Di mali oscuri e famiglie inquiete, nel secondo giorno di Wunderkammer: gli incontri con Antonia Berto e Lisa Jewell



La seconda giornata si apre con un omaggio a Giuseppe Berto, di cui la casa editrice dal 2016 sta ripubblicando le opere, sempre accompagnate da prefazioni che ne presentano i contenuti, in un’ottica di rispetto, ma anche di attualizzazione. L’ultimo uscito è il racconto fantastico La fantarca. A conversare sul palco sono Antonia Berto, figlia dello scrittore, e Riccardo Pedicone.

Il titolo dell’incontro, “Solo leggendo mi sembra di vivere”,  è una citazione da Il male oscuro, ma incarna bene anche il senso della condivisione di questi incontri. L’arte e la letteratura servono infatti a restituire il senso della vita, e Berto affonda con i suoi scritti in questa ricerca. Lui è colui che per primo ha sfondato l’omertà che circonda la depressione, ed è proprio da qui, dall’opera forse più celebre dello scrittore veneto, che si avvia lo scambio. 


Antonia Berto racconta del rapporto del padre con il libro, una sorta di autobiografia, in cui l’uomo, più che lo scrittore, si è aperto con una sincerità e una generosità rare. Chiunque legga Il male oscuro oggi non potrebbe mai indovinare la data della prima edizione: il romanzo “è invecchiato benissimo”, commenta Samuela Serri, rappresentante della casa editrice, che lo considera quasi un’anticipazione dell’autofiction, nonché opera che fonda uno stile, poi lasciato in eredità agli scrittori successivi (si può quasi identificare, ipotizza, una “linea veneta che culmina con Works di Vitaliano Trevisan”). Antonia racconta, non senza ironia, di un tema scritto da bambina a imitazione del padre, senza segni di interpunzione, che le era costato una sonora ramanzina, ed esplora poi le implicazioni di essere figlia dello scrittore Berto. Il male oscuro è un pesante fardello di famiglia, ma l’opera che ne parla é, per la figlia, anche una forma di cura. A ogni rilettura la colpisce la bravura di Giuseppe, sempre in grado di spaziare tra le forme e i generi.

Lo stile di uno scrittore è la sua patria”, commenta Pellicone, chiedendo ad Antonia di raccontare la ricerca di Berto, a partire dal suo viaggio in Calabria. 

Capo Vaticano, tra i golfi di Gioia Tauro e Sant’Eufemia, è stata per lui una folgorazione. L’acquisto di quella terra ha comportato l’esperienza di una realtà quasi primitiva, ed è stato proprio lì che Berto ha completato la stesura prima del Male oscuro e, poco dopo, de La fantarca. Anche in questo racconto la vita nutre l’opera; anche se così può non sembrare, l’umorismo fortissimo scaturisce da un’osservazione attenta della natura umana. L’opera è una fantasmagoria avanzatissima, che precorre i tempi.

Secondo me si è divertito molto scrivendolo”, commenta Antonia Berto. Il titolo originario era “Anche i terroni vanno in cielo”, ed era pensato per una trasmissione radiofonica. Si tratta di un libro estremamente moderno, che affronta una situazione meridionale ancora non risolta, proponendo una soluzione definitiva: inviare gli ultimi abitanti del meridione, 1347 calabresi, su Saturno, con una navicella chiamata Speranza n. 5... Il senso dello humour ha aiutato molto Berto, anche ad attraversare la sua malattia, e deriva dalla sua capacità di intuire le dinamiche profonde del reale, alcune anche in grado di anticipare il dibattito contemporaneo (si pensi alle istanze ecologiste di Oh, Serafina!). “Berto è sempre stato a favore di una gamma di grigi. Il problema è che hanno sempre voluto dargli una forma, quando era un uomo in ricerca, che conteneva moltitudini, per dirla con Walt Withman”, commenta Pellicone. “Mio padre era un uomo libero, che non voleva nessuna etichetta, e questo gli è costato abbastanza caro”, risponde Antonia, notando la poca attenzione della critica, a cui pure corrispondeva un grande successo di pubblico. Berto ha provato tutta la vita ad abbattere muri, osserva Pellicone, e questo è ciò che rende importante la riscoperta della sua opera: “Cosa mi rimane di Giuseppe Berto? Il rapporto viscerale con l’origine e col processo, l’essere sempre attento, l’imparare a guardare”. 


Il pomeriggio inizia all’insegna del brivido. Due scrittrici di romanzi di tensione, Paola Barbato e Lisa Jewell, dialogano intorno al tema dell’inquietudine, che non sempre si annida nei luoghi oscuri, ma può affondare le sue radici anche all’interno della famiglia, il luogo per eccellenza della sicurezza e della protezione. 

La famiglia è ancora qui è il seguito de La famiglia del piano di sopra, e rappresenta un’anomalia per l’autrice, che non ama scrivere secondi volumi per i suoi libri. La sensazione di scrivere un libro nuovo è incomparabile, spiega: si comincia e non si sa dove la storia porterà, è un mistero già in sé; quando scrivi un sequel invece certe cose le sai, devi riprendere e ridare vita a ingredienti già miscelati, e rimetterli in movimento. È come se il primo libro fosse fatto di un’argilla molto malleabile, nel secondo la materia si è indurita, quindi sei più limitato.

Per Paola Barbato, il sequel di cui parliamo può essere paragonato a un Minotauro, cioè una creatura ibrida. Questo carattere è incarnato soprattutto nella figura del protagonista, Henry. Jewell ne racconta la genesi: nel primo volume le voci predominanti erano femminili, aveva quindi deciso di dar voce a un punto di vista diverso, quello di un ragazzino. Quando era partita, però, non sapeva ancora dove Henry sarebbe andato a finire… appare presto chiaro infatti che lui abbia un lato oscuro, non sia un narratore affidabile. Il sequel le ha consentito di conoscerlo meglio, di vedere come sarebbe evoluto il suo carattere, un aspetto che ha coinvolto molto anche il pubblico. Parte della tensione del romanzo risiede proprio nel non sapere cosa Henry farà nel momento in cui si troverà davvero di fronte all’oggetto della sua ossessione. 

Nel romanzo, secondo Barbato, Henry è un’“arma di distrazione di massa”, che tiene occupato il lettore mentre intorno a lui succedono altre cose, si sviluppano altre linee narrative, su piani temporali leggermente sfasati e pensati appositamente per giocare col lettore, fargli perdere di vista il quadro generale. Organizzare la sequenza è una strategia dello scrittore per rendere avvincente la vicenda, controbatte Jewell. Ci sono quattro storie che si articolano nel volume: quella di Henry, che si mette alla ricerca di Phinn; quella di Lucy, che ritrova finalmente una sua stabilità, ma è preoccupata per il fratello e per ciò che potrebbe fare; la pista dell’indagine della polizia (la prima mai scritta da Jewell, che non ama i detective, perché per metterli in campo bisogna conoscerne le procedure, mentre per lei le storie ruotano soprattutto intorno i personaggi). Il quarto filone, infine, è quello che coinvolge Rachel, e sembra quasi una vicenda separata dalle altre. Qui si annida una storia oscura, che ruota intorno a un matrimonio eccessivamente frettoloso, e disfunzionale. 

Che ruolo ha in queste dinamiche la famiglia? La famiglia è davvero questo gran fertilizzante di tutto quanto è tremendo?”, chiede Barbato, sottolineando come all’interno dei romanzi ci sia un unico personaggio davvero positivo, nell’ambito famigliare, ovvero il padre di Rachel. Nei libri che scrive, spiega Jewell, ci sono il male, l’oscurità… per questo serve anche qualche personaggio luminoso, positivo, che dia un po’ di respiro. Questo serve tanto alla scrittrice quanto ai lettori. Il padre di Rachel rappresenta il brav’uomo di cui c’è bisogno. Quando si elabora un romanzo del genere, si pensa che il lettore debba trovarsi in una situazione scomoda, ma debba poi avere anche un contrappunto positivo, una traccia di innocenza.  

Ne La famiglia è ancora qui si affronta il tema del gaslighting. L’autrice lo descrive ricollocandolo all’interno di un più ampio sistema di dominazione psicologica su un’altra persona, un comportamento tossico e talvolta molto brutale, che si può trovare in ambiti di relazioni sentimentali, ma non solo (nel volume precedente era applicato al controllo operato da una setta). “È un tema ritornante innanzitutto perché queste dinamiche mi affascinano, ma anche perché mi hanno toccato in prima persona”, spiega. “Rachel sono io. Quando avevo ventun anni ho incontrato un uomo di cui ero follemente innamorata e per cinque anni mi sono trovata in una sorta di prigione. Lui mi ha allontanato dalla mia città, dalla mia famiglia, dalle persone a cui volevo bene. Io mi reputo una persona forte, eppure mi è accaduto, e ancora oggi non riesco a capire come sia successo, come si possa permettere a un altro di prendere il controllo assoluto sulla propria vita. Forse il mio è un continuare a scavare per cercare di capire, attraverso i miei personaggi, cos’è successo a me”.

