di specie di pesci. Di fronte alle proprie colpe l’Egitto minimizza, sottolineando invece i vantaggi economici che l’apertura del Canale di Suez ha rappresentato per il commercio mondiale: «L’8 percento dell’intero commercio mondiale passa di qui. Ma da quella che è ormai diventata un’ampia apertura non transitano solo le navi. Il Canale di Suez è oggi una delle principali porte d’ingresso per vari tipi di organismi che non dovrebbero esserci» (p. 16). Certamente non possiamo incolpare solo l’Egitto se adesso il nostro mare sia diventato un mare tropicale, perché, per usare la felice espressione di Platone nel Fedone che aveva paragonato il Mediterraneo a uno stagno abitato da diverse rane che vi abitano lungo il bacino, è pur vero che ogni Stato che vi si affaccia ha la sua cultura peculiare e i suoi interessi che non tengono in considerazione l’impatto ambientale di una pesca di rapina. L’Unione europea infatti applica diverse restrizioni alla pesca, soprattutto quella a strascico, ma spesso non sono efficaci, anzi risultano deleterie, perché vengono elaborate senza interpellare chi ha fatto del mare la sua fonte di sostentamento, mentre stati come Egitto, Tunisia, Libia continuano a scorrazzare con i loro pescherecci e barchini - talvolta armati -, arrogando diritti di pesca aggressiva anche nelle acque internazionali.

Tropico Mediterraneo è una lettura estremamente coinvolgente, non soltanto per l’argomento in sé, ma per una serie di felici combinazioni: l’agilità dell’intervista, il racconto dei luoghi, il carisma e il fascino di cui sono ammantati alcuni pescatori intervistati, come i fratelli Lombardi nel Canale di Sicilia, la meraviglia che suscitano certe opere d’arte, come quelle di Mohamed Amine Hamouda che sulla spiaggia tunisina di Gabès, crea addirittura tessuti utilizzando materiale naturale dell’oasi, i drammatici racconti di perdite naturalistiche, fino alle chicche storiche sulle vongole di Goro e del gambero rosso di Mazara del Vallo.

Per questo motivo il libro andrebbe letto veramente da tutti, da chi ama il mare, da chi è sensibile all’impatto ambientale in generale, dagli insegnanti che vogliono proporre ai loro alunni e alle loro alunne nelle ore di educazione civica (e perché no, visto il contenuto di alcune pagine, anche nelle ore di didattica orientativa) pagine coinvolgenti, che mostrino la metamorfosi del nostro amato mare, senza però far perdere di vista i segnali di speranza contenuti nel libro. L’esempio di biologi, pescatori, artisti, studiosi di diverse nazionalità che cercano strade alternative per non far morire l’economia legata al mare, come la ricerca e l’applicazione di tecniche per trasformare la corazza del granchio blu in fertilizzante da usare in agricoltura, quelle per conciare la pelle del vorace pesce palla per ottenere scarpe e borse, oltre alle piccole conquiste in ambito internazionale come la realizzazione di aree marine protette, costituiscono importanti esempi di resilienza, creatività e amore incondizionato per il mare. 

E penso che questo patrimonio incredibile, questo Mediterraneo così piccolo ma così diverso nei paesaggi e nelle dinamiche, questo oceano in miniatura, non è solo uno stagno intorno al quale si agitano milioni di rane spesso in lotta tra loro, ma anche uno specchio in cui dovremmo rifletterci e che ci dovrebbe far riflettere sul ruolo che noi esseri umani abbiamo avuto nella modifica degli ecosistemi e nella loro progressiva degradazione. […] Perché quanto accade oggi in questo mare indica una sola cosa: che la nostra unica via di salvezza è riconnetterci con quegli ecosistemi che abbiamo pensato di sfruttare e che oggi si ribellano, mandandoci segnali inequivocabili. (p. 188)

Marianna Inserra  


#RileggiamoConVoi – Il perturbante tra le pagine – Halloween 2024



Buongiorno a chi ci legge,
i tipi di paura sono diversi: lo spavento improvviso di una mano che esce dal buio e ci fa sobbalzare; il ribrezzo per un occhio che galleggia in un calderone. Ma il terrore nasce di fronte al perturbante, ovvero quelle situazioni in cui tutto ciò che conosciamo viene scardinato e non possiamo utilizzare le nostre certezze per far luce su quello che sta accadendo. Per Stephen King è la forma più raffinata dei livelli di paura. Per Halloween la Redazione vi guida tra pagine perturbanti, per entrare nel giusto clima della serata.
Buon Halloween e buone letture,
la Redazione

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Cecilia consiglia 
L'atlante dei luoghi infestati di Giulio Dantona (Bompiani)
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Perché: perché anche la paura ha le sue residenze, e Giulio Dantona ne descrive 50 che non si dimenticano più, in un giro del mondo che fa ripensare in chiave sinistra a concetti e ambienti familiari, a partire da quello di "casa" per arrivare a quello più ampio di "natura".
A chi: a chi, come l'autore, cerca di dare ordine alle proprie ossessioni, in particolare a quelle coltivate proprio per il profondo turbamento che sanno suscitare; a chi nella sua vita ha percepito di non essere solo in tutti quei luoghi in cui avrebbe desiderato o credeva di esserlo, e a chi invece si mette sulle tracce dell'occulto per scoprire di più... oltre sé stesso.


Claudia consiglia 
Inferno americano di Lawrence Wright (NR edizioni)
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Perché: è una storia talmente intensa da sembrare inventata. Tra abusi sessuali, riti satanici, accuse e falsi ricordi, Lawrence Wright ricostruisce una vicenda dai contorni grotteschi che si allarga a macchia d'olio evidenziando il lato oscuro di una comunità tranquilla.
Un caso infernale, un eclatante esempio di ricordi recuperati che fa sprofondare il lettore in un vortice di domande e risposte sempre nuove, mentre scienza, fede, psicologia, paure arcaiche, TV scandalistica e convenzioni sociali si pongono a confronto in una dialettica che provoca smarrimento. 
A chi: ai lettori che cercano il perturbante nelle storie vere, nelle ossessioni e negli abissi insondabili dell'animo umano. A chi adora il true crime in tutte le sue forme e a chi ama la prosa americana nella sua essenziale chiarezza. 



Deborah D'Addetta consiglia 
Non credo più in Lars Von Trier di Marvelys Marrero (Castelvecchi)
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Perché: Marvelys Marrero, classe '81, autrice cubana, in questa piccola raccolta di poco più di cento pagine costruisce un universo: i racconti contenuti nel volume sono nove, una manciata di pagine per ciascuno, si legge davvero in un paio d'ore ma resta in testa per molto di più. Quasi tutti sono rivolti a un «tu», scelta narrativa e stilistica sempre coraggiosa e poco utilizzata: il narratore parla in prima persona ma conversa con qualcuno – ora il lettore, ora un amante, ora il proprio figlio o un cane. In questo modo si stabilisce tra autrice e lettore una connessione profonda. In un racconto, ad esempio il primo, una ragazza si rivolge alla sua amante: la scrittura, in alcuni passaggi priva di punteggiatura, ricalca il tono frastornato e doloroso della protagonista che, letteralmente, viene fatta a pezzi per supportare il successo dell'altra. C'è del realismo magico qui nonché un mood stroboscopico che molto mi ha ricordato il film The neon demon di Refn (soprattutto la questione dell'occhio: chi ha visto il film capirà di che parlo). 
A chi: tutti i personaggi della raccolta sono affamati di carne, di sesso, di calore. Che questo calore bruci o sia solo tepore non importa, dipende dal grado di autodistruzione in ognuno di essi. Non si tratta solamente di una voglia fisica, ma soprattutto di una ricerca dell'amore. E però, qui, più che l'amore è la morte che la fa da padrona. In questo particolare, la raccolta mi ha ricordato vagamente la narrativa di Camila Sosa Villada e un po' anche quella di Mariana Enriquez (il primo racconto in particolare, collegato all'ultimo). Inoltre, piacerà a chi è fan dello stile cinematografico di Refn.


Deborah Donato consiglia
Blackwater I - La piena di Michael McDowell (Neri Pozza)
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Perché : è l'inizio di una saga che cattura e come libro iniziale mette subito in campo gli ingredienti "magici" ed inquieti della storia. Siamo a Perdido, in Alabama, piccolo e povero paesino di conservatori e bigotti. Qui, una domenica di Pasqua, un alluvione inonda totalmente il paese, portando non solo morte e marciume, ma un personaggio misterioso, che avrà con quest'acqua limacciosa un rapporto simbiotico: Elinor.  Personaggi convincenti, suspense e mistero rendono il romanzo da brividi.
A chi: a chi ama le storie dark, i luoghi perduto, i sentimenti contrastanti e inspiegabili. Per chi adora la scrittura di Stephen King, che non a caso, ha definito il libro uno dei migliori degli anni '80, determinandone in tal modo anche la riscoperta tardiva. 


Debora Lambruschini consiglia
Le streghe di Manningtree di A.K. Blakemore (Fazi)
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Perché: è il racconto corale della caccia alle streghe in una piccola cittadina dell'Essex e del processo che ha investito alcune di loro, di cui la giovane scrittrice ricrea perfettamente il contesto storico e sociale entro cui si insinua il dubbio, l'accusa, fino ad arrivare al processo. Un romanzo perturbante che mescola abilmente l'invenzione letteraria al dato storico, l'immaginifico e il reale, il mistero e la brutalità per mezzo di una prosa lirica e affabulatoria.  
A chi: alle streghe di oggi, a chi si interroga sulla verità come concetto relativo, a chi cerca una storia di ombre dove i confini tra giusto e sbagliato, realtà e invenzione non sono mai netti. 


