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#PLPL19 - La maternità è il grande tabù dei giorni nostri. Intervista a Daisy Johnson.

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Daisy Johnson è una giovanissima autrice che a soli 27 anni è stata candidata al Man Booker Prize. Una scrittrice promettente, che la critica e l’attenzione del mondo editoriale e intellettuale anglosassone tiene d’occhio da molto tempo e che è arrivata in Italia per la prima volta con Nel profondo (Fazi Editore), il romanzo che le ha assicurato la nomina al premio. L’abbiamo incontrata all’ultima edizione di Più libri più liberi, nella prima vera giornata di caos nella fiera, un sabato mattina assolato e carico di energie. Spesso quando inizio un’intervista cerco di mantenere una certa distanza, non sicura del modo di rapportarsi degli scrittori con la stampa. Questa volta invece è bastato un solo sguardo e il sorriso della giovane per farmi capire di poter parlare con lei senza barriere, né culturali né linguistiche. Del resto siamo coetanee (anche lei è nata nel 1990) e guardandola con le sue guance arrossate per il freddo e gli stivali da biker con gli strass il peso immenso del contenuto del suo romanzo, sia linguistico ma soprattutto contenutistico, si è dissolto in un attimo. Quale magia e potenza risiede nella scrittura!

A un lettore attento non sfugge certamente che Nel profondo abbia degli stretti legami con la tragedia greca, in particolare il mito di Edipo. Ti va di spiegare in che modo questo background culturale abbia influenzato la scrittura del romanzo?
Quando ero una bambina ho vissuto per un anno a Cipro e già da allora ero come ossessionata da tutto ciò che era mitologia. Ho sin da subito letto molto, ascoltato molto e cercato informazioni sulle storie del mito greco e sono sempre stata affascinata dal fatto che siano storie così strane, bizzarre e oscure. Ma ancora di più di questo, forse, mi ossessionava l’atto di ri-raccontare, che ho sempre considerato un atto distruttivo. Mi piace l’idea che qualcosa possa essere originariamente costruita in un modo in un racconto e poi possa essere distrutta e ricostruita di nuovo in nuove forme. Dato che una delle forme di racconto che mi interessa di più e che ultimamente si è diffuso è la narrazione femminista, mi interessava prendere il mito di Edipo e scoprire come ricostruirlo in quest’ottica, cioè prendendo quello che mi interessava e lasciando da parte quello che non mi interessava.

Il rapporto tra Sarah e Gretel, madre e figlia, è uno scontro tra due fortissime personalità. In che modo ti sei rapportata, da scrittrice, con queste due figure?
Tutto quello che scrivo in realtà parla di donne e di relazioni tra donne e questo ovviamente a che fare con le relazioni delle donne che ci sono state nella mia famiglia. Il momento in cui ho scritto questo libro era un momento in cui stavo combattendo con i miei personali istinti materni ed ero interessata a scrivere di una figura materna, Sarah, che però non fosse l’immagine classica della mamma, che non avesse le caratteristiche specifiche della maternità. Ma Nel profondo è anche un libro che parla del modo in cui le cose che facciamo inevitabilmente ci indirizzano verso una strada che guiderà la nostra vita. Nel romando questo si vede soprattutto nel linguaggio. Gretel e Sarah condividono un linguaggio segreto che indirizza inevitabilmente la vita di Gretel: da piccola crede che questo linguaggio sia una cosa che rende uniche, mentre crescendo scopre che invece la costringe all’isolamento e alla solitudine.

E proprio la maternità spicca tra i temi toccati nel tuo romanzo, molti dei quali vicini agli angoli più bui dell’animo umano. Sarah non ha alcun istinto materno, come tu stessa dicevi, e il ruolo della mamma non le appartiene affatto: credi che la maternità sia l’ultimo tabù, oggi, per una donna?
Sì, senz’altro, la maternità oggi è un tabù, sia quando si parla delle donne che non accettano e non vogliono questo ruolo, sia di quelle che non possono avere figli. Nel Regno Unito ci sono delle parole terribili che identificano le donne che non hanno figli, non possono o non vogliono averli. Mi interessa molto scoprire in che modo la maternità e tutto l’immaginario che le ruota attorno identifichi e definisca una donna, anche a livello professionale. 