Non Tutti i personaggi del libro perdono il controllo sulla loro vita… ma perdere il controllo fa bene?”, chiede infine Paola Barbato. “La vita è tutta questione di equilibrio, io di mio non ritengo di essere una maniaca del controllo, anche se in alcuni ambiti è necessario averlo. Il trucco è riuscire ad arrivare a una misura, e non è così semplice, bisogna comprendere quanto bisogna tenere, quanto lasciare”, risponde Jewell. “Ci vuole una vita intera per riuscire a capirlo”. 

A cura di Carolina Pernigo

Nel «Cuore selvaggio della natura» con David Quammen



Il cuore selvaggio della natura
di David Quammen
traduzione di Milena Zemira Ciccimarra
Adelphi, settembre 2024

pp. 444
€ 25,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook) 

Il 20 settembre 1999, alle undici e ventidue del mattino, J. Michael Fay si mise in marcia da un piccolo avamposto e si addentrò nella foresta, in una remota area settentrionale della Repubblica del Congo, per intraprendere una lunga spedizione a piedi particolarmente ambiziosa. (pp. 24-25)

Inizia così il primo degli articoli che David Quammen scrive per il National Geographic, avviando una prosperosa collaborazione che, dal 2000, dura ancora tutt’oggi. Tutto parte da una telefonata che Quammen – divenuto poi famoso per quel saggio dal sapore di vaticinio che prende il nome di Spillover (Adelphi, 2014), nel quale ha descritto il fenomeno del “salto” di un virus dal mondo animale a quello umano – riceve nel lontano 1999. È Oliver Payne, editor della più importante rivista naturalistica, e sta chiedendo a Quammen di accompagnare il dottor Michael Fay in un viaggio a piedi attraverso l’Africa. Nella compagnia sarà presente anche l’amico di Quammen, il fotografo Nick Nichols.

Megatransect – questo il nome della spedizione – è un progetto ambizioso: attraversare luoghi inesplorati, selvaggi, a volte pericolosi e pieni di animali anche feroci ma soprattutto di insetti, batteri, virus (fra cui quello dell’Ebola). L’occasione però è ghiotta e, dopo un primo tentennamento, Quammen accetta.

Quel viaggio del 1999 sarà solo il primo di una lunga serie. Quammen si ritrova, nel corso degli anni, in Gabon, Niger, Kenya, Tanzania, ma anche nei luoghi più inabitati della Russia o dell’America Latina. La scrittura di Quammen – che conosciamo per Spillover, si è detto, ma forse ancora di più per quel Senza respiro (Adelphi, 2022) che tanto bene ha descritto la parabola del Covid-19 – è evocativa, colorata e in grado di rendere bene il senso di minaccia e fascino costante che si può sperimentare frequentando luoghi lontanissimi dalla civiltà. Poiché gli articoli sono stati tutti aggiornati in vista della pubblicazione di questa antologia, nel cappello introduttivo di ogni pezzo l’autore ha potuto inserire riflessioni di carattere ecologico anche di una certa rilevanza. Poter guardare indietro e comprendere come le cose siano cambiate negli anni, come la natura selvaggia sia sempre più in pericolo nonostante da decenni gli scienziati stiano lanciando continui allarmi, è per Quammen – e per tutti noi – una grande opportunità di riflessione.

Tutto il libro in realtà lo è. Nella prefazione l’autore lascia intendere la chiave di lettura con la quale affrontare gli articoli che seguiranno. Questa chiave di lettura prende avvio da un libro del 1967, che Quammen definisce sconosciuto ai più ma fondamentale all’interno del movimento ecologista conservazionista. Si tratta di Theory of Island Biogeography di Robert H. MacArthur e Edward O. Wilson, nel quale si approfondisce il concetto di ecosistema e si spiegano i processi alla base della conservazione di un determinato ambiente. Molto ruota attorno a un equilibrio che uno specifico luogo è riuscito a raggiungere dopo centinaia di migliaia di anni, e che spesso l’intervento dell’essere umano riesce a distruggere nel giro di poco tempo. Questo libro del 1967, afferma Quammen, ha previsto con grande lucidità lo stato attuale delle cose: la crisi climatica, la perdita di biodiversità, il surriscaldamento globale.

È in questa ottica che bisogna leggere gli articoli di Quammen. Certo, presi singolarmente sono solo resoconti di viaggi, dispacci di luoghi distanti in tempi distanti. Ma presi insieme, accomunati da questo intento conservazionista, sono qualcosa di più. Da lettori, accompagniamo Michael Fay, Nick Nichols e David Quammen in viaggi che hanno il sapore di qualcosa di perduto e non recuperabile, un mondo forse più autentico e decisamente fragile, che rischia di scomparire sotto i nostri occhi, già mentre leggiamo le avventure di un gruppo di persone intente a cercare un modo per uscire da una foresta che, forse già non esiste più.

David Valentini



Un romanzo commovente, straziante, doloroso, attuale e pieno di amore. "Gli straordinari" di Edoardo Vitale

 



Gli straordinari
di Edoardo Vitale
Mondadori editore, settembre 2024

pp. 180
€ 18,50 (cartaceo)
€   9,99 (ebook)


Nico lavora per una multinazionale il cui scopo è rendere il brand delle aziende più green. Ha lavorato sodo per costruirsi una posizione all'interno della gerarchia aziendale, mentre i suoi coetanei affrontavano precarietà, stipendi bassi, fughe all'estero alla ricerca di un futuro migliore. L'ambiente in azienda, frenetico e competitivo, non lascia spazio a molto altro. 
Sentivo di continuo uscire dalla mia bocca neologismi bizzarri, acronimi di nuova produzione e altri abomini derivati dall'inglese. Con gli anni lo sgomento si era affievolito e avevo finito per abituarmi, così come mi ero abituato a essere circondato da persone che gareggiavano contro il tempo. Tutti sempre occupatissimi, intenti a correre da una parte all'altra dell' ufficio, oppure perfettamente immobili di fronte allo scorrere delle immagini su uno schermo. In preda al panico, in ritardo sulla tabella di marcia che qualcun altro aveva stabilito per loro. (p. 13)

Eppure Nico riesce a costruire rapidamente la sua carriera insieme a Elsa, la sua compagna, con la quale ha iniziato il percorso in questa azienda, il cui nome è Pangea, e in cui entrambi sono diventati direttori creativi. Grazie al loro talento, alla capacità di lavorare in team, ma soprattutto di condividere insieme la fatica dei progetti, sono riusciti ad imporsi, a guadagnare bene a costruirsi un futuro da soli. Ma è stata dura, la pressione è fortissima e il lavoro non finisce mai.

L'adrenalina ci spingeva ad andare avanti per inerzia. Fu un periodo di grande complicità e simbiosi tra me ed Elsa. Ci lanciavamo rapidi sguardi di supporto e approvazione da dietro le scrivanie. Ci trattenevamo fino a tarda sera in ufficio, ormai silenzioso e innocuo a quell'ora, fino a quando gli inservienti della ditta di pulizie non iniziavano ad aggirarsi tra le postazioni. [...] Riscaldavamo del cibo surgelato nel microonde e ci rimettevamo al lavoro fino a notte fonda. (p. 84)

Adesso mancano pochi giorni al p-Day, un appuntamento fondamentale per Pangea, dove verranno presentati i progetti più importanti e dove si delineeranno le tendenze del futuro. Tutti sono sotto pressione e Nico ed Elsa ancora di più, visto che sono i direttori creativi e non possono mai sbagliare, anzi devono continuamente dimostrare di avere idee innovative, di essere sul pezzo, di non abbandonare nemmeno per un attimo i progetti dell'azienda. Roma intanto diventa sempre più calda, gli attivisti del clima vengono respinti dalle forze dell'ordine e uno di loro indossa una maglia con il brand Pangea. I dubbi su che cosa stanno facendo e quale sarà il loro futuro cominciano ad insediarli, anche se il lavoro e gli impegni non lasciano mai tanto tempo per pensare. 

Edoardo Vitale esordisce con questo romanzo scritto con un ritmo rapidissimo, una prosa tagliente, un desiderio di raccontare tutte le sfumature di un periodo storico complesso. E proprio il presente permette di incastonare questo romanzo in una corona in cui ci sono pochi gioielli narrativi che raccontano la contemporaneità italiana con attenzione e sensibilità. L'attenzione alla propria generazione, a quello che sta succedendo nelle teste e nel cuore di persone che hanno lottato per ottenere ciò che hanno ma cominciano a domandarsi se ne è valsa la pena. E la sensibilità verso i sentimenti che sfuggono mentre la razionalità di fare, imporsi, ottenere sempre di più li soffoca fino a quando non esplodono distruggendo tutto. Questi due aspetti del nostro vivere quotidiano sono raccontati bene. E il lettore si può immedesimare in una storia d'amore le cui sfumature emotive sono sotto assedio a causa della vita che i protagonisti, una vita che molti ragazzi vivono, devono affrontare ogni giorno. Non so se sia un romanzo generazionale, tuttavia è un'opera che induce a riflettere percorrendo a ritmo accelerato la vita dei protagonisti.