Giulia consiglia
Gli aghi d'oro di Michael McDowell (Neri Pozza)
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Perché: la New York di fine Ottocento assiste allo scontro tra due famiglie. Da un lato gli Stallworth, repubblicani e investiti dal dovere morale di ripulire le strade della città; dall'altro le Shanks, famiglia matriarcale che si muove con agilità nei settori più reconditi del crimine. Sfogliare le pagine degli Aghi d'oro fa percepire, con ogni senso, il pericolo e il brivido dell'inoltrarsi tra i vicoli di New York, sempre consapevoli che nell'ombra c'è chi sta tramando un complicato e spietato piano di vendetta.
A chi: a chi già aveva amato la saga di Blackwater e le cupe atmosfere. Il senso di allerta per lo scontro tra le due famiglie e il ben congegnato piano non faranno rimpiangere la mancanza dell'elemento sovrannaturale.


Gloria consiglia
Idaho Winters di Tony Burgess (Minimum fax)
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Perché: ci sono vendette che hanno dell'inquietante, soprattutto se sovvertono le regole e osano essere rivolte... contro l'autore dell'opera! In questo romanzo breve sperimentale, ciò che è più inquietante è che i propri personaggi possono ribellarsi dopo essere stati troppo a lungo vessati. E non c'è niente di più imprevedibile e "dark" che il mondo a tratti da Alice nelle meraviglie altrove da incubo nero creato dal piccolo Idaho per vendicarsi del suo autore.
A chi: a chi ama il grottesco, i romanzi onirici che sanno trasformarsi in incubi a occhi aperti, tra atmosfere da horror e colpi di scena giocosi. 


Olga consiglia
La preda di Damon Galgult (Edizioni e/o)
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Perché: è un romanzo dall'atmosfera inquietante e claustrofobica che si insinua sotto la pelle. Damon Galgut ci trascina in un viaggio oscuro e tortuoso. Un uomo, privo di un'identità definita, commette un omicidio e ruba l'identità della vittima, un prete. Da quel momento, si troverà a vivere una doppia vita, inseguito dai sensi di colpa e dalla paura di essere scoperto.
A chi: è affascinato dalle intricate trame, dai personaggi tormentati e dalle atmosfere cariche di suspense. A chi cerca una lettura impegnativa e agli appassionati di narrativa introspettiva: "La preda" è un romanzo che invita alla riflessione, che scava a fondo nella psiche umana e che pone interrogativi sulla condizione esistenziale.


Sabrina consiglia 
Tre vite, una settimana di Michel Bussi (Edizioni e/o)
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Perché: Bussi è il genio del perturbante, lo scrittore francese è maestro nel costruire storie e personaggi che riescono sempre a spiazzare il lettore, portandolo, non appena terminato il romanzo, a ripercorrere febbrilmente le pagine chiedendosi "ma come ho fatto a non capire? A non rendermi conto?". Eppure Bussi è  così. Stupisce ogni volta. In questo romanzo lo fa con il tema del doppio, anzi del triplo e lasciando campo d'azione a marionette, che, per certi versi, sono tra i giocattoli più inquietanti a cui si possa pensare.
A chi: sicuramente a tutti coloro che amano leggere libri che li sorprendano, a coloro che adorano tuffarsi nei meandri della narrazione e che si lasciano trasportare, dalla fantasia dello scrittore, in mondi impossibili. Ai lettori che prediligono le atmosfere dai toni noir e che sentono i brividi quando il racconto prende una virata imprevista.


Samantha consiglia 
I segreti della casa di Rye Lane di Susan Allott (HarperCollins)
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Perché: è un libro molto intenso, dalle atmosfere gotiche e con omicidi reali, che mettono in dubbio la verità e che cambiano il passo ad ogni capitolo, intrigando il lettore e portandolo da una parte verso spiegazioni molto irrazionali, dall'altro sfidandolo a cercare i colpevoli dei vari omicidi. Fino all'epilogo finale, che ci insegna come il passato continua a gravare sul presente, in molti modi, spesso oscuri.
A chi: a chi ama le atmosfere inquietanti e il perturbante. A coloro che immaginano il passato delle case, lo sentono come qualcosa di vivo e presente e si preoccupano di ascoltare le loro sensazioni.


«Cu mancia fa muddichi»: la resistenza dai margini del "Femminismo terrone"

Femminismo terrone. Per un'alleanza dei margini
di Claudia Fauzia e Valentina Amenta
Edizioni Tlon, 2024

pp.180
€ 16,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

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Ricordo la prima volta in cui mi sono sentito terrone, ero arrivato a Bologna da pochi mesi e uscivo in una comitiva di persone bergamasche, e una di queste mi interrogò, chiedendomi perché avessi scelto di studiare al Nord, anziché rimanere al Sud. La vera ragione non la sapevo del tutto neanche io, ma risposi dicendo, per senso comune, che 'al Sud facciamo così'. Così come? mi ero chiesto poi. Scappare dalla nostra terra, dove sentiamo che non c'è spazio per esprimerci e affermarci come soggetti eccentrici. All'epoca non avevo ancora fatto coming out, e l'idea di essere una persona queer che dovesse mettere la propria sessualità allo scoperto in un ambiente asfittico come quello di un paesino della provincia foggiana mi terrorizzava. Con il tempo, con l'esperienza, con l'interrogarmi sui miei privilegi, ho realizzato quanto la mia visione del mio luogo di origine, delle persone che lo abitavano, fosse in realtà alimentata da una mia demonizzazione dovuta a una narrativa egemonica, che fa del Meridione uno spazio in cui è impossibile pensare di poter fare attivismo, piuttosto che un territorio fertile dove oggi più che mai attecchiscono gli sforzi per costruire nuove narrative situate, dove è necessario riesplorare e pianificare una genealogia di resistenza terrona queer attraverso la quale raccontare l'impegno, l'autodeterminazione, la lotta antipatriarcale. In seguito, durante i miei anni di formazione in teoria transfemminista e studi queer, ho compreso quanto fosse importante per me sovrapporre al mio essere queer il mio essere terrone, e a quanto me ne fossi privato nel tentativo di mescolarmi agli altri, ai normali, allontanandomi dalle mie origini che mi rendevano chi ero, a privarmi del mio accento per cercare un modo giusto di parlare, così come c'era un modo giusto di essere omosessuali normali, senza eccessi, senza eccessiva estrosità.

"A un certo punto della nostra vita, ci siamo accorte che l'esperienza per noi cruciale e rivoluzionaria del femminismo non riusciva a rappresentarci pienamente." Da questo vuoto narrativo parte l'indagine di Claudia Fauzia e Valentina Amenta, autrici del saggio Femminismo terrone: per un'alleanza dei margini, dal senso di inadeguatezza nell'essere delle donne queer e meridionali, e dalla mancanza di rappresentazione all'interno del femminismo del centro. 

La saggezza popolare ci ha insegnato che cu mancia fa muddichi: è il prezzo per esporsi, e noi lo accettiamo, rivendicando il diritto a sbagliare e a cambiare idea. Come dice la studiosa Rachele Borghi, «ci appelliamo a sbaglieranza»: ovvero a una presa di responsabilità collettiva che consideri lo sbaglio intrinseco a qualsiasi tentativo di decostruire lo status quo per immaginare nuovi mondi. (p. 13)

Accogliendo dunque la limitatezza dello sguardo dei saperi incarnati, ovvero del posizionarsi come soggettività del margine fatte di privilegi, e quindi non portatrici di un punto di vista univoco per tutte le identità subalterne, l'indagine di Amenta e Fauzia si propone, attraverso un'indagine storico-politica e poi socioculturale, di esplorare le radici di una genealogia femminista terrona, dove la parola 'terrone', esattamente come avvenuto per le parole 'frocio' e 'queer', acquista una nuova veste e un nuovo significato, trasformandosi da insulto, che ricorda a chi ne viene tacciato il proprio legame con la terra, in punto di riferimento, non dimenticandosi che la terra e le radici debbano costituire un luogo a cui appartenere e di cui rivendicare la voce, piuttosto che uno spazio da cui prendere le distanze, omologandosi a uno sguardo del nord, che intende omologare e capitalizzare le identità che divergono dall'idea progressista di colonizzazione interna del Meridione avviata con il Risorgimento, artefice della cosiddetta "Questione Meridionale".

Muovendosi per nuclei tematici, i quattro capitoli del saggio di Valentina Amenta, ricercatrice della Sapienza e dottora in studi di genere, e di Claudia Fauzia, divulgatrice del femminismo terrone tramite il suo alias @la.malafimmina, esplorano il concetto di femminismo dal punto di vista delle donne e persone queer del Sud Italia, portando al centro la specificità dell'esperienza meridionale e le discriminazioni che le persone del Sud affrontano, spesso ignorate anche dai movimenti femministi tradizionali. Per farlo, si avvalgono delle teorie femministe che hanno fatto dei saperi situati il punto di distacco principale dal cosiddetto femminismo della Seconda Ondata, un femminismo bianco ed eurocentrico, che non prevedeva un'indagine sulla resistenza femminista al Sud, e che si limitava piuttosto a riflettere sulla mancanza di accesso ai diritti fondamentali per le donne del Sud o, in senso lato, dei Sud del mondo, un femminismo che parlava per la subalterna poiché non la riteneva in grado di avere una voce propria e di parlare per sé. 

