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#CriticaNera - Un amore impastato di morte nel nuovo "Léon" di Carlo Lucarelli

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Léon
di Carlo Lucarelli
Einaudi, 2021

pp. 210
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

 
 
Torna in libreria un nuovo romanzo di Carlo Lucarelli, che riporta sulla pagina nomi ben noti al lettore, come quelli di Grazia Negro, o di Simone, già protagonisti ad esempio di Almost Blue e Un giorno dopo l’altro (recensito qui). Li si ritrova qui però in situazioni inconsuete: la loro relazione è finita; Grazia ha appena avuto due gemelle da un donatore di cui non ricorda neanche il nome e non vuole tornare a lavorare con la polizia per concentrarsi sulla maternità:
Il Lupo mannaro, il Pittbull, il Cane, l’Iguana, ne aveva uno zoo pieno, e anche se una volta presi li dimenticava, perché a lei soltanto quello interessava, prenderli, non capirli, erano proprio le emozioni della caccia che le restavano dentro. Troppo. Allora aveva mollato tutto, Simone, la polizia, i suoi mostri, aveva preso un periodo di aspettativa da ogni cosa. (p. 11)
Simone, dal canto suo, ha smesso di ascoltare il mondo e si è rinchiuso sempre di più, prima in casa, poi in se stesso, nella gabbia di muscoli che continua a cesellare con un allenamento instancabile che gli ottunde il pensiero e quindi il dolore.
Ho sostituito l’udito, che per me è il senso più lungo, senza limiti, con quello più corto. Il tatto. Niente va oltre la mia pelle. I confini del mio mondo sono quelli del mio corpo. Esiste solo quello che sento sotto le mie dita, le curve solide che si spostano col movimento, le forme che cambiano sotto i polpastrelli. […] Sotto la pelle, dentro la pelle. Io vivo dentro. […] Un hikikomori del corpo. (pp. 15-16)
Le loro esistenze scorrono lontane, segnate dall’incomunicabilità. Poi però l’Iguana, il mostro che li aveva fatti incontrare un tempo, scappa dalla casa famiglia per degenti psichiatrici a cui è stato affidato, dopo aver barbaramente ucciso i suoi coinquilini. L’unica superstite, la fragile Marta, infermiera nella struttura, è troppo scossa per poter fornire indicazioni utili. Si teme quindi per la vita dei responsabili del suo passato arresto, che vengono prelevati dalle loro abitazioni e portati in una dimora sicura, di nuovo insieme dopo tanto tempo, ma ormai radicalmente cambiati.
Mentre la scia di sangue lasciata dall’Iguana si allunga, le indagini si complicano, sia perché appare il sospetto sempre più fondato di un complice, sia perché i responsabili, il vicequestore Carlisi e la comportamentista Anna Maria Cescòn, ciascuno geloso del proprio ruolo e del proprio ambito d’intervento, non riescono a cooperare e a condividere le informazioni in modo produttivo.
La trama procede attraverso fitti dialoghi tra i personaggi, e subitanee incursioni nella coscienza di alcuni di loro, grazie al passaggio alla narrazione in prima persona. Lucarelli padroneggia con disinvoltura diverse focalizzazioni e registri linguistici: quello duttile e multisensoriale di Simone; quello ricorsivo, ossessivo del killer, che più che all’universo dei rettili sembra riportare a quello più subdolo e strisciante dei roditori, facendo nascere nel lettore i primi sospetti che le cose non siano come sembrano.
C’è un che di irrisolto nella ricerca dei colpevoli, così come nelle vite di tutti i comprimari, qualcosa che disturba a un livello sottile e non del tutto conscio: l’impressione vaga, che scorre sottopelle, che qualcosa di importante stia sfuggendo all’attenzione. Anche i rapporti e le conversazioni tra Simone e Grazia appaiono in qualche modo fuori sincrono, a denunciare lo stato di lontananza che si è creato tra i due, nonostante l’affetto che ancora li lega. Lucarelli riesce a costruire un’opera il cui quadro generale si configura attraverso l’assemblaggio progressivo di tasselli isolati, che spesso coincidono con lampi di intuizione degli investigatori, spesso però tardivi.
La colonna sonora, come nei romanzi precedenti e come spiegato dall’autore stesso nei ringraziamenti finali, è fondamentale alla comprensione della vicenda e prova a dire il delirio dei personaggi, prima fra tutti la canzone Léon dei Melancholia, da cui deriva il titolo; solo apparentemente esterna alla trama, questa aiuta a darne improvvisamente una nuova lettura, soprattutto se ascoltata con i suoi ritmi sincopati e ansiogeni in coda all’opera, e con il testo integrale alla mano. Allo stesso modo Amandoti nella versione di NAIP dà voce all’angosciosa follia del killer, che anela a un amore che acquisisce significato soltanto nel momento in cui viene impastato di morte e violenza.
Non lo sapevo, prima. Non lo sapevo. Vorrei guardarti per sempre, ma non posso, vorrei tenerti dentro la mia bocca, vorrei stringerti con le mani fino a farti schizzare tra le dita. Non lo sapevo prima, non lo sapevo, ora lo so. Ora so cosa voglio. Voglio amarti. […] Amami. Amami. AMAMI. (pp. 52, 53)
Anche se questo romanzo può apparire meno coeso dei precedenti, anche dal punto di vista del procedere investigativo, Lucarelli si conferma maestro della tensione, che riesce a far crescere esponenzialmente e senza una diretta connessione con la successione degli eventi: così come i personaggi a tratti vengono colti da paure improvvise, quando si trovano a contatto col male, così anche il lettore viene assalito da un’inquietudine che non deve essere necessariamente spiegata razionalmente. Questa si coagula progressivamente intorno alla percezione sempre più vivida delle ossessioni del colpevole, fino a uno scioglimento finale che non riesce peraltro a dissiparla del tutto, né a sciogliere completamente i nodi insoluti che dominano le esistenze dei protagonisti, portandoci ad attendere, ancora una volta, un seguito.
 
Carolina Pernigo