Fulvio Caporale 

Nella Wunderkammer di Neri Pozza, con Nathan Thrall



Per il suo primo festival, Wunderkammer, Neri Pozza ha voluto allestire, anche letteralmente, una camera delle meraviglie, all’interno del Palazzo della Gran Guardia di Verona. Accoglie il visitatore una rassegna di totem dedicata agli autori e alle autrici di punta della casa editrice, alle pareti le loro citazioni ("Le storie sono l’unica cosa che rende reale il mondo. Tutto il resto è sogno", Lisa Jewell).

Il tema, Fusioni, rimanda all’incontro tra le arti, promosso e incarnato dall’uomo che fu Neri Pozza, ma anche a quelli che avranno luogo in questi giorni, tra gli scrittori e i lettori. La promessa è quella di un viaggio che ci condurrà attraverso il tempo e lo spazio, a vivere il senso più profondo - e sempre condiviso - del fare cultura, coltivare insieme passioni e desideri, attraverso lo strumento prezioso dato dalla parola, scritta e pronunciata. Il presidente di Neri Pozza, Luciano Vescovi, dichiara la sua appassionata adesione alla produzione della casa editrice, capace di generare, a ogni nuova edizione, a ogni nuovo volume, una piccola Wunderkammer. Nel riportare una nota citazione di Margaret Tatcher, Vescovi ci ricorda che sono i pensieri e le parole a plasmare il nostro esistere

Nathan Thrall a Wunderkammer 

L’incontro di apertura accoglie Nathan Thrall, giornalista americano che risiede a Gerusalemme, premio Pulitzer e autore di Un giorno nella vita di Abed Salama. Il sottotitolo “Anatomia di una tragedia a Gerusalemme” riporta alla natura dell’opera: la narrazione di un evento tragico ma piccolo diventa il cuore di una investigazione che vuole spiegare le lacerazioni di una terra contesa

La moderatrice Francesca Mazzocchi introduce la presentazione osservando come, prima di chiedersi di cosa stiamo parlando, sia fondamentale chiedersi a chi stiamo parlando. È stata questa domanda infatti a spingere l’autore a cambiare la sua scrittura, a mettere in gioco tutto per provare a cambiare, nel suo piccolo, le cose. Lo ha mosso la disperazione, spiega, quella di fronte a un mondo per larga parte indifferente a ciò che accade in Israele e Palestina. Rivolgersi a un pubblico di esperti non gli bastava più, anche perché loro stessi erano parte del sistema, rappresentavano quindi un pubblico sbagliato. Da qui la necessità di cercare uno spazio diverso, e quindi di adottare uno stile diverso, in grado di entrare in contatto con la gente, di forzare le sue resistenze emotive parlando di storie individuali, ma in grado di rappresentare un conflitto più grande. Il libro racconta un destino ordinario, un incidente stradale in cui hanno perso la vita dei bambini, lungo quella che viene chiamata la “strada della morte”. Mazzocchi, in proposito, mette in luce la capacità di Thrall di raccontare l’immobilità, la crudeltà inamovibile dei muri, e dei posti di blocco, la tragedia che si annida nel quotidiano. 

Gli obiettivi nella stesura del libro erano molti, spiega l’autore: voleva raccontare una storia singola, che aiutasse i lettori a mettersi nei panni di qualcuno che passa i suoi giorni in quelle zone di guerra, israeliano o palestinese non era il punto. Voleva poi aiutare a comprendere la Storia, quella con la S maiuscola, ma anche a capire cosa significhi vivere in una Paese in cui impera la burocrazia, in cui la complessità delle procedure crea un senso di paralisi per chi la abita. Voleva permettere alle persone di capire cosa significhi vivere sulla propria pelle questa situazione, in questo caso cosa provi un padre che ha perso suo figlio, e non sa come raggiungerlo, dove trovarlo. 

C’è anche una evidente, necessaria, critica al sistema. Per muovere una critica al sistema però, osserva l’autore, bisogna mettere in discussione le ingiustizie in cui il sistema si concretizza ogni giorno. L’evento straordinario può essere accantonato, essere imputato alle cattive decisioni di singoli individui, essere considerato un’eccezione. L’incidente di un autobus è invece una cosa abbastanza comune… ma cosa significa l’incidente di un autobus in una zona in cui nulla funziona, in cui non ci si può spostare liberamente? La vera difficoltà risiede nella quotidianità della vita di israeliani e palestinesi. "Per questo ha voluto scrivere una storia piccola, per cercare di cambiare questo sistema", conclude. Il volume è ambientato, ed è stato scritto, prima del 7 ottobre, ma la situazione che descrive ne è a un tempo riflesso e prefigurazione.

Uno degli aspetti più importanti di questo libro è stato il rapporto che si è creato con il protagonista, Abed Salama, racconta l’autore. Quando viaggia per presentare il libro, lo rende orgoglioso poter portare in giro per il mondo il nome di suo figlio. Certo, Thrall è consapevole che la loro condizione - al di là dell’amicizia che li lega - sia estremamente ineguale. A una presentazione a Gerusalemme est, Abed non ha potuto partecipare, benché vivesse a poche miglia di distanza. La sua assenza era quindi a un tempo la dimostrazione del (cattivo) funzionamento del sistema, e della necessità del libro stesso. 

Dal rapporto con Abed l’autore ha imparato soprattutto dal punto di vista viscerale, emotivo, quale sia l’impatto di questo meccanismo di controllo sulla quotidianità di chi lo vive, quale sia la dimensione drammatica, la pervasività delle sue implicazioni (la difficoltà a muoversi nelle diverse zone della città, l’impossibilità di scrivere lettere nella certezza che sarebbero lette, il rischio di perdere il lavoro per la difficoltà a raggiungerlo…). Quando ha scritto il libro, Thrall non immaginava il livello di disumanità a cui si sarebbe arrivati solo pochi mesi dopo, ma già nel volume vengono mostrati dei giovani israeliani che gioiscono della morte dei bambini palestinesi, considerandoli futuri terroristi in meno. Il processo di deumanizzazione era già evidente prima del 7 ottobre, per questo ha ritenuto fondamentale mostrarlo. Ovviamente non tutta la società israeliana presenta questa attitudine, ma la situazione si è ulteriormente esacerbata negli ultimi tempi. Oggi questo atteggiamento è diventato mainstream, commenta Thrall. "Nel momento in cui il presidente di centrosinistra ha detto che 'non ci sono innocenti a Gaza', ho ricevuto le esternazioni più dure rispetto alla mia posizione, quando, denunciando l’ingiustizia di una punizione collettiva che coinvolge due milioni di persone, ho sostenuto che ci sono innocenti a Gaza”.

Gli scrittori devono stare nel presente, facendosi carico del fardello del punto di vista”, osserva Mazzocchi, facendo notare che nel romanzo di Thrall ce ne sono diversi, a esprimere un desiderio di esplorare le ragioni dell’Altro, fondamentale per superare le divisioni create da un regime di segregazione che vuole, come scopo primario, impedire di vedere l’altro come un individuo.

La parola più importante, aggiunge Thrall, è uguaglianza, tanto più in quanto è inconcepibile pensarla effettivamente realizzata in un futuro prossimo, forse anche lontano. Anche pensando alla soluzione dei due Stati, infatti, uno dei due avrebbe sicuramente più potere dell’altro. In un futuro in cui sia davvero uguaglianza Israele dovrebbe cedere alcuni privilegi, riconoscere che i diritti debbano essere assegnati al di là del credo religioso. Il partito che in Israele lo sostiene è considerato antisionista, non è nemmeno ammesso al dibattito pubblico. Il sistema è troppo radicato, per questo è difficile pensare a una soluzione. Quando guardiamo al futuro, infatti, se non ci sono degli incentivi al cambiamento, la parte forte non è portata a retrocedere rispetto alle proprie posizioni. Di centimetro in centimetro si nota un leggero spostamento nell’atteggiamento del mondo rispetto a cosa Israele dovrebbe fare, ma si parla di passi minuscoli, ancora insufficienti. Bisogna fare molto di più per ottenere un vero cambiamento, conclude Nathan Thrall.