I saperi situati, alla base degli studi postcoloniali e transfemministi, promossi da autrici come la poetessa lesbica americana, che usa per prima l'espressione 'politics of location' (politiche del posizionamento), o della scienziata Donna Haraway, che conia per prima il termine 'situaded knowledges', criticano l’idea di una conoscenza "oggettiva" e universale, sostenendo che ogni sapere è influenzato dal contesto storico e personale di chi lo produce. Promuovono una conoscenza consapevole della propria parzialità e impegnata a riconoscere voci e prospettive marginalizzate. Viceversa, gli studi postcoloniali, in dialogo con i saperi situati, hanno contribuito ad evidenziare come la conoscenza e le narrazioni storiche siano influenzate da dinamiche di potere coloniale, privilegiando voci occidentali e marginalizzando altre esperienze. Insieme, saperi situati e critica postcoloniale e decoloniale promuovono una comprensione del sapere che rispetti le prospettive locali, indigene e marginali, riconoscendo la diversità dei contesti da cui ogni conoscenza emerge, ed è seguendo questa metodologia che Amenta e Fauzia incedono con un'analisi seria e dati alla mano nello smantellare il cosiddetto 'North gaze', ovvero lo sguardo del Nord (termine coniato dal 'male gaze' di Laura Mulvey, che oggettiva il corpo delle donne nei media), che oggettiva il Meridione e i suoi soggetti come spazio dell'Altro da addomesticare, e con esso le Alterità incarnate che lo popolano. Il libro esplora il tema dell'antimeridionalismo, ovvero il pregiudizio e la discriminazione verso il Sud, e le diramazioni che esso assume, analizzandolo come un asse di oppressione sistemico che si intreccia con altre forme di discriminazione, come il sessismo, l'omolesbobitransfobia, il classismo e il razzismo.

L’obiettivo è un sapere più inclusivo e responsabile, che indaga non solo, come nel capitolo 2, la cosiddetta "Questione meridionale", fornendone una rilettura decoloniale e passando attraverso l'idea del Sud come storicamente subalterno, ma anche attraverso chi, dal Sud come margine politicizzato, e cioè come punto di vista geolocalizzato della differenza, contesti la narrazione del centro del sapere. Altro aspetto interessante è la decostruzione di un'idea di Meiridone adattata dal cinema e dalla cultura di massa come luogo binario del crimine (si pensi alla figura dell'antieroe criminale di Gomorra) o come locus amoenus fuori dal tempo (si pensi a Il postino di Michael Radford), o alla costruzione di un'idea di donna del Sud, carnale, focosa, bruna e oggettivata come incarnazione del desiderio maschile (si pensi a Monica Bellucci in Malèna di Giuseppe Tornatore). Tutte queste narrative, spesso supportate dalla voce di autori meridionali che ne hanno incentivato la visibilità, hanno contribuito a generare una visione univoca di che cosa sia il Sud, come se fosse un concetto monolitico e non piuttosto un insieme di voci e di esperienze localizzate ed eterogenee. Ecco come nel capitolo 3, "Resistenze terrone", si rammenta che il femminismo terrone è sempre esistito, e che molto spesso la memoria delle azioni di chi ha voluto fare la differenza siano state sommerse da una narrativa egemonica che sembra aver dimenticato, o non aver annoverato abbastanza, chi si è contraddistinta nel contrasto all'eteropatriarcato e al North gaze anzitempo. Viene ricordato il 'no' di Franca Viola, ragazza di Alcamo rapita e stuprata da Filippo Melodia nel 1965, prima donna in Italia a rifiutare il matrimonio riparatore, denunciando il suo stupratore; viene ricordata la personalità della cantautrice Rosa Balistrieri, la sua vita rivoluzionaria, la sua sovversione delle norme di genere e il suo ruolo considerato "disturbante" in un panorama musicale maschile; il contributo di Nino Gennaro, poeta, drammaturgo e attivista che ha costituito un ruolo fondamentale nel movimento queer siciliano, soprattutto negli anni '80 e '90; viene ricordata la resistenza anarco-antimilitarista di Maria Occhipinti, simbolo di lotta e ribellione in Sicilia: nel 1945, incinta, Occhipinti si unì infatti alle proteste contro la leva obbligatoria a Ragusa, guidando una rivolta popolare in un contesto fortemente maschilista e militarizzato. 

Si passa infine alla complessa questione degli accenti: Fauzia e Amenta affrontano infatti il tema dell'accento meridionale come elemento d'identità e resistenza. Partono dal fatto che gli accenti del Sud Italia sono spesso soggetti a stereotipi negativi: chi ha un accento marcato è visto come meno istruito e più arretrato, mentre chi lo perde è considerato “più moderno.” Tuttavia, le autrici rifiutano questa logica, rivendicando l’accento come parte fondamentale della loro identità culturale e politica. Come le femministe andaluse e come Gloria Anzaldùa in La Frontera, Amenta e Fauzia vedono l’accento non solo come un modo di parlare, ma come una forma di autodeterminazione e resistenza contro un sistema che svalorizza la cultura meridionale, riducendola a folklore o esotismo. Esse incoraggiano un orgoglio consapevole, che non critica chi ha scelto di adattarsi, ma comprende il contesto di discriminazione che spinge a queste scelte, trasformando l’accento in simbolo di lotta e solidarietà.

Amenta e Fauzia intendono dare voce a un "femminismo terrone" che si distacca dalla visione universalista del femminismo predominante, spesso centrata su istanze che non tengono conto della marginalizzazione del Sud Italia. Questo femminismo riconosce la validità e la ricchezza culturale dei "saperi dei Sud" come strumento di resistenza e spunto per una prospettiva decoloniale e transfemminista. Con uno sguardo che collega le lotte locali con quelle globali, Femminismo Terrone non cerca solo di dare visibilità alle ingiustizie subite dal Sud, ma anche di costruire alleanze tra i Sud d'Europa e altri Sud del mondo.

'Femminismo terrone' è una chiamata all'azione per riconoscere le specificità meridionali come parte integrante del panorama femminista, immaginando un futuro in cui le esperienze e i saperi marginalizzati possano trovare uno spazio di emancipazione, inclusività e giustizia. Come viene ripetuto, la resistenza terrona

passa dal riconoscere la nostra genealogia e dall'esercizio di gratitudine verso tutte le froce, terrone e male fimmine che ci hanno preceduto. (p. 94)

Matteo Cardillo

Alla soglia delle elezioni presidenziali, il racconto di «un paese, una politica e una storia che cambiano di continuo»: "Ogni quattro anni"



Cose spiegate bene. Ogni quattro anni
Autori vari
Iperborea, maggio 2024

pp. 304
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 

Ogni quattro anni, a inizio novembre, c’è un martedì in cui mezzo mondo guarda agli Stati Uniti. Nelle strade delle città capita di vedere capannelli di persone in coda davanti a edifici di solito poco frequentati, le vie sono tappezzate di manifesti pieni di slogan e in giro si vedono più poliziotti del solito. (“Come funzionano le elezioni americane”, p. 30)

Il 5 novembre scopriremo chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti e la cosa ci riguarda un po’ tutti, anche da questa parte dell’oceano. Il sistema elettorale americano ha regole specifiche e le elezioni presidenziali sono una macchina particolarmente complessa: è proprio su questo che si concentra il nuovo numero di Cose spiegate bene, i volumi di approfondimento culturale nati dalla collaborazione tra la casa editrice Iperborea e Il Post. Ogni quattro anni è uscito un paio di mesi fa ed è utilissimo oggi per capire non solo come funzionano quindi le elezioni presidenziali ma anche per riflettere su tematiche varie legate alla politica, alla società, alla cultura. Il volume è particolarmente interessante e ben strutturato, il taglio giornalistico rende i saggi puntuali e di facile accesso anche per un pubblico non specialistico: un testo, quindi, che parte dal funzionamento della macchina elettorale americana per aprire il discorso a ulteriori considerazioni, spunti, tematiche quanto mai urgenti e attuali, dalla questione razziale all’organizzazione del sistema educativo, dal declino del Midwest – e che cosa sia, in fondo, il Midwest stesso – alla fuga dalla California, la discussione sull’aborto, la questione dei latinos e altro ancora. È uno spaccato della società e della politica statunitense che parte dalla ricostruzione storica delle questioni affrontate di volta in volta nei vari saggi per poi concentrare tutta l’attenzione sulla situazione contemporanea. Un ottimo strumento, quindi, per comprendere un po’ meglio non solo come si arriva all’elezione di un Presidente ma anche quali fattori concorrono alla sua nomina e quali impatto tale scelta ha sui cittadini del suo Paese e in certa misura sul resto del mondo. Accanto ci sono anche un paio di saggi di cui francamente fatico a capire la collocazione in questo volume, se non per la semplice comunanza della materia Usa: mi riferisco soprattutto al testo firmato da Marco Cassini, editore di Sur, che pur interessante specie per chi come me lavora con i libri, non trova particolare ragione di essere qui. Nonostante ciò Ogni quattro anni è uno strumento utilissimo per orientarsi in queste ultime decisive settimane prima della nomina del nuovo presidente.

Ma come si arriva fin qui? La macchina elettorale nell’anno delle presidenziali parte a gennaio, con le primarie: i partiti scelgono il proprio candidato, dando il via a una stagione densa di comizi, incontri, dibattiti, copertura mediatica. Il Super Tuesday è il primo giorno decisivo di questa lunga marcia, «durante il quale votano contemporaneamente molti Stati» per scegliere il candidato. A giugno si conclude questa prima fase, a cui segue la convention nazionale durante la quale i delegati decidono infine il candidato del loro partito, uno per parte, che concorrerà quindi alla corsa verso la presidenza. Da questo momento si apre il periodo più caldo delle elezioni, una campagna elettorale che vede i due candidati impegnati in dibattiti televisivi, confronti, eventi rivolti ai loro elettori – con una serrata raccolta fondi fondamentale per il sostentamento della campagna – e incontri con i cittadini. A inizio novembre si tengono le votazioni: vince il candidato che ottiene la maggioranza dei voti dei “grandi elettori”, che attualmente sono 538. Chi sono i grandi elettori? Sono dati dalla somma dei deputati e dei senatori di ogni Stato, il numero varia in base alla popolazione e, di conseguenza, stati più densamente popolati hanno un numero di grandi elettori maggiore rispetto ad altri meno popolati. Se tutto va bene con questa votazione si chiude la campagna e si elegge il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Resta quella che fino al 6 gennaio 2021 è sempre stata considerata per lo più una proforma, ossia la convalida da parte del vice presidente in carica e, il 20 gennaio seguente, l’insediamento alla Casa Bianca.