Nel profondo
di Daisy Johnson
Fazi, settembre 2019
Traduzione di Stefano Tummolini

pp. 276
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Gretel si occupa di aggiornare i lemmi delle parole sul dizionario e il linguaggio è una parte fondamentale del tuo romanzo. Spesso si registra una scrittura spietata, precisa, inquietante: come sei arrivata a questa precisione sulla pagina? Quale è stato il processo creativo?
È stato così: scrivere una bozza e poi cancellare tutto e farlo almeno sette volte. E piangere, nel frattempo (ride). Ma tra la scrittura e la cancellazione ho trovato il mio modo di raccontare questa storia. È interessante notare che nel primo libro e nel prossimo, il terzo, la scrittura sia totalmente diversa, anche proprio nella struttura della frase. Questo perché ogni storia trova la sua strada e il suo modo di essere raccontata. Adoro il fatto che tu abbia usato la parola "inquietante" per descrivere il linguaggio del mio romanzo perché tutto ciò che scrivo è effettivamente inquietante e quando scrivo voglio essere in grado di trasmettere un crescendo di inquietudine, anche raccontando cose normali. Ad esempio, se un personaggio sta semplicemente mangiando un panino, voglio che il lettore pensi sempre che qualcosa di terribile sia dietro l’angolo.

E parlando di inquietudine, non possiamo non menzionare il Bonak, l’essere di cui Sarah e Gretel sono terrorizzate. Sarebbe corretto descriverlo come la metafora di tutte le nostre paure? Se così fosse, la scrittura sarebbe un modo per esorcizzare le proprie?
L’aspetto a cui sono molto attenta nella mia scrittura è quello dell’ambiguità; sì, è vero che il Bonak è la concentrazione di tutte le paure che ogni personaggio vede in lui. Per costruirlo non mi sono soffermata nell’immaginarlo concretamente, quanto nel descriverlo come poteva apparire nella mente del lettore. Il Bonak è diverso per tutti: ecco perché non è importante dire com’è fatto. L’idea della scrittura che hai detto è davvero molto bella ed effettivamente, quando sto scrivendo, io stessa sono molto spaventata, sempre impaurita, e non è raro che la notte abbia degli incubi e non riesca a dormire. Insomma, quando scrivo un romanzo non sono una bella persona con cui vivere (ride)!. Poi quando la storia prende vita sulla pagina e tutto si è concretizzato, provo un senso di pace e di sollievo.

Tu scrivi sia romanzi e che racconti (con la sua prima raccolta Fen ha vinto nel 2016 l’Harper’s Bazaar Short Story Prize, l’A.M. Heath Prize e l’Edge Hill Short Story Prize): come cambia, se cambia, il tuo approccio alla scrittura in una forma e nell’altra?
Sì, ho iniziato la mia vita d scrittrice scrivendo racconti e ovviamente ci sono due attitudini diverse nelle due forme letterarie. Non sono la prima a dirlo, ma mi piace molto l’immagine che spesso viene usata per descrivere i due processi di scrittura: scrivere romanzi è una maratona, mentre scrivere racconti è una gara di velocità. Il romanzo è un lavoro che porti con te per anni, l’importante è essere sempre gentili con se stessi e darsi tutto il tempo per pensare e riflettere. Mentre con il racconto puoi permetterti di inseguire l’istinto e procedere con più velocità; magari tutto è pronto in due giorni. Pensa che all’inizio rivedevo anche i racconti più volte, adesso mi rendo conto che sempre più spesso quello che butto giù la prima volta è già la versione definitiva della storia. Un mio romanzo, invece, dalla prima all’ultima stesura è irriconoscibile.

Intervista a cura di Debora Lambruschini e Federica Privitera