A cura di Carolina Pernigo

#CritiCOMICS - Una storia delicata di ricerca ed ecologia: "Il capanno di Ash" di Jen Wang

 




Il capanno di Ash
di Jen Wang
Bao Publishing, 2024

pp. 320
€ 26.00

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Ash ha un nome in cui non si riconosce più, trema per un mondo che si sta disgregando nel disinteresse generale e sogna di scrivere, un giorno. Il senso di solitudine che prova, anche all’interno di una famiglia numerosa e comprensiva, è lenito solo dalla vicinanza del cane Chase e dalle estati passate nel ranch degli zii, a nord di Sacramento. Lì aveva vissuto il nonno Edwin, a cui Ash era legatissimo e che raccontava sempre di aver costruito un misterioso capanno nel bosco. Con lui, però, era scomparso anche il suo segreto, e nessuno era mai riuscito a trovar traccia della struttura.

Adesso, la notizia che gli zii vogliono trasferirsi e vendere la proprietà cala su Ash come una scure di spaesamento e dolore. Quella che passerà lì sarà forse la sua ultima estate, in un momento di intimo cambiamento che la fa sembrare ancora più importante. Ecco perché l’adolescente matura il suo progetto clandestino: addentrarsi nella foresta, trovare il capanno del nonno, e lì restare per sempre.

Inizia così, all’insaputa dei genitori, un’avventura alla Into the wild, che porta Ash ad addentrarsi in una natura selvatica, spesso ostile, in cui nulla va come dovrebbe andare e non sono infrequenti i momenti di sconforto. E anche se il rifugio del nonno esiste davvero, anche se grazie ad alcuni accorgimenti è possibile creare una nuova routine e trovare una sintonia insperata con l’ambiente circostante, appare chiaro che la fuga da tutto non è la soluzione. Poco alla volta, Ash arriva alla conclusione a cui arrivava anche Chris McCandless:

ora che avrai tutto il tempo del mondo per scrivere, all’improvviso non ho più motivazioni per farlo. Forse è strano scrivere un romanzo se non c’è nessuno che può leggerlo.

Il passare dei giorni porta con sé la consapevolezza di cosa ci si è lasciati alle spalle, del dolore che si è causato con la propria assenza (e trovano improvvisamente significato gli elicotteri che sorvolano il bosco a intervalli regolari). La purezza a cui Ash ambiva, l’immersione in una vita allo stato primigenio, in una condizione di libertà assoluta, poco alla volta rivela il suo prezzo. Si rivela vano il tentativo di liberarsi della sofferenza: anche quella terra ne è infatti intrisa, a partire dalle sorti dei nativi fino ad arrivare allo stesso nonno Edwin, costretto a lasciarla nei suoi ultimi anni per trasferirsi in una città lontana e sentita sempre come ostile. L’estraneità è un sentimento che tutti si trovano a provare, e Ash deve comprendere come farci i conti.

In tavole acquerellate in cui le tinte calde rimandano ai colori della foresta al declinare dell’estate, Jen Wang traccia una vicenda delicata, in grado di suscitare empatia e carica di suggestioni. Il protagonista incarna la fragilità e la forza degli adolescenti d’oggi, sensibili, attenti, inquieti per un desiderio che li proietta prima dentro di sé, poi verso il mondo fuori.

Il graphic novel narra una storia di ricerca – di senso e di identità, prima che di un luogo fisico –, ma porta con sé anche una riflessione sulle origini, sull’ecologia e la sostenibilità, ricordando l’importanza di una coscienza ambientalista, che richiami l’uomo al suo legame viscerale e imprescindibile con la realtà di cui fa parte:

Una cosa che ho imparato dal mio libro di etnobotanica è come pensare al mio ruolo nell’ecosistema. Ogni pianta o animale che prendo non sarà in grado di produrre future generazioni. […] Se vivrò qui a lungo termine, ho bisogno che la zona rimanga florida. La nostra prosperità è reciproca.

  

Carolina Pernigo

«Questa è la vita reale?». Di ambiguità, perturbante, influenze letterarie: due uscite recenti in dialogo tra loro




Elizabeth, romanzo dell'innaturale
di Ken Greenhall
Adelphi, settembre 2024

Traduzione di Monica Pareschi

pp. 173
€ 18 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


La villa sulla collina
di Elizabeth Hand
Astoria, settembre 2024

Traduzione di Raffaella Maria Arnaldi Scansini

pp. 400
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

A settembre sono usciti due libri, per due editori diversi, che dialogano idealmente tra loro e, almeno nelle intenzioni, anche con un’autrice del passato, amatissima. Storie assai diverse per forma, tematiche e spunti, ma che mi paiono anche l’occasione ideale per riflettere su alcune cose legate alla narrazione, al perturbante e a certe scelte editoriali e di comunicazione. Mi sto riferendo a Elizabeth, di Ken Greenhall, pubblicato da Adelphi nella traduzione sempre impeccabile di Monica Pareschi, e La villa sulla collina, di Elizabeth Hand, tradotto da Raffaella Maria Arnaldi Scansini per Astoria. Ad accomunare i due testi è, innanzitutto, il richiamo al perturbante e alle atmosfere del gotico, riprova di tendenze mai esaurite e che, anzi, paiono aver trovato negli ultimi anni nuova spinta, alimentate dal desiderio di indagare le zone oscure dell’animo umano e della società. Elizabeth si muove appieno nel contesto del perturbante, sostenuto da una scrittura ipnotica, elegante e tesa, a cui la voce di Pareschi ancora una volta ha saputo rendere giustizia entrando in piena sintonia con quella dell’autore. La villa sulla collina richiama invece più in particolare le atmosfere gotiche, genere di cui riprende certe tendenze e modalità narrative, ancorandolo alla contemporaneità con una scrittura meno forbita rispetto al romanzo di Greenhall, intrecciata a una narrazione dalle intenzioni diverse.

C’è poi un altro elemento in comune ai due romanzi, ed è il legame con Shirley Jackson, autrice amatissima che negli ultimi anni ha avuto una grande riscoperta da parte del pubblico e della critica, tanto statunitense quanto italiana. In generale è piuttosto stancante questo continuo scomodare Jackson anche per opere che nulla o poco hanno a che fare con la sua scrittura e, ancora, mi pare superficiale tirare fuori il suo nome solo per parlare di genere gotico: se proprio volessimo dare un’etichetta alla sua scrittura, perturbante mi pare quella più appropriata, anche se basta leggere almeno una delle raccolte di racconti di Jackson ripubblicate da Adelphi per rendersi conto di quanto le etichette le stiano strette, per la molteplicità dei suoi testi che vanno dal perturbante, appunto, allo sketch, molto spesso attraversati da un’ironia innegabile. Soffermandoci su romanzi e racconti perturbanti di Jackson, colpisce lo scavo dei personaggi e il desiderio di raccontare le ambiguità e le zone più oscure dell’animo umano. Ancora a proposito di Jackson e di certi equivoci nella sua ricezione: non parlerei tanto di soprannaturale – e infatti certi accostamenti ad altri autori mi paiono poco attinenti – quanto di narrazioni in cui l’oscurità e il male sono nel cuore degli uomini e delle donne e poco o niente hanno a che fare con l’irrazionale.

Il legame con Jackson è particolarmente saldo nel romanzo La villa sulla collina, ma solo per via dell’ambientazione: Hand, infatti, sceglie come luogo della narrazione Hill House, ossia la celebre villa da incubo del romanzo omonimo di Jackson; è la stessa villa, dall’oscuro passato, che questa volta diventa il palcoscenico – è proprio il caso di usare questo termine – per una storia ambientata ai giorni nostri. I riferimenti al testo di Jackson sono numerosi, alcuni più evidenti di altri, tra cui quindi la villa stessa e alcune presenze che turbano la tranquillità dei protagonisti.

La maggior parte delle case dorme, e quasi tutte sognano […] Hill House non dorme né sogna. Avvolta nel manto dei suoi prati incolti e delle sue distese boschive, nelle lunghe ombre delle montagne e delle querce secolari, Hill House osserva. Hill House aspetta. (prologo, p. 9)

Una villa isolata, dunque, e decadente, ai confini di una cittadina in crisi e circondata dal mistero: lo scenario ideale dove un gruppo teatrale decide di ritirarsi a provare lo spettacolo sul quale stanno lavorando e che, guarda caso, è ispirato alla caccia alle streghe. La compagnia è composta da Holly, la regista, la compagna Nisa e interprete di struggenti, macabre, ballate, Stevie il tecnico del suono e Amanda, attrice che pare aver sfiorato ormai da tempo – e perduto – il suo momento di gloria. La convivenza forzata per le due settimane in cui hanno deciso di affittare la villa e, soprattutto, la dimora, metteranno sempre più profondamente in crisi gli equilibri già precari del loro rapporto e delle loro vite.

