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“Un gorgo in cui non sappiamo più chi siamo”: una figlia, un padre, un addio in "Non so la notte" di Francesca Magni

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Non so la notte
di Francesca Magni
Bompiani, 2022

pp. 240
€ 17,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

 
 
Un incidente domestico, una gamba rotta, e la mamma non può più occuparsi del marito, che viene dunque accolto a casa da una delle due figlie, l’autrice. Inizia così, da un evento apparentemente piccolo e non ancora spiegato, il lungo, intenso memoir di Francesca Magni. Convivere con un padre affetto da demenza non è cosa semplice, obbliga a una radicale mutazione dei ritmi, a una trasformazione degli spazi, alla convivenza con persone terze che aiutino nell’assistenza. Obbliga a rituali tutti nuovi, a un percorso inesorabile di ri-conoscimento di un “papà sconosciuto”: 
Non è arrivare, il fine è vagare.
Non c’è intenzione nei tuoi gesti. Messi in fila però sono un balletto. Diurno, notturno, incessante, snervante, disarmante, avvilente, desolante. Inarrestabile. Sfinente. Niente, niente, niente. Nella tua testa non c’è più niente. E l’anima, se c’è, adesso che fa? Adesso dov’è? (p. 32)
Il morbo di Alzheimer è qualcosa che compromette l’identità non solo di chi ne è affetto, ma anche di chi affianca e accudisce. I figli possono dover diventare genitori dei genitori tornati bambini, possono doversi interrogare ossessivamente per dare un senso a un rovesciamento, inconcepibile, inaccettabile, dei rapporti.
Quelli che si susseguono nel volume sono capitoli brevi, o brevissimi, perché è difficile mettere a sistema il dolore, e di fronte alla disgregazione dell’altro l’unità narrativa imbocca la stessa via. Questo è il motivo per cui la nuova opera di Francesca Magni appare, volutamente, meno organica de Il bambino che disegnava parole (recensito qui), anche se ugualmente personale. La prosa si frange, si fa lirica. Non so la notte è un’opera che a tratti scivola nel passato, a raccontare i rapporti di un padre impegnato ma affettuoso e di una figlia forse prediletta, ma è soprattutto un’opera sul presente, un presente fuggevole, transeunte: il presente della pandemia, il presente della convivenza con la malattia (quella esterna che divora il mondo, e quella più vicina, che aliena la mente di chi è caro), il presente del congedo.

Se il volume precedente era rivolto verso l’esterno e univa alla riflessione un intento comunicativo, educativo, questo è prima di tutto un tentativo di far chiarezza a sé stessi (“C’è una storia, in questa storia? Mi perderò, se mi inoltro? Mi troverò, se mi inoltro? Ti troverò?”, p. 11).
Il lettore si trova di fronte a domande scomode, nessun tentativo di idealizzare, solo la verità di un dolore, che non pretende di essere universale, ma che può dire qualcosa a chi prova altri dolori, simili e al tempo stesso unici. La convivenza con il malato di Alzheimer è un’altalena, sono montagne russe: tanti bassi e pochi alti, qualche occasione in cui l’ironia dell’esistenza la riscatta, altri in cui la stanchezza pare prendere il sopravvento, mentre il corpo forte del malato resiste, la macchina rifiuta di fermarsi, e l’accudente quasi lo rimpiange (“sono l’anticamera dell’anticamera, questi tuoi giorni a casa nostra, e avrei preferito vederti defilare per una via laterale, imboccare un’uscita di sicurezza”, p. 74). Eppure nulla è peggio di dover lasciare la persona amata in una struttura specializzata, dove regna “la fretta del becchino” e nessuno ha tempo per informarsi sui trascorsi, le peculiarità del paziente. Per la figlia che affida il padre, si tratta di una lacerazione profonda, bruciante, unita alla consapevolezza che non sarebbe diverso in un altrove, in una struttura magari più umana, accogliente, perché ciò di cui ha bisogno il parente del malato, l’attenuazione della sofferenza e di un inestirpabile senso di colpa, è qualcosa che non si può trovare.

Francesca Magni esplora senza reticenze, e sperimentando diverse forme espressive, tutta la gamma del sentire. Questa è un’operazione fondamentale, perché chi circonda il figlio, costretto a rinunciare progressivamente a un genitore ancora vivo, fatica a comprenderne l’ambivalenza, soprattutto una volta che il malato non è più presente in casa, e il problema sembra quindi attutito, attenuato: 
essendosi risolta ogni difficoltà organizzativa, gli altri sono meno inclini a capire che io soffra, perché soffra. Anche per me è difficile, un dolore ineffabile che non so spiegare a me stessa. Cosa ho perso che piango con tanta disperazione? Cosa ho perso che non avessi già perso? (p. 117).
Per la narratrice, la storia invece che andare in avanti procede a ritroso, verso le cause, le ragioni, i sentimenti primigeni. Come regredisce il padre, che torna bambino, si fa figlio, così anche il tempo a tratti pare diventare reversibile ed è proprio mentre lo si guarda allontanarsi che si può ritrovare chi è perduto (“forse mai, nel corso della tua vita cosciente, mi eri apparso con tanta chiarezza. Dunque ringrazio la tua assenza per la tua apparizione, e la tua sparizione è certezza di ritrovarti”, p. 155).

Non può leggere Non so la notte chi sia in cerca di una morale, di una conclusione pacificante, di facili soluzioni. L’autrice sa bene, e giustamente, di non poterle dare e si limita quindi a chiudere, almeno sulla pagina scritta, il suo bilancio, in cui ciò che si è ricevuto risulta comunque sempre maggiore di ciò che si è dato. Anche nella malattia il padre ha portato doni, anche se serve uno spirito forte, non arreso, per rendersene conto, e forse ciò si può fare solo a posteriori.
Con uno sguardo acutissimo e la grande sensibilità per la parola che aveva contraddistinto anche la sua opera precedente, Francesca Magni ci porta ancora una volta a guardare al cuore profondo, pulsante, di una famiglia, la sua. Serve però forza, anche per chi legge, per guardare da vicino questa retrospettiva lucida, difficile, dolorosa, questa storia di un lungo addio.
 
     Carolina Pernigo