Tuttavia nel 2021, all’epoca delle presidenziali che hanno visto scontrarsi Biden e Trump, la convalida è stata tutt’altro che una semplice proforma e il 6 gennaio 2021 rimarrà una delle giornate più oscure per la democrazia statunitense. Scontenti dei risultati elettorali e incitati dallo sconfitto Trump che sosteneva l’invalidità dell’esito delle votazioni a causa di brogli elettorali e invitava i suoi sostenitori a manifestare il dissenso, un gruppo di estremisti ha assaltato Capitol Hill, sede del Congresso degli Stati Uniti, per impedire all’allora vice presidente Vice la ratifica del voto.

All’organizzazione e alla promozione della manifestazione si erano aggregati diversi protagonisti, da politici vicini a Trump stesso, alcuni suoi collaboratori e ricchi finanziatori, a gruppi radicali di estrema destra e suprematismo bianco, antisemiti e neonazisti. Questi in particolare iniziarono a progettare una partecipazione armata e militare, comunicando l'intenzione di impedire la ratifica dei risultati a ogni costo e con ogni mezzo, tra l’indulgenza di Trump e l’accoglienza degli altri coinvolti nella manifestazione. (“L’assalto al Congresso”, p. 90)

Le scene di violenza sono ben impresse nella nostra memoria, come la posizione ambigua di Trump che ha indugiato a lungo prima di richiamare all’ordine i manifestanti e senza davvero prendere le distanze da tale violenza. Oggi come sappiamo, nonostante i processi e le richieste di impeachment, Trump è di nuovo in corsa per la Casa Bianca, sfidato da Kamala Harris, candidata per i Democratici dopo il ritiro del presidente uscente Joe Biden. Come siamo arrivati qui, l’ascesa di Trump in politica e chi sia l’elettorato dietro lo slogan Make America Great Again è un altro dei nodi cruciali che Ogni quattro anni cerca di affrontare, scardinando qualche stereotipo per ragionare su una società complessa, eterogenea come nessun’altra e soffermandosi su questioni che hanno un grande peso nella politica del Paese, da quella locale fino allo studio ovale.

È il caso, per esempio, dell’istruzione pubblica e del sistema educativo in generale, i cui problemi più radicati sono le disuguaglianze e l’enorme debito studentesco, una piaga quest’ultima che nessuna amministrazione è riuscita a risolvere.

Pensateci, sono il presidente degli Stati Uniti e ho finito di ripagare i debiti studenteschi solo otto anni fa (“La scuola non è come nei film”, p. 57)

A dirlo era l’ex presidente Barak Obama, denunciando una situazione che si fa sempre più problematica e ben lontana da soluzione. Come scarse sembrano oggi le soluzioni per risolvere un’altra annosa questione del sistema educativo statunitense, ossia le disuguaglianze di cui è intriso e che partono dalla divisione del territorio in distretti scolastici finanziati dal singolo stato e dalla città, con quote destinate alla scuola pubblica ben diverse da una zona all’altra. Una questione che si intreccia anche al discorso razziale e alla mancanza di differenza culturale nei distretti e nelle scuole. La tematica razziale è da sempre seppur in forme diverse centrale nella corsa alla Casa Bianca e se è vero che la segregazione è finita da decenni è anche vero che siamo ancora lontanissimi da poter dichiarare gli Stati Uniti – e tutti gli altri Paesi del mondo – una società post razziale. L’omicidio di George Floyd ha infuocato il movimento Black Lives Matter già esistente e dato il via a una serie di manifestazioni contro l’abuso di violenza della polizia nei confronti dei neri, ma è anche l’occasione per riflettere sul razzismo sistemico, sul significato della vittoria di Obama e su che cosa effettivamente sia stata la sua presidenza in questo senso, sull’ascesa di Trump e l’uso di un linguaggio razzista.

Secondo alcune proiezioni, per la prima volta nella storia del paese i bianchi smetteranno di essere la maggioranza assoluta della popolazione entro il 2040, e questo è un dato che molte persone bianche vivono con una crescente preoccupazione, in un modo che influenza senza dubbio le loro tendenze elettorali. (“La lunga storia della questione razziale”, p. 69)

Il discorso razziale si intreccia quindi anche alla questione delle minoranze in un Paese, si diceva, eterogeneo, in cui parte crescente dell’elettorato bianco si sente minacciato e «una parte molto consistente della politica e dei media» sceglie di «aiutarli a indirizzare la loro frustrazione […] facendo leva su una certa dose di ignoranza e di pregiudizio preesistenti». L’ascesa di Trump si lega anche a questo contesto e l’ambiguità di certe sue posizioni, i suoi comportamenti e le opinioni espresse in merito a immigrati – soprattutto messicani e musulmani – fomentano una situazione già di per sé piuttosto complicata.

La narrazione Usa è, lo sappiamo bene noi lettori, legata in modo peculiare alla geografia e ragionare sulla politica porta a osservare mutamenti, criticità e nuovi scenari possibili, crisi che paiono difficili da arginare, identità, luoghi. Emblematici i casi della California e del Texas: negli ultimi anni e per una serie di fattori che vanno dal peggioramento della qualità della vita, l’impatto di fenomeni climatici estremi e la crisi abitativa, un numero crescente di persone ha scelto di andarsene dalla California, in un contro esodo che ha cambiato nettamente la realtà dello stato. Molte delle persone che lasciano la California si sono spostate nel vicino Texas, attratti da vantaggi fiscali e migliori possibilità abitative. Ma se all’inizio il governo locale vedeva in questo improvviso interesse per il Texas un’opportunità da sfruttare, anni dopo questa migrazione estesa la situazione inizia a farsi complessa e le strategie politiche non sembrano aver dato una risposta adeguata al cambiamento in atto, tanto demografico quanto economico. Il rischio è che il Texas stesso possa ritrovarsi presto a dover affrontare problemi simili a quelli della California.

Le situazioni cambiano e le politiche inadeguate possono avere conseguenze gravi da cui è difficile riprendersi, come nel caso per esempio della città di Flint, poco distante da Ditroit, in quello che qualche decennio fa era il «cuore produttivo del Paese», il Midwest, «sede delle più grandi industrie manufatturiere e soprattutto di enormi aziende automobilistiche». La delocalizzazione e l’automatizzazione dei processi produttivi, insieme appunto a politiche scellerate hanno decretato la fine del periodo di prosperità che e sviluppo che caratterizzava l’area fin dal secolo scorso. Le città hanno iniziato a spopolarsi e i livelli di criminalità e povertà sono aumentati in maniera preoccupante. Il simbolo più evidente di questo declino e dell’insieme di fattori che hanno portato alla rovina è la città di Flint appunto, che a seguito del crollo del settore automobilistico divenne sempre più povera e nelle mani della criminalità, trasformandosi «in un posto da evitare». Non solo, le scelte politiche avventate – per non dire criminali – danneggiarono profondamente la rete idrica e la salute dei cittadini, un’emergenza sanitaria le cui «conseguenze dureranno ancora a lungo».

Sono le molte facce dell’America, tra democrazia, possibilità, cambiamento e crisi, di cui il volume Ogni quattro anni mette ben in evidenza gli aspetti più legati alla politica e alle elezioni presidenziali, in un quadro che per sua natura non può dirsi esaustivo ma che rende senza dubbio più chiara la complessa macchina verso l’elezione del nuovo presidente e, come sempre i libri dovrebbero fare, ci spinge a riflettere su questioni che riguardano tutti noi, americani o meno.

Debora Lambruschini

I fascisti che siamo stati: "Piedi freddi" di Francesca Melandri


Piedi freddi
di Francesca Melandri
Bompiani, agosto 2024 

pp. 272
€ 17,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

Ma a cosa serve dirci antifascisti cantando Bella ciao, se poi non riconosciamo un fascista come Putin quando ce l’abbiamo davanti? (p. 214)

È il 1943. L’esercito italiano si ritira dalla campagna di Russia che, durante la propaganda fascista, viene descritta come la battaglia contro il nemico comunista. Prima della ritirata, però, i soldati italiani – alleati con quelli tedeschi – fanno quel che fanno tutti i soldati nei territori occupati: saccheggiano, violentano, uccidono.

È il 2022. L’esercito russo è nei territori ucraini. La motivazione ufficiale promossa da Putin per la sua guerra d’occupazione è la denazificazione dell’Ucraina. Attraverso i social media, però, tutti noi vediamo le atrocità commesse nelle città a est di Kiev: saccheggi, violenze, uccisioni.

È questo parallelismo fra l’invasione nazifascista dei territori dell’est Europa durante la seconda guerra mondiale e quella russa di questi anni a dare il la al nuovo libro di Francesca Melandri, la quale sin dagli esordi in narrativa con Eva dorme, e poi soprattutto con Più alto del mare e Sangue giusto, nulla risparmia al passato poco onorevole dell’Italia.

