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Sull'orlo del precipizio con Paolo Mieli, Francesco Cundari, Ivan Canu: "L'Italia della Prima guerra mondiale in 50 ritratti"

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L’Italia della Prima guerra mondiale in 50 ritratti. 1911-1919
di Paolo Mieli e Francesco Cundari
illustrazioni di Ivan Canu
Centauria, 2022

pp. 176
€ 22,90 (cartaceo)

Partiamo dalla fine, ovvero dalla conclusione del saggio critico scritto da Paolo Mieli e Francesco Cundari per L’Italia della Prima guerra mondiale in 50 ritratti. 1911-1919, da poco uscito per la casa editrice Centauria. Partiamo dall’explicit di questo contributo introduttivo, eloquentemente intitolato La catastrofe, e arrendiamoci all’evidenza:

«la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale – vent’anni fa si stimavano venticinquemila tra volumi e saggi su questo tema – oggi non aiuta a capire. O, comunque, aiuta meno di quanto ci si aspetterebbe. Oltretutto ha assunto proporzioni talmente vaste che nessun singolo storico («Neppure un’immaginaria figura di studioso in grado di padroneggiare tutte le lingue richieste») può sperare di poterla leggere per intera nell’arco di una vita» (p. 45).

Se quello della Grande Guerra vi sembra – come in effetti è – un tema colossale e potenzialmente annichilente, rompete dunque gli indugi e partite pure da qui, dal volume scritto a quattro mani dallo storico/giornalista (Mieli) e dal giornalista/autore televisivo (Cundari) e interpretato artisticamente dall’illustratore/scrittore/autore Ivan Canu. Dopo Storia del comunismo in 50 ritratti, L’Italia di Mussolini in 50 ritratti. 1919-1945 e L’Italia della Liberazione in 50 ritratti. 1945-1948, è come se il centenario da poco trascorso avesse fatto compiere un nuovo e necessario salto temporale all’indietro all’efficace trio di firme: la disamina del nostro Paese, arrivata alla soglia degli anni Cinquanta e della conseguente rinascita, si volge di nuovo a contemplare le atmosfere plumbee e conflittuali di inizio secolo, e a delineare i profili dei suoi esponenti più rappresentativi in ambito politico, economico, militare e culturale. E basta dare un’occhiata ai titoli dei sottoparagrafi – Sonnambuli, geni e sinistri scricchiolii, Dietro lo sparo di Sarajevo: Gavrilo Princip e gli altri, I giorni che resero normale l’orrore, Il prezzo del conflitto, Il problema storico della colpa – per ricordare di che segno furono e sarebbero state le premesse, le conseguenze e le eredità di quei pochi anni che cambiarono per sempre le sorti dell’Europa e del modo di intendere il conflitto (e la pace) tra le nazioni.

Se l’introduzione di Mieli e Cundari si pone come un ulteriore tentativo di comprendere “come il mondo precipitò nella guerra” – un tentativo che mette l’accento sulla irripetibile temperie del periodo, sull’elevatissima concentrazione di personaggi geniali che ne animavano la scena culturale e artistica, sul mix contraddittorio di presentimenti e ridimensionamenti della gravità dei fatti e sulla complessità di interazioni tra vecchi e giovani, pacifismo e interventismo –  la cernita di personaggi appartenenti all’area nostrana colpisce, a una prima e mera valutazione basata sui numeri, per l’alta concentrazione di giornalisti (più che di scrittori), di militari (più che di politici) e per la ridottissima rappresentanza femminile, che esaurisce le sue schiere nei pur illustri nomi di Maria Bergamas, Grazia Deledda, Eleonora Duse, Margherita Kaiser Parodi, Maria Montessori, Marya Rygier e Matilde Serao. Ma non può essere che così, d’altra parte, dal momento che la carta stampata ebbe un ruolo di primo piano già nel dibattito prebellico, che la categoria degli uomini d’armi andò incontrò a un’autentica ed epocale rivoluzione del proprio ruolo esattamente in quei pochi anni di cesura e di cerniera tra il XIX e il XX secolo, e che “il colore rosa” ancora faticava a imporre la presenza della sua tinta in una fase dominata dalla violenza di un rosso nuovo, anticamera di un nero ancora più sinistro. Le tavole realizzate per tutti loro da Ivan Canu si pongono ancora una volta in perfetta linea di continuità con quelle dei volumi precedenti, e anche in questa occasione confermano l’abilità del loro creatore nel riuscire a sintetizzare il senso o la cifra di un’intera esistenza facendo ricorso alla citazione visiva dotta e popolare, al gioco retorico inteso in senso sempre originale e mai scontato, e a quella strategica e peculiarissima contaminazione/interpolazione/sovrapposizione delle immagini che da tempo rende riconoscibile un ritratto realizzato dall’autore tra le miriadi di soluzioni possibili.

