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Le falle della memoria: il nuovo romanzo gotico di Silvio Raffo

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Il segreto di Marie-Belle
di Silvio Raffo
Elliot, 2019

pp. 142  
€ 16,50 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook) 


C'è un'urgenza, ne Il segreto di Marie-Belle, che viene dichiarata fin dalle prime righe dalla narratrice interna, Aurelia: la storia deve essere raccontata prima che le vertigini della sua mente e le ombre che le offuscano la vista abbiano la meglio. Non manca molto, ed è fondamentale ricostruire, affidandosi a una memoria sempre più fallace, il "perno segreto", il "punto oscuro" (p. 7) attorno a cui ruotano le disgrazie della famiglia Daumier-Zeller. 
Aurelia, tutrice e poi assistente personale della fragile Marie-Belle, dagli anni della sua infanzia fino all'età adulta, racconta in un’ottica retrospettiva, da molto tempo ormai segregata a Villa Sorriso, quella che apparentemente sembra una semplice casa di riposo, ma si rivela in realtà un "elegante manicomio" (p. 52). Mentre i ricordi riemergono dal passato frammentari e incerti, e si definiscono progressivamente attraverso una lenta messa a fuoco, ci si rende conto con chiarezza che Aurelia è soprattutto una narratrice inaffidabile: non solo perché l'età avanzata ostacola effettivamente la ricostruzione organica e lineare degli eventi, ma soprattutto perché la sua labilità psichica la porta a omettere, addirittura a celare alla propria stessa coscienza, i dettagli sgradevoli, i fatti che contrastano con i suoi desideri e la sua visione idilliaca del reale.
Perché per Aurelia Marie-Belle rappresenta l'innocenza da proteggere a ogni costo: anche lei, come l'istitutrice e poche altre anime limpide (il giardiniere Honoré, forse il dottor Boni di Villa Sorriso), fa parte di un gruppo di eletti, di incontaminati, troppo spesso minacciati dal mondo. E le tragedie si abbattono con frequenza inquietante intorno alla giovane donna: prima il suicidio di Madame Geneviève, sua madre; poi il tragico incidente dell'autista Werner, che da un po' di tempo guardava Marie-Belle con una "luce torbida", un'"ombra insidiosa" (p. 46) nello sguardo; la morte del padre, l'Avvocato, e infine l'incendio durante il quale soccombe l’affascinante Max Cherubino, reo di aver trascinato la ragazza su una cattiva strada...
I tentativi incerti e continuamente interrotti di ricostruire le dinamiche della storia da parte di Aurelia si alternano a brevi squarci su un presente desolato, in cui l'anziana riflette sui rapporti con la sua pupilla, mentre osserva dalla finestra il lago e quel che resta, sulla sponda opposta, dei luoghi in cui la "stagione fatale" (p. 14) si è consumata. 
Uno dei problemi discussi dal testo è quello relativo alla definizione del concetto di amore, troppo spesso frainteso, o distorto da parte dei protagonisti. 
Anche in questo caso, come ne La voce della pietra (qui la recensione), si indagano le ambiguità dei rapporti di accudimento. Per Aurelia non esiste vita al di fuori della villa dei Werner, La Protégée ("ogni giorno alla Protégée sembrava avanzare immobilmente all'insegna della luce, della bellezza", p. 27); soprattutto, non esiste vita lontano da Marie-Belle:
Non mi ero mai soffermata a formulare ipotesi sul futuro di Marie-Belle, né col pensiero né tanto meno verbalmente. Ero convinta che la perfezione del nostro rapporto non avrebbe subito alterazioni di sorta: nessun agente esterno avrebbe potuto soffocarne l'intima resistenza. Se mai Marie-Belle si fosse dedicata a un qualche lavoro, io sarei stata al suo fianco. Non ero forse la sua fedelissima ombra? (p. 60)
Il rapporto tra le due è totalizzante e simbiotico quando Belle è una bambina, diventa però sempre più claustrofobico e soffocante mentre cresce e si ribella in nome di un’autonomia che, dopotutto, non sembra volere realmente. La stessa Aurelia ripete a più riprese di essere stata l'ombra della sua pupilla, e il lettore si interroga sulle cause e le implicazioni di una vita condotta interamente per interposta persona, trovando nella capacità di analisi psicologica dell'autore delle risposte convincenti. 
Il breve romanzo procede grazie a una prosa composta ed elegante di matrice classica, che rifugge gli estri e gli slanci creativi e si affida a una fine cesellatura della parola. Appare ancora una volta naturale il paragone con Shirley Jackson, già proposto in passato e qui più preciso: nella visione alterata, a tratti ingenua, di una narratrice troppo coinvolta nelle vicende per poter essere obiettiva, nell'effetto di straniamento e nella sottile angoscia suscitata nel lettore, che raccoglie e assembla indizi accuratamente disseminati nel testo, si ritrova molto di un gioiello come Abbiamo sempre vissuto nel castello (qui la recensione). Silvio Raffo si conferma con questa prova uno scrittore di garbo, che conosce la tradizione e ci si inserisce con delicatezza ed equilibrio, approdando a una conclusione che si può in parte prevedere, ma che non risulta per questo meno agghiacciante o efficace.  

Carolina Pernigo







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