Soprattutto, è la consapevolezza, ripetuta fino allo sfinimento nel corso del libro, che quella guerra di Russia del 1942-43, è stata perlopiù una guerra d’Ucraina, perché combattuta in prevalenza nelle fertili campagne ucraine. E ancora – e qui sta la chiave di volta di Piedi freddi – la consapevolezza che il padre di Francesca Melandri ha partecipato a quella guerra di Russia, e dalla parte “sbagliata” della storia. Il punto nodale del libro, infatti, ruota intorno a una questione, sulla quale l’autrice riflette in modo chiaro e con una trasparenza d’intenti notevole: noi (ossia lei e la sua famiglia ma, per estensione, potremmo dire “moltissimi italiani”) ci definiamo antifascisti ma siamo in grado di fare realmente i conti col nostro passato? E soprattutto, davanti a quel che sta accadendo nel mondo, e nello specifico in Ucraina (ma anche a Gaza, si può aggiungere, e Melandri lo fa, anche se di sfuggita: i tempi di scrittura, pubblicazione e stampa, si sa, non sono sempre al pari con gli eventi del mondo, quindi l’invasione di Gaza da parte di Israele è un fatto che deve essere avvenuto durante o dopo la stesura di Piedi freddi), in che modo abbiamo reagito?

Piedi freddi non è un romanzo, come invece sono i precedenti libri di Melandri. È piuttosto una combinazione fra saggio e un memoir mascherata da lettera al padre. L’autrice si rivolge a Franco Melandri, consapevole che questo dialogo è unidirezionale perché Franco Melandri non c’è più. A lui rivolge considerazioni, domande, dubbi che avrebbero potuto essere affrontati in vita ma che – per mancanza di tempo, o forse di coraggio – sono emersi solo oggi, in questo momento storico così complesso. Il libro affronta più volte gli stessi argomenti, torna spesso sugli anni del fascismo, sul periodo della Liberazione e sul primo dopoguerra, focalizzandosi sui comportamenti del padre, così poco conciliabili con quelli sempre affettuosi rivolti alla famiglia e con quanto narrato nel primo dei libri che Franco Melandri ha pubblicato, quel Ritorno col matto che tanto male parla delle guerre in generale e di quella di Russia (che, sottolinea sempre l’autrice, è stata perlopiù d’Ucraina). Anche i paragoni fra anni Quaranta e nuovi anni Venti (ossia i nostri) tornano spesso, quasi fino allo sfinimento, come a voler sottolineare che tutte queste considerazioni dovrebbero essere sempre sotto i nostri occhi. In un romanzo, queste ripetizioni e questo tornare sempre sugli stessi punti sarebbero stati un problema, perché avrebbero affossato la narrazione; in questo libro, pur rischiando lo stesso problema, Melandri riesce a evitarlo.

I diversi capitoli affrontano gli stessi argomenti da punti di vista leggermente diversi, di fatto andando a coprire tutto lo spettro delle considerazioni possibili. E, soprattutto dalla metà del testo, l’autrice inizia a fare quel che sa fare meglio: autoanalisi, e non sono della propria persona ma di un certo tipo di italiano – borghese, benestante, moderatamente di sinistra. Lo fa non flagellandosi come un credente in punizione, bensì rivolgendosi le domande giuste e provando a darsi una risposta per quanto possibile onesta. Le domande che l’autrice rivolge al padre e a se stessa sono le stesse che, leggendole fra le righe di Piedi freddi, il lettore arriva a porsi. Le risposte che Melandri si dà potrebbero coincidere con quelle del lettore, o potrebbero essere diverse, non importa: l’importante è tirarle fuori, metterle nero su bianco e formulare una considerazione che conduca a un’illuminazione. Questo sembra essere l’obiettivo di Piedi freddi, che di certo non è un libro d’intrattenimento, né una rilassante lettura domenicale. È piuttosto un testo scomodo, spigoloso, che vuole smuovere qualcosa. E lo fa, sia per la ripetizione degli argomenti (possiamo evadere la domanda una prima o una seconda volta, ma a forza di ritrovarcela davanti a un certo punto dobbiamo affrontarla), sia per la sincerità con cui Melandri stessa si mette in gioco.

Il suo esporsi diviene alla fine il nostro esporsi e, legati alla lettura e nella solitudine del nostro rapporto intimo con il libro, ci ritroviamo quasi in un confessionale, protetti dal resto: a questo punto, resistere non ha più senso. Tanto vale essere sinceri, e porci la domanda fondamentale: siamo veramente antifascisti?

David Valentini

Andare contro tutti e tutto: “Le cicogne della Scala” di Silvia Montemurro



Le cicogne della Scala
di Silvia Montemurro
Edizioni E/O, 23 ottobre 2024

pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

Silvia Montemurro, dopo La piccinina, torna a indagare l’infanzia, il ruolo della donna e il desiderio di emancipazione che ha attraversato il genere femminile nel corso dei secoli, scegliendo una via insolita: quella del teatro che, per lungo tempo, ha accolto e respinto le donne.

Violetta ha un sogno: diventare la prima ballerina del teatro La Scala. Può sembrare un sogno come tanti altri, ma Violetta lo decide quando ha appena sette anni ed è impossibile che a quell’età una bambina sappia sul serio cosa “vuole fare da grande”. Eppure, quel desiderio diventa un’ossessione, soprattutto perché essere la prima ballerina significa far contenta la madre, che spinge lei e la sorella Fiamma verso quella strada. D’altronde, la madre, Juliette, era stata una cantante francese che, costretta ad abbandonare le scene d’Oltre d’Alpe, non ha mai rinunciato realmente a quello stile di vita e così spinge le figlie a intraprendere la carriera artistica. Sebbene Violetta si senta costretta, sembra che la vita sul palco non le dispiaccia fin quando, però, un incidente (non tanto accidentale) stronca la sua carriera e i sogni della madre. Caduta dalle scale, Violetta non riuscirà più a ballare, perché resterà zoppa per sempre. Quell’incidente sembra la rovina di tutto: della carriera della bambina, dei sogni della madre e dei progetti di entrambe. 
Eppure, non è proprio dispiaciuta perché le ha donato «quel senso di libertà» (p. 23) che non aveva mai assaporato, dandone l’opportunità di scegliere chi voler diventare. Il rifugio rimarrà La scala, ma questa volta dietro il sipario, nella stanza dei sarti. In accordo con la madre, Violetta trova lì il suo spazio ma anche lì provare a manifestare la propria personalità sembra un’impresa. Lontano dalle luci, La scala, come altre realtà artistiche, sembra accogliere e respingere le donne quando queste intraprendono una strada non consueta e, soprattutto, non prevista («Solo perché sono diversa da te, non significa che quella strana sia io», p. 89). Se in primo momento Violetta si rassegna all’«arte del silenzio, della concentrazione e del sapersi adattare» (p. 34), un musicista le farà cambiare idea, spingendola a combattere i pregiudizi che anche nel teatro incatenavano le donne a precisi ruoli. Quel musicista all’apparenza identico agli altri, è in realtà una donna, costretta a travestirsi per far parte dell’orchestra. Amelia la spinge a infrangere quelle regole, quegli schemi (in primis suoi) che avevano provato a imprigionarla tra quelle stoffe.
« Ti fa male essere donna?».
«Se non posso diventare ciò che voglio, sì» (p. 69)
Se il palcoscenico è il luogo dello spettacolo e del divertimento, è dietro le quinte che si svolgono la storia personale (quella di Violetta e di molte altre) e quella collettiva che si muove dagli anni Venti fino agli Sessanta. Sì, perché il palco, i camerini e le stanze dei sarti sono travolti prima dal Fascismo e poi dalla guerra che cambia tutti i protagonisti di questo spettacolo. 
Le cicogne della Scala è il racconto che parla a tutte quelle ragazze che difficilmente riescono a trovare il loro posto del mondo (come accade a Violetta) che sono alla continua ricerca della propria strada, a prescindere dalle aspettative dei genitori, di quello che il mondo chiede o, semplicemente, di quello che si ha timore a fare. 
Silvia Montemurro torna con una storia ambientata in un’epoca passata in cui non si può non notare un’attenta e sensibile osservazione dei nostri tempi, quelli più contemporanei: dal ruolo della donna, a quello della genitorialità fino all’aspetto fisico. E così come accade a Violetta, guardata e presa in giro per la sua zoppia, mi viene da rimuginare su quanti di noi abbiano subito sguardi o appellativi solo perché in sovrappeso, con gli abiti non “giusti” o, semplicemente, perché l’aspetto esteriore non si adeguava a quello di tutti gli altri.
Il mondo in cui vivevo era incentrato sull’apparenza, dunque sui corpi. E il mio, secondo i canoni della maggior parte delle persone, non era all’altezza. Non più, da anni. (p. 36)
Giada Marzocchi


"Pranzo di famiglia" di Bryan Washington: cibo e fratellanza, la vulnerabilità dei conflitti e degli amori raccontata attraverso la cucina

Pranzo di famiglia 
di Bryan Washington
NN Editore, settembre 2024

Traduzione di Fabio Cremonesi

pp. 352
€ 19,00 (cartaceo)
€ 8,99 (eBook)


Questa è un'opera narrativa che parla di autolesionismo, disordini alimentari e dipendenza. Se avete problemi di salute mentale o dismorfofobia, questo romanzo potrebbe mettervi alla prova. Perciò vi prego di essere gentili con voi e di procedere al rimo che vi è proprio. Non esiste un modo sbagliato di essere e l'unica maniera giusta è essere come vi sentite. Cura e lentezza sono due doni che vi meritate, riserve sconfinate che potete offrire a voi e a coloro che vi stanno a cuore. (p. 7)

Un'intro così metterebbe a dura prova qualsiasi lettore, eppure c'è, in Pranzo di famiglia, qualcosa che tiene chi legge incollato a pagine e pagine di sensi di colpa, dolore, rabbia, lutto, carisma, e amore non detto. Ambientato principalmente a Houston, in Texas, il personaggio centrale Cam vive una vita dissoluta fatta di abuso estremo di droghe, disturbi alimentari, sesso compulsivo e anonimo, dopo la morte del suo compagno Kai. Un compagno d'infanzia, TJ, torna nella sua vita, nutrendo sentimenti complicati per lui e per il suo passato, e nel grande calderone problematico di relazioni intrecciate si aggiungono anche genitori morti e incapacità di crearsi un futuro per sé. Cam è straziato dalla perdita del suo compagno, ucciso dalla polizia di Los Angeles durante un controllo. Il suo fantasma gli appare di continuo, regalandogli attimi di tenerezza e di profondo smarrimento. Di fronte a un Cam triste e autodistruttivo che cerca di annullarsi all'estremo, TJ mette da parte i rancori e decide di accompagnare l'amico nella sua lenta rinascita e stando vicino a Cam trova la forza di prendere in mano la propria vita, aprendosi all'amore che non ha mai pensato di meritare.

