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«Solo il cielo sa perché lo amiamo tanto»: la vita, Le ore, il romanzo capolavoro di Michael Cunningham

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Le ore
di Michael Cunningham
nuova edizione La nave di Teseo, aprile 2020

Traduzione di Ivan Cotroneo

pp. 272
€ 7,99 (ebook)

Sono passati più di vent’anni dalla prima pubblicazione de Le ore, il romanzo capolavoro di Michael Cunningham, e a volte ancora mi chiedo perché continuiamo a scrivere, perché continuiamo a leggere, consapevoli che difficilmente ci si avvicinerà alla perfezione di questo libro che è un mondo. L’ho ripreso in mano a inizio anno, a distanza di molto tempo ed esperienze maturate tanto nella professione quanto nella vita, lo riprendo ancora una volta in queste settimane strane di reclusione forzata mentre esce in una nuova edizione rivista e aggiornata per La nave di Teseo, sempre nella magnifica traduzione di Ivan Cotroneo e con una nuova prefazione a cura dell’autore.
Ecco, lo riprendo ancora tra le mani e l’incanto non si è spezzato. È davvero un libro straordinario, come pochi altri, capace di trascendere il tempo e lo spazio e a ogni lettura arricchirsi di nuovi spunti di riflessione (qui trovate per esempio le impressioni di Ilaria Pocaforza a partire dalla versione audiolibro). Era così vent’anni fa quando per la prima volta è apparso valendo al suo autore il premio Pulitzer per la narrativa, è così oggi e con buone probabilità lo sarà anche in futuro. Eppure, stranamente, è un libro che era rimasto a lungo sul mio comodino in attesa di essere letto: avevo visto e apprezzato il film che ne è stato tratto e ricordo ancora il senso di angoscia e sofferenza portate sullo schermo con tanta grazia da una Nicole Kidman da Oscar, come infatti fu; lo avevo sfogliato più volte con l’intento di iniziarlo, tra la curiosità e lo scetticismo per l’ardito accostamento con La signora Dalloway di Virginia Woolf, un testo che per molti versi è stato decisivo per me, ma questa è un’altra storia. Non era mai il momento adatto. Poi le riflessioni e le chiacchiere intorno al libro sono andate via via scemando, come è naturale, con vergognoso ritardo l’ho letto e, come dicevo, ripreso più volte, amandolo molto.

Il progetto era ambizioso e, come rivela lo stesso Cunningham nell’interessante prefazione, ha richiesto tempo per delinearsi in quello che è il romanzo come lo conosciamo, l’intreccio di tre vite, tre donne distanti nel tempo e nelle scelte, il cui unico fil rouge all’apparenza sembra essere appunto La signora Dalloway di Virginia Woolf: è il libro che l’autrice sta scrivendo nel 1923, lei stessa straordinario personaggio del romanzo di Cunningham, è il nomignolo con cui viene affettuosamente chiamata Clarissa l’editor newyorkese di fine millennio, è il romanzo da cui viene totalmente rapita Laura Brown e che la distoglie per qualche momento dalla frustrazione della sua vita di casalinga, moglie e madre nella California degli anni Cinquanta. E come nel testo di Woolf, è una sola giornata il cuore della narrazione, un singolo giorno nelle vite di queste tre donne che ne rivela l’esistenza tutta, i drammi, le scelte, l’inafferrabile senso. Ecco, inafferrabilità, è la parola chiave di questo romanzo, quantomeno nella mia lettura: dell’amore, che muta, sfugge, diverso da come lo immaginavamo da giovani; della scrittura, che tormenta Virginia, alla ricerca della perfezione, perché «Si ha sempre in mente un libro migliore di quello che si riesce a mettere sulla carta»; della vita stessa, momenti in cui per un breve istante sembra rivelarsi il senso, la bellezza, la poesia.

