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La crisi di una madre: "Un lupo nella stanza" di Amélie Cordonnier

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Un lupo della stanza
di Amélie Cordonnier
NN Editore, 2021

Titolo originale: Un loup quelque part
Traduzione di Francesca Bononi
 
pp. 254
€ 18,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)

 



Alban ha cambiato colore” (p. 25). Tutto è partito da una macchiolina rotonda, grande come un pisello, solo apparentemente innocua. In realtà per la madre senza nome protagonista del romanzo di Amélie Cordonnier, quel punto scuro sulla pelle del proprio bambino di cinque mesi presto si estende e diventa gorgo che risucchia, baratro in cui affondare. La constatazione pacata del medico (il bimbo è sicuramente meticcio) ha l’ineluttabilità della diagnosi di una malattia mortale, di una condanna al patibolo. La madre è costretta a ritornare sui propri passi, alle proprie radici, a rimettere in discussione la propria intera esistenza, tutto ciò che dava per scontato. Quello che inizialmente era solo un pungolo al centro del petto, un brutto presentimento, diventa trivella dell’anima. L’orrore della scoperta si colora di tinte più fosche nel momento in cui gli uomini della sua vita (il padre, che le ha nascosto per troppo tempo una verità fondamentale sul suo passato, e il marito che non sembra comprendere appieno il dramma che sta vivendo) sminuiscono il problema: non si rendono conto, loro, che il bambino sta diventando nero e che questo nero è un miasma contagioso, il segno di uno stigma sociale e personale (“Prova rabbia. Ma non solo. Anche una profonda vergogna. Inconfessabile, inspiegabile. Inespiabile”, p. 54).
Nella ostinata negazione della verità che le è stata rivelata sulle proprie origini, la protagonista concentra tutto il suo malessere su Alban, che ne diventa simbolo, ma che offre anche alla donna il pretesto per non pensare a quello che è il nucleo reale della sua sofferenza. L’analisi precisa, metodica della crisi di una madre viene condotta dalla voce narrante attraverso una implacabile focalizzazione interna:
Ciò che più la stordisce e la devasta sono l’incomprensione e la paura. La paura inconfessabile di non riuscire ad amare quel bambino, quel neonato dal colore indefinito, che non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con il figlio che avrebbe desiderato. [...] È svuotata. Non riesce a muoversi. È confusa, perduta. Sconcertata. (p. 30)
Se con la primogenita, Esther, tutto è stato naturale e quasi semplice, soprattutto l’amore e la tenerezza, adesso la donna si scopre incapace di replicare, svuotata di ogni istinto materno. Ogni gesto diventa forzato, artificiale, un atto di violenza verso se stessa.
Nel tentativo di allontanare da sé un figlio per cui prova sentimenti sempre più forti e negativi, di ostilità e a tratti di vera e propria repulsione, sprofonda in pensieri sempre più scuri, e il nero della pelle di Alban diventa forma della mente, riflesso del suo stato d’animo. La madre è angosciata all’idea che gli altri possano vedere la trasformazione inevitabile che sta coinvolgendo il piccolo, ha persino paura di fargli il bagnetto perché non è certa di poter rispondere di sé. Quella che si consuma a ogni pagina è la lotta della protagonista con la propria visione distorta del reale; il riferimento intertestuale con La Metamorfosi di Kafka è continuo: ogni volta che lei guarda ad Alban, lo vede trasformarsi in uno scarafaggio.
L’idea di spogliarlo la terrorizza. In pigiama, ancora ancora. Ma quand’è nudo, non riesce proprio a guardarlo. Chiude gli occhi. Conta fino a dodici, poi li riapre. [...] Davanti agli occhi, crocifisso sul letto, ha Gregor Samsa. Le zampette si agitano da tutte le parti. Allora lei aggrotta le sopracciglia e strizza gli occhi. Mette a fuoco. E tutto torna nitido. Lo scarafaggio è sparito. (p. 95)