Il romanzo è raccontato dalla prospettiva di tre uomini queer ventenni: Cam, Kai e TJ, in una città che si adatta perfettamente alle voci dei personaggi, aggiungendo profondità e nuovi elementi alla narrazione. L'autore Bryan Washington, come nelle sue altre opere, manifesta in Pranzo di famiglia quel dolore autentico che descrive l'esperienza umana universale della perdita e degli intricati percorsi che si percorrono per la guarigione. Come i suoi primi libri, anche quest'ultimo presenta prevalentemente personaggi queer neri e dell'Asia orientale. A volte, Washington esplora questioni contemporanee che possono a prima vista, sembrare prese direttamente dai titoli dei giornali - tra le altre cose, Pranzo di famiglia tocca temi quali la gentrificazione e la brutalità della polizia. Tuttavia, sembra essere un promemoria che le tragedie trattate nei resoconti delle notizie che continuano a popolare la nostra comunità non sono sono mere astrazioni, ma hanno impatti tangibili sulle vite individuali. 

Un'altra continuità con i lavori precedenti è il cibo come pratica culturale e come metafora. L'amore di Cam per Kai diventa evidente quando finalmente accetta di cucinare per lui dopo un lungo periodo di riluttanza. Quando TJ riceve una diagnosi di sieropositività all'HIV, Cam torna a casa a Houston invece di festeggiare la sua laurea e decide di stare con l'amico per due settimane, prendendosi cura di lui principalmente cucinandogli tutti i pasti. Dopo la sua spirale di dolore, Cam alla fine torna a piegare l'impasto dei croissant nel panificio di TJ, mescola le uova nella farina per il kougn-aman. Durante uno dei controversi viaggi di Kai a casa a New Orleans, protesta per l'assurda quantità di cibo che viene preparato, ma sua madre lo rimprovera perché cucinare è cura. L'atto è la cura. Nella storia stessa, il cibo funge da mezzo di comunicazione, un modo per i personaggi di esprimersi senza il peso delle parole:

Faccio per aprire bocca, ma non esce nulla. Così mi limito a rimanere in silenzio. E poi il silenzio diventa una cosa fisica a sé stante. (p. 99)

La capacità di Washington di evocare l'esperienza sensoriale del cibo sullo sfondo di un dialogo tra personaggi che non dicono mai esattamente cosa intendono, arricchisce la narrazione immergendo il lettore nelle vite dei protagonisti e creando una connessione tangibile tra le loro lotte interiori e il modo in cui si mostrano collettivamente l'uno per l'altro. Pranzo di famiglia risulta essere una toccante testimonianza dello stile distintivo e della visione del mondo dell'autore che dà priorità al collettivo rispetto all'individuo. I suoi personaggi sono resi con profondità e autenticità mentre affrontano il tumultuoso viaggio del dolore, della scoperta di sé e della ricerca di appartenenza. Raccontato attraverso una prosa evocativa e una narrazione immersiva, il romanzo mostra al lettore il significato profondo della famiglia e il potere di un pasto condiviso. Nei momenti di rottura e di riconciliazione, il cibo viene offerto o condiviso; le storie d'amore vanno e vengono intorno ai fornelli. Cam, addirittura, cucina invece di pagare l'affitto. Spesso, anche il sesso, precede o segue un pasto. È anche significato che Cam, il più "problematico" dei tre narratori, abbia un disturbo alimentare. Ma il cibo è il piacere stesso della storia familiare. In superficie, Pranzo di famiglia sembra una rielaborazione di una ricetta ben nota, tratta da una dispensa di ingredienti che Washington ha usato in opere precedenti.

Cosa significa andare avanti, da qualche parte, da qualcuno e dove si va? Un merito del romanzo è il fatto che la storia resista alle risposte facili e esplori le ripercussioni delle scelte fatte dai suoi personaggi.

Leggere Pranzo di famiglia di Bryan Washington è come sfogliare con affetto un album di vecchie foto di famiglia: gioioso, doloroso e pieno d'amore, tutto in una sola volta. Questo libro è per chi sa dimostrare l'amore restando in silenzio, perché se ne dicono di parole, ma a volte non è necessario. Per chi ha guardato Parasite senza mai stancarsi, per chi apre il frigorifero e trasforma gli avanzi in un piatto delizioso, per chi non ha mai dimenticato che non esiste un passo uguale all'altro perché ogni persona ha un suo ritmo, inimitabile, distinguibile e giusto per raggiungere la sua felicità. 

Serena Palmese

L'estate versiliese che chiuse per sempre le porte alle illusioni dell'infanzia: "Settembre nero" di Sandro Veronesi



Settembre nero
di Sandro Veronesi
La Nave di Teseo, ottobre 2024

pp. 304
€ 20 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


[...] l'unico me che conta nella storia che intendo raccontare è un ragazzino di dodici anni che non sa ancora niente di niente. (p. 29) 

Crescere implica di aprire gli occhi su tante realtà, compresa la propria famiglia: e le scoperte possono essere traumi brucianti, da cui è impossibile tornare indietro. Lo sa bene Gigio Bellandi, io narrante del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, Settembre nero, a cui è affidata la ricostruzione di un'estate particolare, quella del '72, che ha rimescolato le carte della sua vita e posto fine per sempre ai resti dell'infanzia. Ripercorrere quei giorni adesso, da adulto, per il protagonista non è semplice, perché sono intercorsi anni, esperienze, nuove memorie, e gli eventi passati sono filtrati dalla maturità, che rilegge, suo malgrado, e giudica.

Eppure questo non toglie la freschezza di quei giorni passati a Fiumetto come tante altre estati, con l'ombrellone vicino a quello dei proprietari della casa che i Bellandi affittano ogni anno. In quella prima fila che grida "ricca borghesia", la signora Mesy Raimondi sembra non curarsi degli sguardi affamati e curiosi che tutta la spiaggia rivolge alla sua pelle scura da etiope, mentre sua figlia Astel, bella quanto lei ma ancora acerba, mostra i primi segni di un'adolescenza in boccio. Il signor Raimondi, invece, è praticamente assente e le rare volte che scende in spiaggia è evidentemente a disagio. 

Anche sotto l'ombrellone dei Bellandi si registra qualche cambiamento: il padre, Augusto, è meno presente, benché abbia sempre considerato il suo agosto versiliese un momento di pace assoluta. Quest'anno, preso com'è dal suo lavoro di avvocato in una causa pro bono molto impegnativa, appare di rado col suo entusiasmo contagioso da velista amatoriale, ma in quei giorni la sua presenza si nota: Augusto porta Gigio sulla barca e ostenta tutta la sua sicurezza da "capitano". La madre, invece, sotto l'ombrellone mostra la sua pelle chiarissima e i suoi capelli rossi da irlandese che suscitano tante fantasie, e si affanna a tenere all'ombra la piccola di casa, Gilda, a cui occorre dedicare cure dermatologiche speciali. Gigio, osservando le attenzioni che la madre rivolge a Gilda e la loro complicità, si sente spesso escluso e giusto «l'inglese per me era soltanto un nascondiglio dove potevo rifugiarmi per restare un po' da solo con mia madre» (p. 85). Di certo, prima di quell'estate, non aveva mai riflettuto sul fatto che il suo essere bilingue potesse rappresentare un'attrattiva per gli altri. 

Invece, la scioltezza con cui Gigio traduce canzoni, poesie e altri testi induce Astel ad avvicinarsi a lui - o forse è una scusa?! Sotto il sole della Versilia, tra pomeriggi caldissimi passati nella casa di Astel a scoprire i primi timidi sentimenti e il valore assoluto della contemplazione di chi si ama, Gigio ignora tutto ciò che sta davvero avvenendo: lui è concentrato sulle Olimpiadi, sui quarantacinque giri da far suonare a ripetizione, sulle treccine di Astel,... Se qualche volta Gigio prende atto di come si stia trasformando quell'estate, senza nascondere di tanto in tanto il compiacimento per la sua crescita e la nostalgia dell'infanzia, ancora è all'orizzonte la brusca "sterzata" della storia. E, se rischiamo di perderci nei profumi dell'estate degli anni Settanta, tra dettagli amarcord di malinconica poesia, lasciandoci andare alle digressioni che interrompono il fluire della storia, poi ci pensa il narratore a riportarci sulla retta via: 

E siamo arrivati al punto in cui la storia sterza. Anzi no, ancora non sterza, ma accelera; accelera bruscamente - la qual cosa renderà rovinosa l'uscita di pista quando arriverà la sterzata. Se fin qui vi ho raccontato tutte queste piccole cose non è perché le consideri importanti in sé - so bene che non lo sono -, ma perché vi rendiate conto di chi ero io a quel tempo e di cosa era composta la mia vita, al culmine della mia infanzia, anzi già un poco oltre, a dodici anni, nell'estate del '72; e così facendo, sforzandomi di ricordarle per raccontarle a voi, me ne rendo conto anch'io. (p. 89)

E, di prolessi come questa, se ne trovano tante nel romanzo; qualche volta si ha la sensazione che Veronesi avrebbe potuto lasciar scorrere i ricordi di Gigio senza continui appelli (un po' antimoderni, diciamocelo) ai lettori. Queste irruzioni extradiegetiche sono piuttosto superflue, in effetti, perché Settembre nero per molte pagine è una storia morbida che scorre piacevolmente, grazie a una scrittura scioltissima per cui non si può provare che ammirazione (ma si sa da anni che Veronesi è uno scrittore di grande talento). Allora forse viene da pensare che quei "richiami all'ordine" siano giusto funzionali a ricordarci che c'è altro, che la storia non si esaurisce nella già splendida e autosufficiente (e, di fatto, dominante anche in fatto di numero di pagine) formazione sentimentale di un dodicenne alla scoperta di sé attraverso pensieri e sensazioni nuove. Quell'altra dimensione, di cui si può anticipare pochissimo in una recensione, è assolutamente antinomica rispetto all'assolata Versilia del '72: c'è la presa di coscienza di essere parte di un mondo che non va come vorremmo, dove si consumano atti terroristici terribili e vicende di cronaca nera in grado di turbare i sonni degli adulti. Gigio carpisce tutto questo solo in parte, ma intravvede che anche la quotidianità degli adulti è piena di ombre nere, segreti mai svelati per quieto vivere. E la verità a un certo punto esce dall'ombra, accecando chiunque voglia provare a osservarla.

