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La genesi di "A Christmas Carol" di Dickens, in un romanzo su scrittura, fantasmi, crisi personale e artistica: "Il canto di Mr Dickens", di Samantha Silva

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Il canto di Mr Dickens
di Samantha Silva
Neri Pozza, novembre 2022

Traduzione di Daria Restano

pp. 288
€ 19 cartaceo
€ 9,99 ebook


Delle varie tradizioni natalizie per me irrinunciabili non poteva mancarne una legata al mondo dei libri che probabilmente condivido con molti altri lettori: ogni anno nel periodo di Natale rileggo la mia copia di Canto di Natale di Charles Dickens, seduta vicino all’albero addobbato, e mi perdo con rinnovato incanto tra le pagine di quella storia senza tempo. Pochi altri autori hanno saputo dare forma al mondo e all’uomo come ha fatto Dickens nei suoi romanzi, forse solo uno, Shakespeare, e non a caso i due sono legati da un filo rosso che ne attraversa le opere e le fanno giungere fino a noi lettori contemporanei, con immutato valore.
Non deve essere cosa da poco avvicinarsi al genio di Dickens e a una delle sue opere più celebri per immaginarne la creazione: Samantha Silva, scrittrice e sceneggiatrice statunitense, tenta l’azzardo con Il canto di Mr Dickens, da poco in libreria per Neri Pozza nella traduzione di Daria Restani, un romanzo ispirato alle vicende che hanno portato alla nascita del Canto di Natale nel dicembre del 1843. È bene sottolineare, a scanso di equivoci, che la maggior parte di ciò che troviamo tra queste pagine è invenzione letteraria liberamente ispirata alla figura di Dickens colto in un momento particolare della sua vicenda personale e artistica, che Silva maneggia ed elabora in un romanzo. Inutile quindi secondo me risentirsi per lo scostamento dalla realtà, dalla vicenda biografica e dal ritratto stesso di Dickens, forse perfino per gli echi fantasy e onirici che attraversano anche questa narrazione similmente a quanto accadeva per un altro testo uscito di recente sempre per Neri Pozza, Mary, ispirato alla vita di Mary Shelley e alla creazione di Frankenstein. Ma qui finiscono anche le similitudini tra i due romanzi e, con le dovute perplessità, l’opera di Silva mi è parsa più strutturata e degna di nota, tanto per gli appassionati lettori dickensiani quanto per tutti gli altri – se ne esistono.

Lo scostamento dalla biografia verificata dell’autore, quindi, è notevole, su ammissione della stessa Silva nella postfazione al volume, non mancano comunque diversi elementi e fatti noti che i lettori di Dickens riconosceranno, a partire dalle circostanze in cui il celebre racconto natalizio è nato: scritto in una manciata di settimane, il Canto di Natale rispondeva alle richieste pressanti dei suoi editori e dalla necessità economica; se è vero che nel 1843 il nome di Dickens era già molto noto tra pubblico e critica e la sua fortuna letteraria si era tradotta in avanzamento economico, è anche vero che l’autore si è trovato tutta la vita a dover fare i conti con i debiti del padre, le frequenti richieste di prestito e finanziamento da parte di parenti e conoscenti, la generosità con cui rispondeva alle cause benefiche e uno stile di vita spesso al di sopra delle reali possibilità.
Tra loro c’era sempre stata una sorta di spinta in avanti, come se la vita potesse solo tradursi in un’espansione continua: altri figli, una casa più grande, cose migliori. Lo stesso Dickens era noto per la sua tendenza alla prodigalità, generoso fino all’eccesso. (p. 30)
Il racconto nasce perciò come necessità di questo genere, ma è poi diventato uno dei suoi testi più riusciti e celebri. A partire da questo fatto, Silva costruisce la propria storia, immaginando quelle settimane di scrittura, frustrazione, famigliari assillanti, paure e fantasmi dal passato. Ne scaturisce il ritratto – seppur immaginario – di uno scrittore, di un uomo, tormentato, del suo sentirsi incompreso, gravato dal peso delle responsabilità; un marito che si scontra di frequente con gli umori altalenanti della moglie, incapace di resistere alle richieste dei figli, ma anche uno scrittore che vive per la propria arte, ne viene totalmente assorbito. Intorno a lui, ad alimentare il malumore di quelle settimane di scrittura forzata, la pletora di famigliari e conoscenti che vogliono qualcosa da Dickens, i guai giudiziari, la messa in discussione del proprio nome, la concorrenza letteraria, la circolazione illegale delle sue opere. Molti elementi rintracciabili nella vicenda biografica dell’autore, che qui vengono piegati e rielaborati al fine narrativo e contribuiscono a dare profondità al “personaggio”, aprendo così anche a numerosi altri spunti di riflessione.