Hill House fa leva sulle aspettative delle persone. Di solito pensano che li renderà felici. (p. 71)

Similmente – almeno nelle intenzioni – a quanto interessava a Jackson, anche per Hand il sovrannaturale è il pretesto per indagare le pieghe più oscure dell’animo umano e più tempo trascorrono dentro i confini della villa più vengono a galla segreti, colpe e inquietudini dei protagonisti. Per rendere questo aspetto più coinvolgente, l’autrice sceglie inoltre di servirsi di punti di vista diversi, concentrandosi sull’uno o sull’altro dei personaggi e far partecipare così più da vicino il lettore, giocando di conseguenza anche con l’ambiguità e lo sguardo parziale che ne deriva. Ambiguità e inaffidabilità che sono pienamente proprie della voce narrante invece del romanzo di Greenhall: la protagonista, Elizabeth, è un personaggio estremamente affascinante, che ammalia il lettore fin dalle prime, crudeli battute.

Sono venuta ad abitare dalla nonna più o meno un anno fa, dopo aver ucciso i miei genitori. Non vorrei sembrarvi senza cuore. Lasciate che vi spieghi. (p. 10)

È questo il mood della narrazione, costruita quasi come fosse un lungo monologo rivolto al lettore. O meglio, alle lettrici, cui infatti Elizabeth si rivolgerà direttamente in ultima battuta. L’eleganza brutale della prosa avvinghia a una storia in cui il legame con Jackson non mi pare così rilevante, se non all’inizio per una vaga somiglianza tra la protagonista e la Merricat di Abbiamo sempre vissuto nel castello: entrambe le protagoniste sono due giovani donne – Elizabeth appena quattordicenne – dall’intelletto acuto, misteriose e attratte dall’oscurità, ambigue seppur in modi diversi – l’ambiguità di Elizabeth si lega anche a una sessualità conturbante, quella di Merricat a una condizione di perenne infanzia, seppur priva di innocenza – , legate alla casa in cui abitano in modo quasi morboso. Tuttavia se, come si diceva, l’oscurità nel mondo di Shirley Jackson poco ha a che fare con il sovrannaturale, nel romanzo di Greenhall il confine tra reale e immateriale si fa più labile. Elizabeth è la discendente di una genìa di streghe e accoglie il potere che scopre di avere proteggendolo da chi vorrebbe impedirle di usarlo, da chi cerca di contenerla, farle rinnegare la propria appartenenza. A seguito della morte dei genitori si trasferisce nella grande casa della nonna, dove vivono anche lo zio James – con il quale ha da tempo una relazione – , la moglie e il figlio, tutti quanti mantenuti dalla matriarca. Nell’edificio di fianco, separati solo da un muro ma inaccessibili li uni per l’altro, risiede il nonno, che molti anni prima ha lasciato la casa e il patrimonio senza mai più rivolgere la parola alla moglie, custodendo però il segreto di quella rottura insanabile. L’arrivo di Elizabeth sconvolge presto gli equilibri domestici e siamo ammaliati davanti alla crudele sincerità con cui la ragazza scandaglia il cuore di ognuno di loro, similmente a quanto faceva con i suoi genitori, svelandoci meschinità, segreti, desideri inconfessabili.

Il giorno dopo a colazione non facevamo che sorriderci a vicenda parlando del più e del meno. eravamo una famiglia come tante. Ci sembrava opportuno nascondere i nostri veri sentimenti. (p. 39)

Nessuno è davvero innocente in questa storia, certamente non Elizabeth, ma neanche gli altri abitanti della casa possono dirsi tali. Se la questione sovrannaturale ha a mio parere preso un po’ troppo il sopravvento in un romanzo che facendo maggiormente leva sull’ambiguità sarebbe risultato molto più interessante, la storia intrecciata da Greenhall non manca di spunti intriganti, messi purtroppo in ombra da certe debolezze della trama e dell’idea di fondo. L’interesse per la profondità dei personaggi e l’indagine sul malvagio quello sì è un chiaro richiamo a Shirley Jackson:

«Facevi spesso delle cose che non si dovrebbero fare». «Vuol dire che ero una bambina cattiva?» «Voglio dire che non avevi idea cosa significasse essere o non essere cattivi» (p. 73)

Interessante in quest’ottica l’intreccio tra realtà e immaginazione, che nel finale apre a nuove interpretazioni della storia, non riuscendo però a compiersi pienamente. Tolto l’elemento sovrannaturale è una storia che potrebbe perfino essere letta in chiave femminista, con la protagonista che sceglie di usare il potere di cui dispone e non metterlo a tacere, rifiuta le leggi e le convenzioni degli uomini, si muove libera secondo il proprio codice morale. Quello di Greenhall, appare evidente, è un romanzo interessante, dispiace però per alcune debolezze che ne hanno rovinato l’effetto generale, tra cui soprattutto la prevedibilità di certe svolte e passaggi. A lasciarmi un po’ perplessa anche l’uso del sovrannaturale in una storia che, si diceva, si sarebbe potuta benissimo basare su quell’ambiguità che poi torna nel finale ma che così risulta straniante. Ecco, il finale, e intendo proprio le ultimissime battute che, ovviamente, non rivelerò: in quella vaghezza c’è molto di Shirley Jackson e il ritorno alla sopracitata ambiguità.

Che siano omaggi o influenze più o meno evidenti e plausibili, il mito di Shirley Jackson non smette di ammaliare lettori e scrittori: l’incubo, l’ambiguità, il gotico, si fanno ancora specchio dei nostri tempi e delle nostre paure.

Debora Lambruschini

"Ritorno a casa" di Kate Morton riapre le indagini sulla misteriosa morte di una famiglia dell'Australia del Sud e sul richiamo delle origini

 

Ritorno a casa



Ritorno a casa
di Kate Morton
HarperCollins, 27 agosto 2024

Traduzione di Roberta Zuppett

pp. 592
€ 20 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

La viglia di Natale del 1959 è rimasta, per anni, un giorno di cui parlare, per gli abitanti di Adelaide Hills, nel sud dell'Australia. Fu quello il giorno in cui, il fattorino del paese, avventurandosi tra i sentieri verdi e le colline, nei dintorni di una grande dimora di campagna, trovò per caso i membri di un'intera famiglia, lì, sulle sponde del fiume, sdraiati come per riposarsi, mentre erano, in realtà, tutti morti.
Comincia così l'intrigante romanzo di Kate Morton, scrittrice molto raffinata e capace di calarci in atmosfere lontane ma anche in storie appassionanti, ricche di suspense e mistero. In questo caso si tratta di un cold case, relativo a queste misteriosi morti che coinvolsero la signora Turner, originaria di Londra, ma trasferitasi in una terra così lontana per amore del marito e tre dei suoi giovani figli, con l'aggravante della scomparsa di una neonata, i cui resti furono rinvenuti molti anni dopo.

A questo interessante plot se ne intreccia un altro del 2018, che vede come protagonista la giornalista Jessica Turner-Bridge, a Londra, in una vigilia di Natale alquanto triste, a causa del suo licenziamento, che viene richiamata a Sydney, sua città d'origine, da una telefonata che le annuncia il ricovero dell'amata nonna Nora.

Una volta giunta in ospedale, Jessica stenterà a riconoscere la donna forte e determinata che l'ha cresciuta, perché Nora, in gravi condizioni, continua a ripetere frasi incomprensibili. Nel tentativo di cercare il senso di queste frasi e il motivo per cui la nonna sia andata in soffitta, luogo che non amava, e da lì sia caduta rovinosamente, Jessica troverà un sottile legame con una storia incredibile, che a quanto pare la riguarda. La donna che nel 1959 fu accusata di aver ucciso i suoi figli e di essersi suicidata è la cognata di sua nonna, sposata al fratello che Nora ha venerato per tutta la vita e di cui ha sempre nascosto la tragedia famigliare. 

Quali furono le cause che spinsero Isabel Turner a uccidersi e a portare con sé anche i figli? Andò davvero così o c'è dell'altro? Il suo fiuto porta la protagonista a volerci vedere chiaro e Jessica comincia a scavare nel passato, cominciando a intuire che lo scrittore che aveva scritto di quei tragici eventi a Darling House, Daniel Miller, ci aveva visto lungo, addirittura aiutando la polizia nelle indagini. Attraverso il suo lavoro Jess troverà le risposte che cerca e l'allontanamento da Londra la porterà più vicino alle sue origini, rinsaldando anche un legame con la madre Polly, che sembrava ormai compromesso.

Un libro molto sfaccettato, dove al gusto per le indagini si intreccia l'amore per la narrazione e i dialoghi, la riflessione sulle fonti e sul lavoro di chi indaga, soprattutto per una branca del giornalismo che in Italia è sconosciuta, ovvero il giornalismo investigativo, che nel romanzo si intreccia - sempre attraverso la finzione - al lavoro degli inquirenti. In Ritorno a casa c'è soprattutto una riscoperta del valore delle origini, della biografia, dell'amore per ciò che siamo e per ciò che decidiamo di diventare.

Un romanzo che intreccia tutti questi elementi in modo sapiente e che oltre a essere un mistery tutto al femminile parla anche di rapporti familiari, raccontandoci la vita di tre generazioni, l'amore materno, i legami che diventano luoghi in cui fiorire, luoghi in cui tornare e a volte luoghi da cui scappare.