Non potendo cancellare ciò che è stato, né restituire il bimbo e cambiarlo con uno più rispondente alle sue aspettative, la madre si arma di una mazzetta di campioni cromatici e inizia una sistematica misurazione del colore del figlio, per valutare scientificamente il progredire della mutazione. L’ossessione procede di pari passo con la depressione e l’alienazione dal mondo.
Cordonnier porta sulla pagina l’indicibile: il rifiuto fisico ed emotivo di una mamma per la creatura che ha messo al mondo. I pensieri di morte, la disperazione, l’autocondanna vengono presentati senza mezzi termini, anzi facendo ricorso a un linguaggio che esplora senza ritrosie i campi semantici della sofferenza e dell’abiezione. La madre si abbassa sempre di più, si mostra incapace di affrontare pregiudizi che non sapeva di avere, adotta comportamenti che hanno poco a che vedere non solo col materno, ma anche con l’umano. Non a caso si moltiplicano i paragoni presi dal mondo del bestiale ripugnante: 
Non può più permettersi di lasciare la mente libera di vagare. La terrà al guinzaglio. Bella stretta. Come un cane feroce. (p. 57);
L’angoscia la rode. Come un ratto schifoso che si insinua dappertutto, nel piatto, sotto il copriletto. E le impedisce di respirare di mangiare, di dormire. (p. 108)
Alla fine lo scarafaggio diventa lei, sempre più consapevole dell’abbrutimento in cui sta sprofondando e incapace di porvi (e porsi) un limite: 
A trecentocinquanta chilometri da casa, crolla. Vede tutto nero. E il nero la schiaccia. Non è altro che uno scarafaggio. La sua corazza si incrina. (p. 183)
Risulta difficile inizialmente comprendere l’utilizzo della parola commedia nella bandella di copertina. La scelta dell’editore acquista un senso nel contesto del romanzo solo facendo riferimento al concetto originario del termine, all’idea di un percorso che, dopo una discesa nell’abisso dell’animo umano, riporta verso l’alto per uno scioglimento in cui trova spazio una inaspettata redenzione. Per poter essere madre, la protagonista ha infatti bisogno di tornare momentaneamente a essere figlia, di guardare in faccia il vuoto che si annida nel suo passato e dentro di lei, di aprirsi a una vulnerabilità rinnegata. Nel viaggio che occupa la seconda parte dell’opera, si cela la chiave di una possibile soluzione:
Seduta lì, di fronte a lui, sua figlia di colpo torna a essere una bambina spaventata, divorata dalle domande, dai dubbi, dalla rabbia, dall’assenza, dall’incomprensione. (p. 210)
La donna comprende che affrontare il lupo è ciò che può renderla libera, che può riavvicinarla al figlio, che può aiutarla a fare chiarezza nel groviglio delle proprie emozioni. Riaprirsi all’amore per l’altro obbliga a confrontarsi con un quadro più ampio rispetto a se stessi ed espone inevitabilmente a dei rischi, non ultimo il razzismo endemico ancora ben presente nella società, prima sottovalutato e adesso percepito dalla protagonista in prima persona, e sulla pelle di Alban. Allo stesso tempo questo processo aiuta a riscoprire un lessico della tenerezza, un nuovo “bestiario” affettivo in grado di riportare le cose nella loro giusta dimensione.
Per raccontare la sua storia, l’autrice utilizza una lingua ricchissima, sfaccettata, piena di effetti sonori e giochi semantici che la brava traduttrice riesce a restituire anche in italiano, chiarendo le sue scelte in una nota finale. Sorprendono soprattutto i continui riferimenti al mondo delle fiabe, che vengono qui riprese nella loro valenza educativa non edulcorata, spesso brutale. A questo allude anche il titolo: il lupo è quello che sta in agguato non già dove ce lo si aspetterebbe, non nella foresta dove si starebbe naturalmente in allerta, ma nello spazio rassicurante della quotidianità, quello in cui ci si cala la guardia, convinti di essere al sicuro. Nel suo romanzo però Cordonnier non ci mostra solo le sue zanne acuminate, ma anche le armi che abbiamo per affrontarle: la verità, la vicinanza, la vita.
 
  
Carolina Pernigo