Settembre nero è, infine, una riflessione sul tempo: se l'infanzia è l'età della ripetizione ciclica delle estati, nella loro rassicurante fissità, l'adolescenza, a partire dal primo trauma, dà avvio a un tempo che parrebbe lineare, ma è pieno però di vuoti e interruzioni. Forse l'unico modo per provare a ricomporre quel sentiero accidentato che porta al disincanto dell'adultità è guardarsi indietro, inspirare a fondo e reimmergersi nella dimensione ora ospitale ora disturbante del ricordo. 

GMGhioni

«È tardi, tardissimo! Terribilmente tardi!»: "La storia del Bianconiglio" immaginata dal Benjamin Lacombe, tra suggestioni per piccoli e grandi lettori



La storia del Bianconiglio 
storia e illustrazioni di Benjamin Lacombe
Ippocampo, ottobre 2024

Traduzione di Edvige Le Noël

pp. 72
€ 19,90 (cartaceo)

La fantasia e il tratto immaginifico del celebre illustratore francese Benjamin Lacombe si sposano meravigliosamente con i mondi di Lewis Carroll e la sua Alice: dopo aver realizzato due volumi preziosi dedicati a Alice nel Paese delle Meraviglie e Alice al di là dello specchio, entrambi pubblicati da Ippocampo, Lacombe torna al mondo di Carroll per dare voce questa volta a uno dei suoi personaggi più amati e curiosi, il Bianconiglio. È appena approdato in libreria La storia del Bianconiglio e del perché arriva sempre in ritardo, un albo illustrato che si inserisce perfettamente nel catalogo di Ippocampo e nella stretta relazione tra Lacombe e i classici, dall’infanzia all’età adulta. Un grande formato, come per i recenti L’infanzia dei cattivi, Biancaneve, La migliore mamma del mondo, Le streghe e Le fate solo per citarne alcuni, ideale per godere appieno della storia e delle illustrazioni a tutta pagina.

Parole e immagini si fondono perfettamente nei volumi di Lacombe, che questa volta firma da sé una storia per un pubblico di lettori senza età. La narrazione è tutta concentrata sul Bianconiglio, dalla nascita alla vecchiaia: uno dei personaggi più iconici del Paese delle Meraviglie di Carroll, che Lacombe rende qui protagonista, colmando i vuoti della narrazione originale a cui abilmente si intreccia anche attraverso l’evocazione di altri personaggi noti quali Il Gatto del Cheshire, Alice stessa, La Regina di Cuori.

«Povero me! Povero me! Arriverò in ritardo!» si ripeteva sempre il Bianconiglio di Carroll ed è qui che Lacombe innesta la sua storia, immaginando l’infanzia e poi l’età adulta di questo adorabile personaggio in perenne lotta contro il tempo, ritardatario fin dalla nascita. Sì, perché già al momento di venire al mondo il Bianconiglio lo fa con un certo ritardo rispetto ai suoi numerosi fratelli e sorelle, nati tutti «in men che non si dica», mentre lui si attarda ancora un po’ al riparo nel ventre materno ma in ascolto di quello che accade all'esterno. Quando finalmente si decide a venire fuori è quindi già in ritardo, caratteristica che manterrà e gli causerà non pochi guai come sappiamo. In ritardo, sì, qualche volta di corsa nel disperato tentativo di recuperare il tempo – ed evitare poi di farsi tagliare la testa dalla temibile Regina di Cuori – ma, soprattutto, incantato dal mondo che lo circonda, dalle sue meraviglie, dalla bellezza della natura che lo rapisce con la sua varietà.

Sul sentiero per la scuola, il Bianconiglio si fermava a contemplare il mondo intorno a lui. Scopriva la bellezza in ogni cosa, nel sole che giocava tra le foglie, nel mormorio di un ruscello, nei riflessi cangianti dello scarabeo… (p. 11)

È così che, impegnato a osservare ciò che gli sta intorno, finisce per affannarsi un po’ nel tentativo di combattere contro le lancette che corrono e cacciarsi in qualche guaio, ma dando anche prova di un certo talento per le storie, incantando gli amici con i suoi racconti fantasiosi e pieni di umorismo.

Con le orecchiette abbassate, s’inventava allora le scuse più improbabili, dal simpatico incontro con una famigliola di tassi al duello con un drago sputafiamme che gli aveva sbarrato la strada… Sembrava che l’universo gli impedisse in tutti i modi di essere puntuale! (p. 14)

Come il nostro amato Bianconiglio anche Lacombe è un abile cantastorie e questo albo breve è davvero ricco di spunti che apprezzeranno tanto i piccoli lettori che gli adulti. Il tratto grafico ben noto dell’autore si fa questa volta più fiabesco e tenero, abbandonando le atmosfere oscure degli ultimi volumi ma sempre fedele alla sua peculiarità e al colore caldo, pieno, con cui evoca il mondo immaginato. I primi piani delle scene sono ricchi di dettagli, mentre lo sfondo si fa via via più sfumato, gli animali antropomorfi raccontano la diversità e ogni immagine non è solo accompagnamento ideale alla storia ma la amplifica nell’intreccio tra il testo e noi lettori. Davvero apprezzabile anche lo stile con cui Lacombe racconta la vicenda del Bianconiglio e di cui dobbiamo essere molto grati anche alla traduzione dal francese di Edvige Le Noël: le parole sono ricercate con cura, il linguaggio attento e puntuale rende la storia tanto godibile per lettori adulti che per i più piccoli che si troveranno a interiorizzare nuovi termini.  

Dietro l’apparente semplicità della storia, inoltre, si intuiscono tematiche e spunti su cui forse siamo proprio noi adulti a doverci maggiormente soffermare, a partire dalla riflessione sulla necessità di prestare attenzione al mondo che ci circonda e a farci stupire dalla bellezza delle cose. E, soprattutto, La storia del Bianconiglio pare richiamare forte l’attenzione sulla necessità di «vivere al proprio ritmo», contro la frenesia che la società vuole imporci. Il protagonista, aiutato dalla dolcissima Celeste, personaggio che lascio ai lettori scoprire, fatica a comprendere che è impossibile resistere al tempo che scorre, ma ognuno di noi ha un ritmo intimo che dovremmo imparare ad ascoltare e rispettare.

Allargo il discorso ma stando sempre nell’ambito dei libri e delle storie, a una questione che in qualche modo si lega ai ritmi frenetici delle nostre società: anche nei confronti della lettura pare siamo chiamati a essere sempre più performanti, spinti soprattutto da certi contenuti social, challenge letterarie, uscite editoriali continue. Per chi fa questo mestiere è doveroso secondo me confrontarsi con questo argomento soprattutto nel trovare un equilibrio nella comunicazione che non dovrebbe mai scatenare nei lettori degli articoli e nei follower sui social il disagio di non sentirsi all’altezza dei ritmi di lettura di chi lo fa, appunto per mestiere. E, da questa parte, dovremmo anche sempre ricordare che se ci è chiesto di leggere molto – ed è chiaro che continueremo a farlo, per passione, per contribuire al dibattito culturale e critico, per studio – non dobbiamo però mai smettere di farlo bene, con la dovuta attenzione e rispetto per ogni testo che arriva nelle nostre mani, da un saggio critico a un albo illustrato. Leggere non deve diventare l’ennesima performance, soprattutto per un lettore che lo fa per piacere personale. E allora, insieme al Bianconiglio, riappropriamoci del nostro ritmo, tra le pagine e fuori nel mondo.

Debora Lambruschini

Quando un gol può cambiare il destino di una nazione. "Storia del mondo in 12 partite di calcio" di Stefano Bizzotto

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Storia del mondo in 12 partite di calcio
di Stefano Bizzotto
ilSaggiatore, 2024

pp. 266
€ 17,00 (cartaceo)
€ 7,99 (e-book)


Se un giornalista (per di più competente, bravo ed esperto come Stefano Bizzotto) si mette a scrivere di storia, il racconto che ne esce non sarà rigoroso in termini di analisi socio-economiche, statistiche, di dinamiche diplomatiche ecc, ma sarà sicuramente avvincente come un romanzo, trascinante come un'immagine colta nel suo compiersi e piacevolissimo da leggere. Oltreché ricco di avvenimenti da imparare. Conoscendoli, ed è questa la chiave che ha scelto Bizzotto, attraverso la lente di quello che è lo sport popolare per antonomasia, il calcio. Storia del mondo in 12 partite di calcio è tutto questo. Un'epopea collettiva, che racconta il nostro mondo e il nostro passato attraverso le vicende di 22 giocatori che scendono in campo per affrontarsi. L'autore è Stefano Bizzotto, giornalista, scrittore e  telecronista sportivo, conduttore di trasmissioni legate allo sport, voce notissima di tante partite della nostra Nazionale, 

Se è vero che in varie parti del mondo, Europa, Sudamerica e Africa in particolare, il calcio è lo sport più praticato, più amato, più seguito, più discusso dalla popolazione, giocoforza il calcio ha una sua parte, spesso importante, come si evince dalle pagine del libro, nelle vicende storiche che intersecano i vissuti dei popoli. Ecco perché scegliere questo sport come chiave di lettura, come cannocchiale per ricordare alcuni degli snodi storici del mondo è un'operazione che ha un suo senso logico e giustificato.