Samantha Viva


La speranza di un domani migliore alimenta il cuore di ogni migrante. Una fiaba che racconta l'esilio: “Il paese di Sogno”, di David Diop


Il paese di Sogno
di David Diop
Neri Pozza, 6 settembre 2024

Traduzione di Giovanni Zucca

pp. 64
€ 6,00 (cartaceo)
€ 4,99 (eBook)

C’era una volta Sogno, una ragazzina bellissima. Sogno si chiamava così perché così avevano voluto i suoi genitori. Avevano pensato che fosse un dono, che Sogno fosse un nome magnifico in qualunque lingua. Non sapevano che ogni lingua considera il proprio sogno più bello del sogno degli altri. (p. 7)

«C’era una volta»: è così che cominciano le fiabe. Questo incipit ci introduce a una storia, una storia molto breve. La protagonista è una bambina di nome Sogno, orfana di entrambi i genitori uccisi da soldati, che vive con la nonna nella povertà più estrema in un luogo non meglio identificato, sito ai margini della città e del mondo dei ricchi. La loro casa è fatta di lattine aperte, plastica, lamiere laide tenute insieme da nodi di ferro arrugginito. Non è un luogo piacevole, è un crogiolo di polvere, ruggine e sporcizia, sembra una discarica a cielo aperto «una città scura del fumo delle immondizie» (p. 9). La nonna sa che la bambina è di una bellezza straordinaria e, per proteggerla dall’occhio avido degli uomini vili, la tiene coperta e la lascia uscire solo di notte, quando nessuno può vederla in viso.

Nel paese di Sogno la bellezza era un pericolo, per una ragazza, un incitamento al delitto. In attesa di tempi migliori, la nonna di Sogno l’aveva imbruttita ricoprendola di stracci, sporcizia e miseria. (p. 8)

La nonna ha il compito di proteggere la bambina dal malocchio di quei soldati che avevano ucciso i suoi genitori mentre lavoravano nei campi. Sogno per sostentare la nonna e sé stessa va ogni giorno a rovistare tra i rifiuti, «nelle pattumiere traboccanti di sacchetti unti e lattine mezzo vuote del Palazzo del Grande Vigliacco» (pp. 9-10). Sulla spiaggia, dove spesso di reca di notte, vi è un’enorme montagna di stracci, sporchi, consunti quasi ridotti in polvere. Non è difficile comprendere come questa breve storia, di cui non posso raccontare di più, sia lo specchio attraverso il quale vedere la realtà in cui viviamo. 

L’intento dello scrittore è proprio quello di far arrivare attraverso la semplicità e il linguaggio della fiaba temi di grande valore universale. David Diop è un pluripremiato scrittore in lingua francese, nato a Parigi, città di origine della madre, ma cresciuto in Senegal, patria del padre. Diop vive ormai in Francia da diversi anni, e insegna Letteratura del XVIII secolo presso l’Università di Pau, nella regione dell’Aquitania. I suoi libri hanno ricevuto i più importanti premi letterari francesi: Prix Goncourt de Lycéens, il Premio Strega Europeo, l’International Booker Prize. 

Il suo linguaggio è caratterizzato da una prosa lirica, poetica e delicata che si lascia andare a diversi livelli di significato. La storia di Sogno è infatti una metafora su due dei più grandi temi della società contemporanea: l’ingiustizia nel mondo e l’esilio. Il paese di Sogno è un luogo sordido, dove scarseggia il cibo e la spazzatura domina su tutto. È il paese dove «da sempre correva il fuoco e scorreva sangue» (pp. 7-8): un mondo immaginario che è credibile, purtroppo, e reale. E in tutto ciò lo scrittore non si cura di abbellire la realtà, non vi è pathos, né facile retorica, direi quasi che non vi è neppure compassione. È una fiaba crudele che lascia però uno spiraglio di speranza, l’unico respiro della nostra umanità dilaniata dalle contraddizioni e dalla cecità verso chi ha bisogno.

Con uno stile poetico, onirico, firma riconoscibile di Diop, il libro parla di crudeltà e desolazione: la fame, quella fame cieca che ti fa dimenticare la gratitudine verso chi si è preso cura di te, la bramosia dell’oro - e  il lettore scoprirà perché -, l’ incanto della bellezza che rende l’uomo ladro, la distanza e l’indifferenza del mondo dell’abbondanza capitalista verso gli ultimi lasciati nei rifiuti di cibo, conseguenza di una rovinosa cultura dello spreco alimentare, e del fast fashion, nuova piaga del nostro mondo già agonizzante. Uniche speranze per gli ultimi rimangono la migrazione e l’esilio, passo del libro dove la durezza della realtà supera di gran lunga la finzione. Sogno desidera andare via da quel tugurio, come tutti quei popoli che, vessati dall’ingiustizia sociale, politica e dalla povertà, sono costretti ad andar via Sognando (ndr)  un mondo migliore.

Un racconto breve dove campeggia una sensibilità prepotente, che si fa fiaba perché quest’ultima è la forma più vicina alla poesia, primo linguaggio dell’essere umano per toccare temi universali.

Marianna Inserra 
 

#PercorsiCritici - n. 66 - Affrontare la vita mano nella mano: libri sull'amicizia


Una delle tematiche più foriere di possibilità narrative è quella dell'amicizia, un ambito molto frequentato dai romanzieri, che hanno deciso svariate volte di scandagliare il fondo irregolare di questo sentimento. "Irregolare", perché se è vero che spesso si incontrano anime affini con cui proseguire lungo un percorso comune, è altrettanto probabile che spesso in questo tipo di rapporto, unico, complesso e particolare, si inseriscano sentimenti contraddittori, gelosie, marce indietro. 

Quando si dice "amicizia", viene immediatamente in mente un bestseller che è considerato ormai tra i più noti al mondo su questo tema: L'amica geniale, di Elena Ferrante (Edizioni E/O, 2011-2014), saga celeberrima che racconta la storia di Lila e Lenù, due amiche che intrecciano le loro vite durante tutta la loro esistenza. Un rapporto di quelli formativi, che cambiano per sempre le persone che lo vivono, ma non per questo privo di ombre o di momenti problematici.


Un romanzo che racconta una vicenda per certi versi simile, nel senso che mette al centro della narrazione un sodalizio al femminile, forte e formativo, è Ragazze di città, di Elin Wagner (Harper Collins, 2022): siamo a Stoccolma, durante i primi anni del Novecento: Elizabeth si trasferisce in città per iniziare il nuovo lavoro di impiegata. Lì incontra Eva, Baby ed Emma, e le quattro daranno vita a un legame indistruttibile, grazie al quale affronteranno le ingiustizie che la condizione femminile presenta.

Allo stesso modo, Sandor Marai, in Le braci (Adelphi, 1998) mette a punto un racconto simile in cui sono due uomini a ritrovarsi quarantuno anni dopo, in un castello ai piedi dei Carpazi, dopo due vite estremamente diverse. Un incontro importante, in cui gioca un ruolo fondamentale il ricordo di una donna...

Anche Ronan Hession pone al centro del proprio romanzo, Leonard e Hungry Paul (Keller editore, 2023), due amici maschi, di circa trent'anni, che vivono in una maniera che la società ritiene lontano dagli standard consueti e maggioritari, ponendoli come "nerd". Ma è davvero così, oppure la loro amicizia rivela in realtà una visione del mondo molto più consapevole di quanto non sembri?

Tra le ultime uscite, con un tono e un obiettivo del tutto diverso, segnaliamo Ancora amici, di Roberto Gerilli (Mondadori, 2024), una commedia vivace e amarcord per tutti i Millennials, in cui il protagonista si trova a fare i conti con l'evoluzione di un rapporto in età adulta. Dopo tanti anni e vite ormai radicalmente diverse, è possibile trovare ancora qualcosa in comune con i propri amici dei tempi della scuola? Per scoprirlo non resta che organizzare un weekend insieme che dovrà culminare con un concerto, proprio come accadeva da ragazzi. Certo, bisogna però riuscire a coinvolgere gli altri tre amici di una vita, presi come sono dalla frenesia delle loro giornate... 

Se Gerilli si è soffermato sull'ingresso nell'età adulta dei suoi protagonisti, ci sono narratori che sanno raccontare bene l'adolescenza: Fabio Geda, in La scomparsa delle farfalle (Einaudi, 2023), accende la luce sull'importanza dell'amicizia nell'età delle superiori: cosa succede quando a un gruppo di amici accade un evento spiacevole e spiazzante, destinato a cambiare per sempre le sorti del loro rapporto? Con tatto e delicatezza, Geda crea un affresco dei primi sentimenti adolescenziali.

