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#IlSalotto - Di arte, vita, dolore e conoscenza di sé: intervista a Giorgia Tribuiani

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Il 25 marzo scorso è uscito per i tipi di Fazi il secondo romanzo di Giorgia Tribuiani, Blu, di cui ho parlato qualche giorno fa. Incuriosito dallo stile dell'autrice, ho voluto affrontare anche il suo primo romanzo, Guasti, uscito nel 2018 per Voland. Sebbene le storie raccontate siano ovviamente diverse, alcuni elementi in comune possono essere rinvenuti: al di là dello stile unico di Tribuiani, entrambe le storie si focalizzano sul rapporto con l'arte quale elemento di conoscenza del mondo, come fosse una sorta di interlocutore al quale porre domande che raramente ottengono risposte ma che, tuttavia, ci dicono qualcosa su di noi.
Ho voluto dunque approfondire un po' di più, chiedendo all'autrice qualcosa sui suoi scritti, sulle sue idee, sulla sua visione del mondo.
 

Guasti (Voland 2018)

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Ho avuto modo di leggere in tempi ravvicinati i tuoi due romanzi, Blu (Fazi 2021) e Guasti (Voland 2018). In entrambi, le protagoniste si ritrovano ad approfondire la propria conoscenza del mondo dell’arte. Tu stessa, scrivendo, partecipi al gioco dell’arte. Che ruolo ha, secondo te, l’arte all’interno della vita di una persona?
Mi viene in mente un’affermazione di Fernando Pessoa, secondo la quale l’arte “è la confessione che la vita non basta”. In diversi momenti dell’esistenza l’arte può farsi specchio, aiutarci a comprendere che non siamo i soli a vivere determinate esperienze o ad avere determinati pensieri; può permetterci di rimanere dentro una sensazione, amplificandola con la musica o con parole in grado di entrare in risonanza, o di sfuggirle (e qui faccio riferimento a tutte le opere di evasione).
Basta essere fruitori dell’arte per poter ricevere dalle opere “altra esistenza”: io credo che la storia di ognuno di noi sia composta anche di altre storie, quelle delle persone che incontriamo lungo il cammino ma anche quelle che viviamo tramite l’arte, basti pensare a quanto i film, i libri, i fumetti che amavamo durante l’infanzia o l’adolescenza riescano a riportarci a quei periodi (certe canzoni, del resto, sono delle vere e proprie madeleine); se poi si partecipa anche al gioco dell’arte si ha inoltre la possibilità di creare un ponte, di fare almeno un tentativo – usando l’opera come territorio comune – di superare quel velo di incomunicabilità dovuto alle differenti esperienze della vita di ognuno.
 
Arte performativa, come quella di Marina Abramović, e plastinazione, tecnica controversa e affascinante inventata da Gunther von Hagens. Perché hai scelto due forme così particolari come elemento di (ri)scoperta di sé delle due protagoniste?
Ho scelto queste forme perché entrambe presentavano due caratteristiche molto particolari.
La prima, che è comune a buona parte dell’arte contemporanea, è il paradosso che rende certe opere estremamente concettuali (la plastinazione – che la si voglia o meno considerare una forma artistica – ci fa interrogare sulla morte, sul confine tra essenza ed esistenza; la performance art permette all’artista di veicolare significati a trecentosessanta gradi, dai più esistenziali a quelli legati a un impegno sociale) e al tempo stesso estremamente fisiche, legate al corpo che di questi concetti si fa veicolo.
La seconda, che ha sicuramente ristretto il campo della scelta, è il rapporto con il “limite” (inteso come confine tra la vita e la morte, ma anche – parlando appunto di performance art – come possibilità di superarlo con la resistenza fisica, con la concentrazione ecc.), che da sempre porta le persone (e i personaggi) a interrogarsi, a mettersi in gioco. E magari, come giustamente dici, a scoprirsi e ri-scoprirsi.
 
Verso la fine di Guasti compare una giovane ragazza dai capelli blu intenta a disegnare un ritratto. Avevi già in mente il personaggio di Ginevra/Blu, protagonista del tuo secondo romanzo?
È bello che tu l’abbia riconosciuta. Sì, la ragazzina dai capelli blu che Giada vede disegnare è Blu. Non era in quel bar, la prima volta che ho scritto la scena di cui parliamo; si è infilata lì con i suoi fogli mentre lavoravo all’editing di romanzo.
Guasti ha avuto una gestazione molto lunga, e negli anni trascorsi tra la prima stesura (risalente ormai a dieci anni fa) e la revisione finale è nata anche la primissima bozza di Blu. Così, durante l’editing, visto che in Guasti si parla di passione artistica e in Blu della genesi di questa passione, ho pensato che sarebbe stato bello far comparire la mia ragazzina dai capelli blu perché Giada – dopo essersi specchiata nel compagno, nel vigilante, nella sua stessa immagine presente nel bagno guasto – potesse confrontarsi anche con un’anima innamorata dell’arte ma non ancora toccata dalla delusione e dalla disillusione.
Detto questo, alla storia che racconto in Blu io pensavo davvero da tanto, da prima ancora di scrivere il primo romanzo: non riuscivo però a trovare la forma giusta per raccontarla. Perché alla fine è anche di questo che si tratta, no?, e che succede poi anche alla stessa Blu: a un certo punto il foglio non è più sufficiente, non riesce a “contenere” quello che lei ha da dire, e la sua arte scivola fuori, straripa.
 