Con un linguaggio spudoratamente e dichiaratamente giornalistico, piacevole da seguire, semplice e preciso, Bizzotto prende spunto da calciatori iconici, partite cruciali, gol fenomenali e divisivi per raccontarci di guerre, tragedie, golpe e colpi di Stato, spionaggio, nazismo, pulizia etnica, morti sospette, neocolonialismo. Fino ad arrivare ai giorni nostri quando le partite di pallone incrociano i volti dei terroristi.

Dalla vivace penna di Bizzotto riprendono vita calciatori del passato che incrociarono la Storia spesso inconsapevolmente: Matthias Sindelar, attaccante (come si direbbe adesso "falso nueve") del Wunderteam, la squadra dei miracoli, quell'Austria degli anni 30 che incappò nell'Anschluss, l'annessione alla Germania nazista per volere di Hitler. La sua morte ancora oggi odora di Gestapo. O ancora Lutz Eigendorf, giocatore della Dinamo Berlino (Germania Est) che, dopo un'amichevole con il Kaiserslautern (Germania Ovest) non salì sul pullman del ritorno, facendo perdere le proprie tracce e rifacendosi una vita (terminata pochi anni dopo a causa di un incidente assai sospetto) al di là del Muro, nella parte occidentale della patria tedesca. Oppure Carlos Caszely, attaccante cileno che non nascose mai le proprie simpatie per Salvador Allende, il presidente destituito e suicida a causa del golpe di Augusto Pinochet (1973). Storie di Stati divisi, il blocco comunista e quello fascista, faccia a faccia in partite di calcio in cui il premio in palio non era soltanto la partita, ma l'onore del Paese e il primato delle proprie idee. Momenti topici che segnano l'avvio di guerre e rivoluzioni come quel Dinamo Zagabria-Stella Rossa (13 maggio 1990) non disputata per incidenti tra le due tifoserie. Non si fatica a crederlo, si parla di croati contro serbi e siamo alla vigilia delle guerre balcaniche che insanguinarono l'Europa a poche ore di traghetto da noi. Gli episodi citati solo per fare qualche esempio, ma sono tanti altri i momenti storici fotografati da uno stadio di calcio. E per come vengono narrati, questi episodi rappresentano tanti brevi racconti che incuriosiscono il lettore e lo spingono a voler approfondire parti di storia magari poco conosciute. La vicenda di Eigendorf, raccontata nel capitolo Una morte sospetta, è l'esempio di come un racconto vada giornalisticamente ricostruito.

Storia del mondo in 12 partite di calcio è un volume che sta benissimo anche nelle librerie degli adolescenti, che si ritrovano a osservare e capire i momenti decisivi della Storia proprio mentre si immergono nelle fasi salienti di una partita di calcio, condotti dalla voce del telecronista che tante volte li accompagna in tv. Perché «può capitare che anche la più anonima delle partite incroci la Storia» (p. 12). Magari un gol può cambiare il destino di una persona, di una squadra (Bizzotto ce lo dimostra raccontandoci della tragedia del Grande Torino) o addirittura di una nazione, può far nascere un conflitto, ma può anche interromperlo, come accadde la notte della Vigilia del 1914 quando, sul fronte della Prima Guerra Mondiale, soldati tedeschi e inglesi, anzi per meglio dire, ragazzi, perché quello erano, spontaneamente deposero le armi e per qualche ora si affrontarono correndo dietro a un pallone: la famosa Tregua di Natale che è la prima delle dodici storie raccontate nel libro di Bizzotto.

Forse 12 episodi sono pochi, soprattutto per onorare il titolo del libro, a mio parere scavando nella Storia si sarebbero potuti trovare altri episodi che ebbero una valenza simbolica fondamentale: il tocco di mano di Maradona in quell'Argentina-Inghilterra del 1986 quando le due nazioni erano in tensione per il possesso delle Falkland (o Malvinas, a seconda dei punti di vista) o la storia di Michele Moretti, il terzino partigiano o ancora quelle dei tanti giocatori e allenatori deportati nei campi nazisti, il Boxing Day del 1860, la storia della Nazionale dell'Irlanda del Nord e la sua bandiera particolare, l'Ulster Banner, la rivoluzione del 1910 che dette origine a molte squadre messicane. Insomma, il materiale è talmente tanto e appassionante che attendiamo con ansia un secondo volume.

P.s. Ho trovato geniale l'illustrazione in copertina di Osvaldo Casanova.

Sabrina Miglio

 

Tre supereroi bizzarri e una sognatrice: il primo capitolo delle avventure di una fumettista nella New York degli anni '30


La magnifica illusione
di Alessandro Tota
Coconino Press, settembre 2024

pp. 248
€ 22 (cartaceo)

Prima parte di una storia che prenderà più volumi, La magnifica illusione - fresco di nomination come Miglior Libro al Festival di Angoulêmeci porta nella New York degli anni '30 seguendo le avventure di Roberta Miller. Roberta è una giovane donna nata in Kansas, un luogo arido e remoto in cui nessuno (come dice lei stessa) può diventare famoso o avere successo. Così rubacchia i pochi spicci che riesce a trovare in casa, abbandona la famiglia e sbarca nella Grande Mela, una città tentacolare, crudele, in cui vale il detto mors tua vita mea.

Eppure Roberta, derubata appena arrivata, troverà una mano pronta ad aiutarla, Agnes. Si appoggerà alla sua nuova amica politicamente impegnata, che la introdurrà a sua volta ad altri amici, giornalisti, fumettisti, disegnatori. Così comincerà a lavorare in una redazione, dapprima come sorta di segretaria, poi - quando verrà fuori il suo talento per il disegno e la sua passione per i fumetti - proprio come fumettista.


Un incontro molto importante per Roberta è quello con Battarelli, fumettista piuttosto celebre, donnaiolo impenitente, ubriacone incallito e spendaccione senza speranza. Nelle prime battute, Battarelli ci prova con Roberta. Lei però è innamorata di un'altra persona, una donna di nome Fanny, ballerina che però non ricambia. Dopo un po', il rapporto con Batterelli si modifica in modo interessante: insieme compongono un paio improbabile, eppure il talento di entrambi, combinato in modo saggio, porterà dei risultati inaspettati.

Roberta è una donna che sogna ad occhi aperti e nel fumetto (di fatto, un fumetto dentro al fumetto) compaiono bizzarri personaggi della sua fantasia che bucano il velo della realtà e si introducono, a volte con dolcezza, più spesso con prepotenza, nella vita di tutti i giorni. Sogna e disegna supereroi, le star di quegli anni: tutti vogliono leggere di Superman e Batman, così la coppia Miller-Battarelli pensa di inventare dei suoi propri eroi. Grazie alla fantasia della prima e al talento del secondo, nasceranno: Dogman, improbabile eroe accompagnato dal suo fido cane Sniffy; Infarta, una cattivona vestita in modo succinto che tanto ricorda la sua Fanny; Ghost Writer, un supereroe scheletro che ha il potere di aprirle lo sguardo, Tutti e tre sono espressione dello spirito frammentato di Roberta, i segni onirici delle sue pulsioni più profonde: il desiderio, la volontà di emergere e avere successo, di essere riconosciuta come un talento, di aiutare gli altri, di conquistare la fama, di essere ricca e avvenente.


Non dimentichiamo però che siamo a New York, una città spietata, in cui basta distrarsi un momento che tutti provano a soffiarti il lavoro. Qui ci viene in aiuto il titolo: La magnifica illusione (che riprende, a mio avviso, il film del '39 La grande illusione) si riferisce sia al mondo del fumetto - i personaggi di fantasia, i mondi inventati, il rifugio sicuro nella carta lontana dalla crudeltà del mondo fuori - ma anche ciò che ci viene raccontato, e cioè che se ci si impegna si può raggiungere qualsiasi obiettivo. Vero è che Roberta ce la mette tutta e riesce in parte a realizzare i suoi sogni, ma la fortuna ci ha messo del suo. L'incontro con Agnes e quello con Battarelli sono fondamentali per la protagonista: senza di loro, senza il colpo di fortuna, appunto, non sarebbe andata molto lontano.

Questo è proprio il caso in cui il caso incontra il talento, in cui ci si trova al posto giusto nel momento giusto. La capacità, senza queste coincidenze fortuite, non può molto.

Le tavole dell'autore sono davvero spumeggianti: mi hanno molto ricordato, riprendendo proprio questo termine, il film The Mask con Jim Carrey (Dogman con Sniffy forse è ispirato proprio a lui). I colori, le esplosioni di azioni, il mix tra sogni e realtà, le fattezze retrò degli eroi di Roberta, calano il lettore in un'atmosfera davvero suggestiva e fumosa, proprio com'era la città in quegli anni. L'autore ha avuto l'intelligenza di adeguare la scrittura e lo stile al contesto, cosa che apprezzo sempre molto.

Ne consiglio la lettura a chi ha letto un altro testo di Coconino, simile per tematiche e background dei personaggi protagonisti, ovvero Alison di Lizzy Stewart, o a chi ama particolarmente le storie dei "vecchi" eroi e della loro genesi.

Deborah D'Addetta