Quello di Silva è un romanzo prettamente notturno: seguiamo Dickens tra le strade e i vicoli di una Londra umida, avvolta dalla nebbia, mentre si smarrisce tra le vie, nei pub malconci in cui cerca rifugio e anonimato, nelle vecchie stanze in cui trovare la concentrazione e l’isolamento. Londra e il mondo culturale del tempo sono rappresentate con particolare abilità e aprono anche in questo caso a considerazioni sull’ambiente letterario, sulla promozione dei libri, sui circoli culturali. Se è vero quindi che la maggior parte di quanto leggiamo è invenzione letteraria, gli spunti di riflessione sono lo stesso importanti e permettono di ampliare lo sguardo oltre la vicenda specifica narrata. Ma è soprattutto il racconto intimo di un uomo in crisi, tanto dal punto di vista creativo quanto affettivo. Il rapporto col padre, in particolare, tocca corde emotive a cui è difficile restare indifferenti:

Avrebbe voluto vedersi offrire, se non del denaro, almeno una ventata di quel suo ottuso ottimismo, ora che ne aveva tanto bisogno. Un orecchio pronto ad ascoltare, una parola di saggezza, una spalla su cui appoggiarsi, ora che si sentiva vacillare. Un qualche segno che l’ordine naturale del rapporto tra genitore e figlio era ancora intatto. Era ridicolo aver bisogno di un padre alla sua età, adesso che lui stesso lo era diventato, e per ben sei volte. Eppure era così. (p. 51)
I contrasti tra Dickens e il padre si susseguono lungo tutta la narrazione e gli squarci sul passato, i fantasmi che lo tormentano fin da ragazzo non è difficile immaginare fino a che punto realmente possano aver angosciato lo scrittore:
«I miei fratelli, mia sorella, mia madre… se li portò dietro tutti quanti. Lo supplicai di portare anche me. Ma a me spettava il compito di farli rilasciare. Lavorando in questa fabbrica». (p. 224)
Sono molti i fantasmi che abitano questa storia, la mente del suo autore e che, in certa forma, si riversano poi nel celebre racconto. Sono gli spettri di un passato con cui è chiamato a confrontarsi, la perdita dell’ispirazione di fronte alla scrittura forzata e una musa che inaspettatamente incrocia il suo cammino, le paure, il fallimento. Si aggira per le strade in cerca di anonimato e riparo ed è qui che l’incontro con una donna misteriosa porterà a svolte inattese. La narrazione di Silva fonde realtà e finzione, imprimendo alla storia atmosfere oniriche e fantasy non del tutto spiacevoli. Se nel già citato Mary di Anne Eekhout le tinte fantasy non si poggiavano su un solido impianto narrativo, qui tali pennellate possono incontrare o meno il gusto del lettore ma sono più controllate, seppur con qualche incongruenza e, più che nella resa effettiva, convincono per il personaggio e il particolare momento che si va costruendo. A lasciare forse più perplessi è invece il finale, che idealmente si allinea al Canto di Natale ma è pure un happy ending un po’ troppo forzato. Sono comunque le riflessioni e gli spunti sulla scrittura, a mio parere, a risultare più efficaci: quello che Silva rappresenta è un autore in crisi, di cui racconta la devozione ma anche le difficoltà del mestiere di scrivere, le ossessioni, i tormenti, la simbiosi con i propri personaggi:
Lui abitava le creature nate dalla sua penna in ogni dettaglio, e loro vivevano in lui. (p. 140)
C’è un brano, poi, che ben riassume ciò che si è tentato di sottolineare sulla scrittura, e che coglie lo scoramento dell’autore ma soprattutto il senso dell’atto creativo come da lui concepito:
Era segno che non ci credeva, che non credeva in lui, nella magia di quelle parole che uscivano dal nulla, e dalle cose e dalle persone e dalle più lievi sfumature di umore e di sentimento, parole che nascevano dalla strada, dai lampioni, dalla ragnatela di una vita intera, dall’alto, dal basso, dalle cose verso cui allunghi la mano ma che non riesci a toccare, l’ombra finemente intrecciata di significato, mettendocela tutta, l’effimero e l’inevitabile, tutto insieme, e le cose indicibili che però chiedono di essere dette, e che non sarebbero mai state dette senza di lui, non come le diceva lui. (p. 165)
Il canto di Mr Dickens è quindi un testo piuttosto stratificato, imperfetto, che stuzzica la curiosità dei lettori appassionati e ben si adatta al periodo in cui ci troviamo. È l’ulteriore dimostrazione di quanto profonda e radicata sia nella nostra storia letteraria l’impronta lasciata da Charles Dickens.

Di Debora Lambruschini