Sfogliando le pagine e assecondando l’ordine alfabetico della disposizione dei personaggi, eccoli che appaiono, misteriosi e riconoscibili, enigmatici e diretti, reticenti e inequivocabili: Luigi Albertini non può non guardarci dalle prime pagine stampate del suo “Corriere della Sera”, Francesco Baracca ci rivolge un’occhiata fiera in una posa “rampante” e napoleonica che cita il celebre ritratto di Delacroix, Cesare Battisti ha tratti, ciuffi e fulmini di ribellione che richiamano il più spavaldo dei David Bowie, Gabriele D’Annunzio è un Barone Rosso di peanutsiana memoria, Alceste de Ambris campeggia sulla locandina di un film sceneggiato proprio dal Vate che lo vuole protagonista nelle vesti di Brancaleone al Carnaro, Benito Mussolini bamboleggia in foggia di matrioska dalle molte anime e Antonio Salandra è un Giano bifronte che mira una colomba e un corvo sulla copertina di “L’asino”. Non meno intense e connotate le donne: Maria Bergamas replica quasi di diritto la posa della Madre dell’ucciso di Francesco Ciusa, con la foto del proprio milite “noto” tra le mani e le sue medaglie ai piedi; Grazia Deledda è finalmente restituita alla propria giovinezza in un ritratto che la celebra orgogliosamente cinta nell’abito tradizionale nuorese, avvolta nella convivenza di moderne spire Liberty e antichissime pintadere; Marherita Incisa di Camerana diventa figura da fregio in una pittura vascolare di memoria tanto greca quanto etrusca; Maria Montessori gioca a “Paradiso” in uno scenario bidimensionale vagamente espressionista. Nel susseguirsi dei vari profili, restituiti con una varietà di stili che ben si accorda ai rispettivi caratteri e temperamenti e nella ricorrenza dei rimandi a riviste e pubblicazioni d'epoca, e a locandine cinematografiche che hanno fatto la storia del cinema - La grande illusion di Jean Renoir (per Giovanni XXIII), La grande guerra di Mario Monicelli (per Carlo e Giani Stuparich), L'inhumaine di Marcel L'Herbier (per Eleonora Duse) - ecco che tornano anche, come per l’impossibilità di non cedere a metafore troppo efficaci e troppo immortali per non essere d’aiuto nella decrittazione della realtà, i prediletti riferimenti ai tarocchi e ai semi, sotto le cui mentite spoglie vengono “appiattiti” alcuni profili eccellenti: un modo per ricordare come anche loro (come tutti e, in quei frangenti, più di tutti) furono in balia della stessa “mano” che cala gli individui in un ruolo della vita, quasi fossero carte di un mazzo buono per il gioco o per la divinazione. Così, se Luigi Capello è “Il matto” ideale, Nazario Sauro è “L’appeso” per eccellenza, mentre Giovanni Papini ha un cognome e un destino di conversione tali da offrire lo spunto ad hoc per l’aggiunta di un nuovo arcano, ovvero “Il papini”; mentre una e “bina” è invece la carta di Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, due Jack riuniti in una sola effigie, da rovesciare all’occorrenza, metà di denari (con il busto del primo) e metà di picche (con quello del secondo).

Chi, a oggi, non avesse ancora avuto occasione di sfogliare nessuno dei volumi della collana dedicata da Centauria alla storia d’Italia del Novecento può approfittare di quest’ultima uscita per iniziare a ripercorrerne gli eventi direttamente in senso cronologico: l’eventuale affinità con la tipologia di libro – e dunque con una formula che fa convivere illustrazioni d’autore con le forme del saggio breve e quelle ancora più brevi dei medaglioni biografici – farà il resto. Per ora la scommessa di Balthazar Pagani può continuare a dirsi vinta: non come una guerra, e nemmeno come una battaglia, tutt’al più come una sfida che da alcuni anni ha ricordato al grande pubblico quanto ancora possano essere efficaci soluzioni divulgative “altre” e che fino a pochissimo tempo fa si credevano antiquate, irrilevanti, destinate a un pubblico prevalentemente minorenne o comunque distratto, scostante, da attrarre tra le pagine fittamente scritte solo con la promessa di una gratificazione visiva. Un genere dichiarato “finito” si conferma invece oggetto di una comprensibile attenzione collezionistica, da sollecitare con la coesistenza di argomenti, interventi critici e suggestioni artistiche di grande qualità. Non resta dunque che attendere il prossimo volume, presumibilmente e auspicabilmente dedicato ai decenni d’oro dell’epopea nazionale: quegli anni Cinquanta e Sessanta che da molti punti di vista ancora non smettono di suscitare ammirazione e nostalgia, e che, pur non privi di aspetti problematici e contraddittori, allontanerebbero senz’altro sia gli autori che i lettori da atmosfere conflittuali e di polivalente tetraggine ritornate purtroppo, e più che mai, in auge.

Cecilia Mariani