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«Non resta ciò che sappiamo; resta solo ciò che facciamo»: "Sapere", il saggio di Alessandro Carrera

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Sapere
di Alessandro Carrera
Il Mulino, Parole controtempo, 2023

pp. 152
€ 13 (cartaceo)
€ 9,13 (ebook)


Il sapere viene inventato negli spazi vuoti tra le rovine del passato e la tirannia del presente. Non resta ciò che sappiamo; resta solo ciò che facciamo. (p. 95)
Nelle primissime pagine, dedicate al prologo, l'autore Alessandro Carrera definisce questo suo saggio come 
«una modesta domanda su che cosa ne facciamo del sapere che ci è toccato in sorte, su come lo possiamo passare a chi verrà dopo di noi, e se davvero dobbiamo passarlo, o se non è meglio che i nostri discendenti scoprano per conto loro quello che sarà loro utile e quello che invece dovranno accantonare» (p. 22). 

Un obiettivo ambizioso, che si concreta in un saggio di breve lunghezza, ma non per questo veloce o corrivo. La sua complessità è insita nel tema stesso, che viene attraversato da interrogativi che risuonano nelle vite di noi lettori e ci impongono di rileggere il passo, di sentirlo dentro di noi e di provare a rispondere agli interrogativi anche sulla base del nostro sapere. Sapere che - si badi - è ben distinto dal concetto di cultura. Semmai, come precisa l'autore, il sapere è proprio ciò che resiste alla cultura, ed è difficilmente circoscrivibile. 

E, nonostante siano oggettive le difficoltà nel definire, descrivere o perlomeno affrontare il macrotema del sapere, l'autore sceglie di intrecciare alla trattazione in senso tradizionale elementi autobiografici. Non è raro, infatti, che l'esperienza personale sia il punto di partenza perché poi, induttivamente, si ampli la riflessione. E va detto che questo approccio, a tratti narrativo - che normalmente non prediligo -, si conferma invece vincente in questo volume, soprattutto perché l'autore ha alle spalle esperienze decisamente non comuni. 

Infatti, Alessandro Carrera, oggi professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in passato si è trovato a ricoprire vari incarichi, cambiando lavoro ogni tre o quattro anni. Occuparsi di studi diversi, spesso partendo daccapo, dunque rimettendosi costantemente in gioco, spesso cambiando addirittura stato o continente, ha permesso all'autore di avere oggi una visione estremamente sfaccettata, non eurocentrica, e un approccio altrettanto vario. È come se cambiare campi d'indagine, imparando a guardare il mondo e gli studi da prospettive diverse, abbia alimentato un approccio personale, non scontato né cristallizzato, giovando sia alla scrittura sia all'oggetto di studio. Questa poliedricità vivacizza il dettato, così come la trattazione, che richiede certamente alcuni prerequisiti e una predisposizione alla riflessione filosofica per essere apprezzata appieno. 

Nel primo capitolo l'autore parte dall'esperienza di un proprio viaggio a Kyoto per arrivare alla riflessione su un insegnamento antigerarchico e su come sia necessario staccarsi dal canone verticale a cui tanto siamo ancora radicati in Occidente, a vantaggio invece di un canone orizzontale e non gerarchico. Questo sovvertirebbe tanto il nostro modo di pensare quanto l'idea stessa di "bello" (cap. 2), portandoci a rivedere tutto, dall'insegnamento all'autopercezione della cultura occidentale (in particolare, cap. 3). Inutile dire che, personalmente, ho trovato molto interessanti le parti dedicate all'insegnamento e mi ha confortato l'idea che Carrera confessi di divertirsi moltissimo nel suo ruolo di "dj della cultura" (p. 92). Molto d'impatto sono le pagine dedicate alla riqualificazione delle discipline umanistiche all'interno di un mondo contemporaneo che è radicato al politically correct e che, per questo, si fa indubbiamente problematico e che richiede mille cautele, perché la denuncia è dietro l'angolo.   

Avete un po' di confusione a questo punto? Ho volutamente proposto i sottotemi in disordine, perché scoprirete con la lettura la struttura data da Carrera a questo volumetto che sarà particolarmente caro a chi ama le forme saggistiche in cui l'io dell'autore è ben presente. Anzi, in cui l'io si fa vero e proprio trait d'union dell'opera, rendendola molto personale e imprevedibile.

GMGhioni