La prima volta che ho letto Le ore, ho pensato fosse un libro molto cupo, velato di una malinconia che trovavo angosciante; forse ero soltanto giovane e come tale ragionavo per assoluti. C’è in realtà in questo romanzo un così complesso intreccio di sensazioni, tematiche, spunti, che a seconda del nostro sguardo si rivelano. Quello che mi colpisce ora, contrariamente alla prima lettura, è la grazia di certi momenti: la sensibilità di Clarissa, il suo amore per la vita e la sua benevolenza, Richard che alla vita e al suo ideale di Clarissa stessa ha dato forma nella poesia, nel tentativo di liberarsi dai fantasmi che lo tormentano, Virginia che insegue sulla pagina i suoi pensieri, le voci per un attimo pacificate, nell’incanto della scrittura, della vita, dell’amore, Laura che tra le pagine trova sé stessa e per un istante si riconosce.
Eppure lei ama il mondo così rude e indistruttibile, e sa che anche gli altri devono amarlo, i poveri come i ricchi, anche se nessuno sa chiarirne le ragioni. Perché altrimenti combattiamo per continuare a vivere, non importa quanto compromessi, non importa quanto feriti? […] ancora, vogliamo disperatamente vivere. ("La signora Dalloway", p. 17)
Prima del caos, prima che quel senso di tragicità imminente che attraversa tutto il romanzo si faccia reale, prima della rovina c’è un perfetto momento di pace e grazia e bellezza. Cunningham costruisce tre personaggi femminili complessi, meravigliosi ognuno con le proprie peculiarità, a partire dalla scrittrice leggendaria che di certo non era facile delineare sulla pagina ma che riesce egregiamente in questo gioco di ricerca e sospensione letteraria. Virginia Woolf colta nel momento di massima vulnerabilità, lo sguardo già a contemplare l’abisso, per poi tornare indietro, ai momenti in cui scrivere era ancora possibile, alle piccole fughe a Londra, che sono la vita:
Sta meglio, è più al sicuro, se resta a Richmond; se non parla troppo, se non scrive troppo, se non prova troppe sensazioni; se non si reca precipitosamente a Londra e cammina per le sue strade; eppure così sta morendo, sta morendo delicatamente su un letto di rose. Meglio, davvero, affrontare la pinna nell’acqua che vivere nascondendosi, come se la guerra fosse ancora in corso […]. ("La signora Woolf", p. 128)
Virginia, alla ricerca di una perfezione irraggiungibile. Quante volte ci siamo confrontati con quel tipo di frustrazione? Un modello, un ideale cui aspirare, nella scrittura, nell’aspetto, in ciò che pensiamo ci si aspetti da noi. Con il rischio di costruirsi una gabbia da cui non è facile venire fuori. Laura Brown, il fantasma personale dell’autore, in quella gabbia di perfezione casalinga rischia di morire o fare male.
Per un momento lei vuole solo andarsene – non fargli del male, non lo farebbe mai, ma essere libera, innocente, irresponsabile. ("La signora Brown", p. 63)
Piccoli scatti, dettagli fuori posto, rivelano appena l’abisso di disperata solitudine e frustrazione in cui si muove, una donna che aspirava a qualcosa di più di una tranquilla regolarità. Si, un uccellino in gabbia è l’immagine che ho da sempre di Laura Brown, il personaggio forse più controverso di questa storia e, per certi versi, quello che ha reso possibile il romanzo nella forma in cui lo conosciamo, come si intuisce dalla già citata prefazione. Lei, che in apparenza ha tutto quello che siamo abituati a riconoscere come necessario alla felicità, una famiglia, una bella casa, vicini gentili, un buon grado di libertà e tempo per sé stessa. Un marito gentile, ma sposato perché “come potevi rifiutare un eroe tornato dalla guerra”, un bambino troppo sensibile e attento agli impercettibili cambiamenti d’umore della madre, un altro in arrivo. La tensione che Cunningham crea nelle scene in cui compare Laura è tangibile, la tragedia in agguato. Conosciamo il tormento di Virginia Woolf, sappiamo bene quale tragico finale avrà la sua storia nella realtà, ma Laura è un mistero, per la sua natura letteraria, ed è forse il personaggio più affascinante del romanzo e il più inaspettato.

A partire da queste tre donne, Cunningham intreccia una profonda riflessione su arte e vita, sul peso dei fantasmi del passato e i traumi che ci portiamo dentro, sull’amore e le differenti forme che può assumere – bellissime, in questo senso, le riflessioni sull’amore giovane, potente e chiaro come mai più potrà essere – , sulla malattia mentale, il suicidio, il deperimento del corpo, sulle ossessioni che ci tormentano, su ruoli e aspettative. Sugli istanti che si illuminano di senso quando tutto il resto sembra sfuggevole, inafferrabile. Ed è, ovviamente, un grande omaggio alla scrittura, ai suoi demoni, alla letteratura capace almeno per un istante di restituire il senso delle cose. Alla bellezza, nonostante tutto.
C’è solo questo come consolazione: un’ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni probabilità e aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato, anche se tutti tranne i bambini (e forse anche loro) sanno che queste ore saranno inevitabilmente seguite da altre molto più cupe e difficili. E comunque amiamo la città, il mattino; più di ogni altra cosa speriamo di averne ancora. Solo il cielo sa perché lo amiamo tanto. ("La signora Dalloway", p. 166)


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Di Debora Lambruschini