Ho avuto modo di partecipare a due mostre Body Worlds, ed entrambe le volte ne sono uscito impressionato e arricchito. Guasti nasce proprio dalla tua esperienza con quella mostra. Cosa ha significato per te trascorrere del tempo in sale piene di corpi plastinati, corpi che un tempo erano persone reali e in quel frangente si offrivano a noi come oggetto di studio e riflessione?
La cosa che più ha attratto la mia attenzione e la mia curiosità, durante la mostra, più ancora dei corpi plastinati, è stato l’approccio dei visitatori. Se appena entrati – di fronte ai primi corpi – subivano un piccolo shock, poi a mano a mano, muovendosi nelle sale espositive, sembravano dimenticare di essere di fronte alla morte: indicavano un cuore (“guarda come è grande quello dello sportivo!”) o un intestino (“mamma mia quanto è lungo!”), ridevano di un paio d’occhi (“questo era un tossico!”), non diversamente da quanto raccontato nelle pagine di Guasti.
Credo fosse l’effetto della reiterazione – pensa alla scritta “il fumo uccide”: la parola “uccide” risulta totalmente desemantizzata, nella sua ripetizione – e dello sguardo: quelle persone erano lì per assistere a una mostra, si muovevano nei luoghi di una mostra, e avevano uno sguardo diverso da chi invece si trova di fronte alla morte perché si è recato al cimitero.
Mi chiesi, per questo, come sarebbero cambiati quei luoghi se a un tratto fosse entrata una persona mossa non dalla curiosità ma dal cordoglio: una persona pronta a riconnettere uno di quei corpi disabitati con la memoria della vita passata, a rendergli la sua umanità. Mi resi conto che volevo scrivere un libro (anche) sullo sguardo, sul suo potere di deformare le cose.
 
C’è un’esibizione di arte performativa che ti ha lasciato più segni di ogni altra?
Ho un debito nei confronti della performance Ecce (H)omo, Guerrieri di Kyrahm, che mi ha fatto toccare con mano la forza magnetica della performance art: era per me una delle primissime performance dal vivo e ruotava tutta intorno al tema del corpo – che, come avrai notato, è particolarmente presente nella mia poetica – ma in ogni caso non ero pronta a rimanere così tanto avvinta, né all’idea che, dopo la performance, una tale carica emotiva sarebbe rimasta insieme a me. Se ho saputo descrivere la fascinazione che Blu prova di fronte alla prima performance della sua vita, è in buona parte grazie a ciò che anche io ho provato quel giorno.
Altre performance a cui devo molto sono quelle di Flavio Sciolè. Nella sua arte sono ricorrenti le ripetizioni e le inceppature, e l’ossessione è sempre di casa: potrei dire che se nella performance di Kyrahm avevo trovato (e Blu aveva trovato) uno specchio per la tematica del corpo, in quelle di Sciolè ho invece trovato (e Blu ha trovato) un punto di riferimento relativo al linguaggio. Non a caso entrambi gli artisti compaiono nelle immaginazioni di Blu accanto alla Abramovic, alla Salle, a Stelarc, come i principali modelli.

Blu (Fazi 2021)

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Torniamo alla scrittura. Che cos’è per te la scrittura? O meglio: che cosa significa per te l’atto di scrivere, e come lo vivi?
Il mio rapporto con la scrittura passa un po’ per le parole che, in Guasti, Giada rivolge al vigilante del piano di sotto nel suo breve monologo sull’arte: per me scrivere è “il tentativo di fermare qualcosa di vero e la speranza che qualcuno si fermi a guardarlo”, ma anche “prendere il proprio dolore, la propria disperazione, e provare a convertirli in bellezza, trovare al male un senso e una posizione; una giustificazione”.
Scrivere può quindi essere salvifico? Ecco, io questo non lo so; quello che so è che mi ha permesso di guardare quelle parti di me, o quelle mie paure, che prima mi sembravano mostruose, inaccettabili, e forse questo è in fondo un tipo di salvezza.
Blu contiene molte delle mie ossessioni, delle mie fragilità. È stato difficile scriverlo, più volte ho sfiorato l’identificazione (a volte, dopo lunghe sessioni di scrittura, non riuscivo bene a capire quali emozioni fossero le mie e quali quelle di Blu, ed era un tormento), ma in questi giorni mi specchio nelle parole dei lettori e vedo tutto quel dolore e quelle immaginazioni accolti, e imparo ad accoglierli anch’io.
 
Domanda di rito per concludere la nostra chiacchierata: hai altri progetti in cantiere? Possiamo avere qualche piccola anticipazione?
Sto lavorando a un terzo romanzo che approfondisce un tema al quale accennavo parlando dell’arte, toccato in parte anche in Guasti e in Blu: quello dell’incomunicabilità. Non mi riferisco, però, a quell’incomunicabilità che in qualche modo può essere imputata a un disinteresse da parte di qualcuno, a una mancanza volontaria di ascolto, ma a quella più sofferente (e mi viene da dire “fisiologica”) di chi vorrebbe comprendere l’altro ma – per differenti esperienze, per differente sensibilità – è costretto a rimanere a distanza, a non poter penetrare nel suo mistero.

David Valentini