La scomparsa delle farfalle non è l'unico romanzo che si focalizza su rapporto amicale che ha dovuto affrontare un evento traumatico: in L'estate brucia ancora, di Chiara Fina (Guanda, 2023), si racconta la storia di Emma e Carlotta, che si ritrovano, a tredici anni, ad affrontare un episodio dolorosissimo di violenza. La loro vita cambierà per sempre e molti anni dopo sarà una delle due, Carlotta, a dover rimettere insieme i pezzi della loro vicenda.

Anche Punto croce, di Jazmina Barrera (La Nuova Frontiera, 2023), indaga un'amicizia messa alla prova dal dolore: Mila, Citlali e Dalia sono sempre state unite da un sentimento comune, ovvero la passione per il ricamo (che diventa metafora di molto altro nella narrazione). Insieme le tre sono partite da Città del Messico per l'Europa, condividendo speranze e avventure. Quando, anni dopo, Mila viene a sapere dell'improvvisa scomparsa di Citlali, il vaso dei ricordi si apre e da lì inizia il racconto di tre vite intrecciate.

Talvolta, invece, è il contesto storico, più che le passioni comuni, a unire persone diverse: è il caso di La compagna Natalia, di Antonia Spaliviero (Sellerio, 2022), in cui la protagonista resta affascinata dalla sua compagna di scuola Natalia, una ragazza che pare distaccarsi dagli altri, totalmente assorbita com'è nella lotta sessantottina. L'ammirazione dell'io narrante porterà le due ad avvicinarsi ma crescere richiederà anche di mettere in dubbio tutto, persino un modello prima rifulgente.

E se a diventare amici non fossero due persone della stessa età ma un ragazzino e un rider decisamente adulto? In Le balene mangiano da sole (Feltrinelli, 2021), Rosario Pellecchia mette in scena la dolcissima storia di Luca e Genny in un'amicizia che per i due sarà molto importante. Sullo sfondo di una Milano di cui si percepiscono le grandi contraddizioni sociali, il romanzo conquista per il desiderio di affetto e di famiglia che i due protagonisti - per ragioni diverse - portano con sé. 

Invece per farvi un'idea più precisa dei rapporti amicali, per voi c'è Confessioni di un'amica (Neri Pozza, 2024), di Elizabeth Day, un illuminante saggio-memoir in cui l'autrice indaga, dati alla mano, la realtà delle amicizie al giorno d'oggi, sia pre e post-pandemia sia attraverso le varie fasi della vita.

Ma non è finita qui, ci sono tanti altri titoli meritevoli di attenzione, per cui abbiamo deciso di dividere l'appuntamento di oggi in due parti. A presto con la seconda puntata!

«Ero terra di nessuno, come la montagna»: "Figlia del temporale" di Valentina D'Urbano


Figlia del temporale
di Valentina D'Urbano
Mondadori, settembre 2024

pp. 312
€ 20 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


Cosa si può fare se la tua famiglia adottiva sceglie un marito a cui affidarti per il resto della vita? Hira si trova davanti a questa terribile domanda a vent'anni, dopo sette anni circa in cui è stata cresciuta e ospitata dallo zio Ben e dalla zia Lena, trascorrendo il suo tempo insieme ai cugini, Danja, di poco più grande di lei, e Astrit, suo coetaneo. Quando è arrivata nel paesino montano di Senjë, orfana, nel 1974, ha faticato ad ambientarsi, abituata com'era alla vita di Tirana, all'istruzione, ai bei vestiti e alle comodità di casa. Qui, invece, gli abitanti locali fanno i conti con mesi di freddo insopportabile, case rustiche ed essenziali come vuole il governo comunista che limita qualsiasi lusso, lavori manuali che occupano gran parte della giornata per un minuscolo tornaconto. In questa dimensione ancora fortemente patriarcale, le donne stanno crescono i figli, badano alle pulizie e allevano gli animali, cucinano e servono gli uomini della famiglia senza battere ciglio. Agli uomini è concesso di ritrovarsi in una bettola a bere e giocare, facendo quelli che sono definiti "discorsi da uomini", senza cedere alla manifestazione dei propri sentimenti. 

Hira però ha un'idea ben chiara in testa: non è questo che vuole per il suo futuro, non se la sente di accettare passivamente le decisioni dello zio Ben senza aver voce in capitolo. D'altronde vede come vive sua cugina Danja da quando si è sposata: coglie nel suo sguardo basso e remissivo la consapevolezza di non potersi ribellare, perché le regole sono così e secondo la maggior parte delle donne è normale adattarsi alla nuova vita imposta dalla famiglia («Dobbiamo sempre spezzarci in qualche punto. Intere non andiamo bene, intere non ci possono sopportare», p. 239). 

Questa prospettiva, invece, è lontana da Hira, dalla sua educazione, dalle aspirazioni di libertà che nutre, suo malgrado. E poi negli occhi di Hira c'è l'esempio fulgido di Astrit, il cugino che, pur avendo la sua stessa età, gira nel bosco di Maja i Narreth seguendo il suo istinto ferino e selvatico. Molti avrebbero paura dei lupi e delle tante storie di morte e scomparsa che si raccontano in paese, nonché delle restrizioni imposte dal governo (il bosco, infatti, si trova praticamente al confine settentrionale dell'Albania, che è proibito valicare). Ma lui non teme la sua dimensione naturale: porta ovunque con sé l'odore del bosco, avvezzo a tutto, persino al freddo e ai pericoli della montagna. Hira ammira quel cugino che per tanti anni non ha parlato, in seguito a un evento che si spiegherà nel corso della narrazione, e anche Astrit la ricambia come può, sfregandole il volto con il suo, con baci che sembrano morsi. 

Per queste e per altre ragioni che si comprenderanno via via nel romanzo, Hira non accetta di sposare un uomo che non conosce, impostole dalla famiglia, e trova la possibile soluzione - definitiva e tremenda - nel Kanun, un codice tradizionale della montagna. Secondo il Kanun, una donna può decidere di diventare una burrnesh, ovvero una "vergine giurata", decisione irrevocabile, che comporta la rinuncia completa della propria femminilità per abbracciare una vita da uomo ribattezzandosi con un nome maschile e vivendo nella castità. Questo salverebbe il buon nome della famiglia, perché così Hira potrebbe evitare il matrimonio senza infangare la reputazione di suo zio, ma è davvero disposta a rinunciare per sempre a condividere il proprio corpo con qualcun altro? 

Non è semplice arrendersi a questa decisione così definitiva, ma il Kanun le consentirebbe di diventare «né uomo né donna, entità sperduta e irriconoscibile, creatura libera» (p. 260), oltre che di rispondere così ogni volta che le verrà chiesto chi si prenderà cura di lei:

«Chi prenderà le decisioni? Chi ti proteggerà? Chi si prenderà cura di te, quando sarai vecchia?»
«Io prenderò le decisioni. Mi proteggerò da solo. Baderò a me quando sarò vecchio» (p. 205)

Figlia del temporale mette al centro il corpo ma anche le tante responsabilità che una giovane donna porta con sé: essere fedele a sé stessa e ai sentimenti che prova, ma nel rispetto della famiglia che l'ha cresciuta. Le oscillazioni di Hira tra il suo essere e il dover essere agli occhi della comunità sono una costante, perché nessuna decisione tanto brutale può essere presa con leggerezza. Perché il resto del paese è lì che guarda, che giudica, ma è anche pronto ad accogliere una vergine giurata, ad accettare il suo nuovo nome e a rispettare una scelta degna di rispetto. 

Ammantato di sensualità e di ferinità al tempo stesso, Figlia del temporale testimonia una grande crescita della scrittura di Valentina D'Urbano: ancora materica quando serve, la sua penna sa volare lontano per raccontarci una storia di libertà e di indipendenza, che rischia di trasformarsi in una nuova prigione per il corpo, nel tentativo di imbrigliare sentimenti scomodi che non si possono condividere.

GMGhioni 


La montagna che dà rifugio: "La strangera", di Marta Aidala

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La strangera
di Marta Aidala
Guanda, agosto 2024

€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)

Qual è il nostro posto nel mondo? Dove ci sentiamo a casa? Quando ci accorgiamo di essere in sintonia con ciò che ci circonda? Spesso non è così facile trovare una risposta, soprattutto quando ci rendiamo conto che quella che finora abbiamo vissuto non è la vita che vogliamo. Cogliamo Beatrice, la protagonista di questo romanzo, La strangera, di Marta Aidala, in un momento come questo. Straniante, di riflessione.

O meglio, la incontriamo già un passo avanti. Perché Bea, studentessa a Torino, s'indovina un po' per le lunghe, la tesi nel cassetto che non ha alcuna premura di finire, una decisione l'ha presa ed è quella di lasciare la città, di mettere in pausa la vita condotta fino ad allora e di dare ascolto alla voce della montagna, antica passione. Contro il parere di tutti, dei genitori in primis che la vedevano già con la corona d'alloro in testa, Beatrice sceglie di "fare la stagione" in un rifugio. Ed è lì che ne facciamo la conoscenza, su in alta quota, mentre corre qua e là per la sala ristorante, tra una prenotazione da segnare in agenda e i tavoli da pulire o i tomini da ritirare in malga. I suoi compagni d'avventura, tutti uomini, sono il Barba, rifugista ruvido, scontroso, vagamente dittatoriale, ma ironico e pungente. Lo chiamano così anche se il mento è assolutamente privo di peli, tanto quanto la testa, lucida e pelata. Poi ci sono il cuoco, Daniele, e i due aiutanti, Berto e Gioele. La vita di Beatrice è scandita dai ritmi intensi del rifugio, non si può stare fermi, qualcosa da fare c'è sempre. Non c'è nemmeno il tempo di pensare. Ma nei rari momenti in cui la pressione si allenta Bea è felice, sente di essere finalmente a casa, di aver afferrato la sua dimensione, la sua vita. Le sembra di aver trovato ciò che stava cercando. 

E in questo la montagna gioca un ruolo fondamentale. Una montagna che Bea, nella vita precedente, aveva preso di petto, imparando a scalarla, diventando sempre più brava, veloce, competitiva. Fino a sentire dentro di sé uno strappo... non è così che va vissuta la montagna. Amarla vuol dire altro, significa fermarsi a sentirne la voce, lasciarsi incantare dalle albe e dai tramonti, rispettarla nei suoi tempi che sono lenti, solidi, non frenetici come quelli della città. Ma Bea è cittadina e quel soprannome, la strangera, la insegue, le dà sui nervi, lo detesta, la fa sentire quasi fuori posto anche se

avrei voluto rispondere ciò che avrei detto a tutti gli altri in seguito, che lì in montagna io ero straniera esattamente quanto loro. (p. 28)

Chi in montagna non è straniero per niente perché ci è nato e perché la montagna ce l'ha nel Dna, nel sangue e sulla pelle è Elbio, il pastore-malgaro timido, silenzioso che s'innamora di Bea. E, come in un gioco d'incastri, i due opposti si attraggono: lui quadrato e solido quanto lei eterea e irrisolta;  lui quasi fuori tempo, vincolato alle tradizioni, ai gesti antichi, quanto lei slegata dal suo mondo passato; lui certo di essere nel posto giusto, lontano anni luce da dubbi sul suo destino, quanto lei insicura e in cerca di un punto fermo; lui montanaro fin nel midollo, quanto lei cittadina, strangera. Nasce una storia fatta di silenzi, di timide carezze, un lento avvicinamento tra due mondi che più lontani non potrebbero essere.

Le pagine scorrono veloci tra le imprecazioni del Barba, che senza darlo a vedere si affeziona a quella ragazza venuta dalla città, ma piena di voglia di imparare e di lavorare, e i dialoghi che scandiscono il ritmo del romanzo, ricreando quel microcosmo irripetibile e unico che è il rifugio di montagna. Un luogo sospeso nel tempo e nello spazio dove si crea complicità e i legami si fanno più stretti... forse perché fuori le montagne incombono, fanno soggezione e ti fanno sentire piccoli. Già su queste pagine avevamo recensito un romanzo che aveva il rifugio come ambientazione, Dove ghiaccio attende, di Matteo Bertone (qui la recensione). In questo caso la magia del rifugio era descritta dal punto di vista del cliente. Aidala, invece, attingendo alla sua storia personale, ne parla con la voce di chi vi lavora. Ed è un punto di vista assolutamente originale e intrigante

Alla metà del romanzo Bea sembra aver trovato la propria dimensione, aver completato il suo percorso... ma la montagna non è salvatrice, non è sempre amica, non ha pietà, osserva chi l'attacca come un monolite dagli occhi di pietra, indifferente. E può capitare che chi la scala, anche amandola senza riserve, su quei tratti rocciosi perda la vita. Un incidente occorso a due alpinisti getterà Bea nello sconforto, togliendole tutti i precari punti solidi che si era andata costruendo. Bea capisce che la montagna, quella nella quale si era sentita finalmente accasata, in realtà presenta aspetti a lei sconosciuti, che la fanno sentire inadeguata, incapace di gestire gli eventi. 

Avevo creduto di essere riuscita a ricavarmi uno spazio tra gomitate e spintoni, notti insonni, servizi estenuanti [...]. Avevo imparato a rispondere a tono, a comprendere quel dialetto strascicato, a riconoscere i larici dagli abeti. Che la polenta per esser buona deve cuocere a fuoco lenti, che i vitelli nascono in autunno e il tempo è un matto che non risponde quando pronunci il suo nome, dirà sempre ciò che non ti aspetti. Che la gente lassù muore e lo devi accettare come una mela che cade dall'albero. Tutto mi era familiare, eppure non mi apparteneva più nulla. Per la prima volta mi sentii davvero strangera, senza patria, senza una casa a cui tornare. (pp. 298-299)

In più, il tradimento, se così vogliamo chiamarlo, di uno dei protagonisti maschili del romanzo verrà a darle il colpo di grazia e quella montagna che le aveva dato rifugio diventa una trappola, un cappio che sembra stringerla e soffocarla. Tutto frana, anche quelle che Bea aveva scambiato per certezze. Nemmeno la vita di Elbio, che le era sembrata così solida e ben piantata nel tempo e nello spazio, le sembra più darle le risposte che cerca. Riuscirà Bea a trovare quel posto nel mondo che sia davvero suo? La montagna l'aiuterà? Sarà una presenza femminile, in quel mondo tutto al maschile, a indicarle una strada perché in fondo «le montagne sono donne immense, eppure tante portano nomi di uomini» (p. 17) e forse era proprio per quello che Bea aveva scelto la Becca.

Con La strangera, Aidala si inserisce in quel filone di letteratura di montagna finora appannaggio quasi esclusivo di scrittori di genere maschile, con qualche eccezione, penso per esempio a Fioly Bocca. Quasi che affrontare le alte vette o anche solo parlarne sia affare da uomini. Ma basta ricordare un solo nome, quello di Antonia Pozzi, dall'autrice ricordata nell'esergo, per capire che non è così. Aidala, con questo che, tra l'altro, è il suo romanzo d'esordio, rivendica un suo posto in questo genere di letteratura e lo fa con un racconto di formazione perché la figura di Bea evolve, cambia a contatto con la montagna, con i "montanari", con un mondo lontano dal suo, con la natura. È un libro nel quale non succedono avvenimenti eclatanti, non ci sono colpi di scena, l'azione è ridotta al minimo, ma il movimento accade nell'animo della protagonista che si apre al cambiamento, all'apprendere, alla fiducia. È un libro di sensazioni, di sentimenti, di passaggi, un racconto nel quale la natura ha una parte fondamentale: la montagna è onnipresente ed è lei a dettare i tempi, le necessità, i ritmi. Non c'è nulla di poetico o di fintamente romantico nella montagna messa in scena dall'autrice, è la montagna nella sua essenzialità.

Tante le tematiche affrontate nel libro: il cambiamento climatico perché la montagna è in sofferenza, manca l'acqua, l'elettricità è sempre una scommessa (il Barba spegne la macchina del caffè, la mitica Cimbali, che consuma troppo, «se qualcuno te lo chiede, dì che il caffè se lo prendano quando scendono al bar della Gina», ringhia il gestore del rifugio, p. 83). Lo spaesamento dei giovani della GenZ che spesso cercano il proprio posto nel mondo e hanno bisogno di stimoli o spinte per riconoscerlo. La contrapposizione tra mondo di su e mondo di giù, tra il tempo della montagna e quello della città, queste due anime così divise che spesso faticano a dialogare. Da un lato il turista di città che spesso snatura la montagna cercando in cima ciò che trova in città, le comodità, il divertimento, da un lato il montanaro che a volte preme perché la montagna diventi più accessibile perché i turisti portano soldi. Ma che spesso vive lo strangero come un invasore. Ma se la montagna sopravvive e non si spopola, un certo ruolo il turismo ce l'ha pure. Insomma, un equilibrio sottile, un filo che si tende senza spezzarsi. Tutte queste tematiche si ritrovano nel romanzo di Aidala impunturate nella tessitura narrativa, tra le righe, senza teoremi o soluzioni preconcette.

Un buon esordio che sconta soltanto qualche lieve accenno di scuola narrativa, in certe metafore un po' azzardate, che a volte paiono scelte per stupire i lettori, ma in genere un romanzo dal ritmo narrativo abbastanza sostenuto, cosa tutt'altro che scontata considerato che non sono gli avvenimenti ad alzare il climax, dalla scrittura pulita, precisa e solida, senza troppe sbavature. Un libro che mette voglia di girare pagina e, una volta finito, di chiuderlo, aprire l'armadio e preparare uno zaino da 30 litri con antivento, borraccia e maglione.

Sabrina Miglio