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#CriticaLibera - Noir contemporaneo: dov’è la Letteratura?

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Qualche domenica fa, Javier Marías scriveva su El País che la letteratura contemporanea è sempre più deludente, in particolare perché chiunque abbia vissuto un qualsiasi dramma si sente in obbligo non solo di scriverlo (che potrebbe pure essere terapeutico), ma anche di pubblicarlo e venderlo. Marías ammette di essere un’eccezione, visto che di questa letteratura patetica (da pathos) c’è grande richiesta e gli editori cercano storie di violenza familiare, esclusione, emarginazione, discriminazione, ecc. L’autore della serie degli Innamoramenti chiude il suo intervento affermando che, ormai, scrittori ed editori guardano quasi esclusivamente al contenuto, mentre la forma viene ignorata. 

Parlando di Antonio Tabucchi, Andrea Bajani su La Repubblica del 22 ottobre scorso scriveva che l’opera dell’autore toscano è
“l’evidenza di quanta bellezza e quanto turbamento insieme produca l’Inquietudine, intesa come quel dispositivo brevettato da Fernando Pessoa, che fa sì che tra la realtà e il suo traverso sulla pagina ci si metta di mezzo l’immaginazione. Che cioè la letteratura sia il sogno che un’epoca produce, e non sempre i sogni sono sogni d’oro”.
Il valore aggiunto di Gomorra, un romanzo di non finzione, è, paradossalmente la presenza dirompente della Letteratura, nel senso più alto del termine. La Letteratura nel primo libro di Saviano sta tutta nella forma, grazie a una prosa che crea una certa distanza tra ciò che viene narrato e il lettore, che sospende la sua incredulità e si cala nell'universo ricreato nel testo. Si tratta di un universo inquietante, un sogno che, come dice Bajani a proposito di Tabucchi, non è affatto d'oro, ma cionostante appare talmente perfettamente orchestrato da risvegliare qualcosa che, nel momento in cui il lettore chiude il libro, rende più consapevoli, attiva un'interpretazione diversa della realtà che ci circonda.

Ho citato Gomorra non perché sia un caso unico, ma perché rientra nella narrativa criminale, quella grande famiglia che comprende anche generi come il thriller e il noir, e che negli ultimi anni ha fatto ampio uso di stratagemmi narrativi simili ponendosi obiettivi simili a quelli del testo di Saviano. Tuttavia, qualcosa stride nel panorama delle crime stories italiane e questo qualcosa è la collana Nero Rizzoli. Nata sotto buoni auspici, e ormai giunta a tredici pubblicazioni, possiamo affermare che non si capisce bene quale sia l'idea di fondo del progetto, se non quella di andare a pescare in casa d'altri (Einaudi, e/o, Garzanti, ecc.) nomi dal successo quasi garantito e metterli sotto lo stesso ombrello. Un'operazione di marketing in piena regola, che si palesa nell'assenza di un fil rouge che possa tenere insieme narrazioni diverse e distanti come, per esempio, Un piede in due scarpe di Bruno Morchio (un poliziesco di stampo classico) e Lo stupore della notte di Piergiorgio Pulixi (thriller). La distanza tra i due romanzi citati non è solo nel genere, che non sarebbe un problema, anzi, sarebbe un valore aggiunto, ma lo è soprattutto nella qualità. Del testo di Morchio abbiamo parlato a suo tempo: lo scrittore genovese sperimenta senza snaturarsi, si emancipa dal personaggio di Bacci Pagano con una prova più convincente de Il testamento del greco (Rizzoli, 2015) e restituisce al lettore un poliziesco equilibrato, di stampo classico ma a suo modo originale. Lo stupore della notte, al contrario, è un romanzo zoppo: non vi è traccia di turbamento, inquietudine, bellezza e anche l’orrore della strage, l’insensatezza del fanatismo religioso e il razzismo latente in molti personaggi sbirri appaiono forzati, costruiti. È strano da dirsi, ma più che la prova di un autore neanche quarantenne, questo romanzo appare come un testo scritto di mestiere da uno scrittore navigato. E perde di leggerezza, che poi è l’ingrediente fondamentale della bellezza in Letteratura e nella vita, come ricordava Italo Calvino nelle sue Lezioni americane.

Insieme con Sara al tramonto (Maurizio De Giovanni), inoltre, Lo stupore della notte è stato presentato da Rizzoli come la nuova frontiera del noir al femminile, per via dei due personaggi principali che animano le narrazioni: Rosa e Sara. Viene da chiedersi, però, se davvero siamo di fronte a dei noir al femminile, dove l’autore rimane comunque un uomo che restituisce della donna investigatrice una visione filtrata dal suo immaginario maschile. A ben leggere, sia Rosa che Sara sono imprigionate nella loro condizione di donne-sbirro dall’amore nei confronti di un uomo che non può corrisponderle: perché in coma nel caso di Lopez, perché morto nel caso di Sara. Ed entrambe sviluppano un forte senso di colpa nei confronti della disgrazia capitata ai loro rispettivi ex compagni. Si tratta di una visione stereotipata della donna, vittima dell’amore romantico in cui si sente intrappolata e che non riesce ad emanciparsi da una figura maschile di riferimento: a un certo punto Rosa Lopez si chiede perché non abbia mai lasciato la polizia e la risposta che si dà è in un letto d’ospedale, dove giace in coma l’ex compagno, nei confronti del quale ha sviluppato una devozione quasi ossessiva. Devozione che, tuttavia, viene ridimensionata quando Rosa inizia una relazione con Alessandro Reale, il medico proprietario della clinica in cui è ricoverato l’uomo che ama, o amava. Nei suoi confronti la donna poliziotto sviluppa una dipendenza quasi ossessiva, incapace di resistergli cede a ogni suo tentativo di seduzione, affascinata dal lusso e dall’eleganza che il medico possiede. Reale diventa l'elemento che mantiene Rosa Lopez in equilibrio. Del resto, si legge a pagina 158, “A volte anche lei aveva bisogno di sentirsi una donna; di scoprirsi bella, corteggiata, desiderata”. Il narratore scade, senza troppi complimenti, nel più ossidato immaginario maschile e restituisce un’immagine della donna che è lontana anni luce da quella che dovrebbe essere la nuova frontiera del noir al femminile. Davvero troppo poco per una collana ambiziosa come Nero Rizzoli e che, a proposito di questioni di genere, non ha ancora pubblicato nulla firmato da una donna. 

Come Javier Marías, mi rendo conto di rappresentare un'eccezione, visto il successo che sta avendo la collana Nero Rizzoli. Ciononostante, vorrei porre una serie di interrogativi, cercare di mettere un dubbio ai lettori che hanno avuto la pazienza di arrivare fin qui: dov’è finita la Letteratura nel noir? Dove quell'elemento che fa di romanzi come Il giorno della civetta di Sciascia dei testi universali, dei classici che hanno sempre qualcosa da dirci? Dobbiamo davvero rassegnarci a veder diventare obsoleto un romanzo noir (o thriller) dopo appena 6 mesi dall'uscita?

Nel 2010, in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura, Mario Vargas Llosa ricordava che nel romanzo anche l’orrore appare talmente perfetto da disvelare al lettore le imperfezioni del mondo che lo circonda. Questo è il ruolo della Letteratura, anche di quella di genere, e soprattutto in un genere come il noir che si è caricato sulle spalle l’onerosa responsabilità di raccontare la realtà, di mostrarne le piaghe più oscure e di risvegliare lo spirito critico del lettore. Questa fuga dal proprio ruolo non è solo un problema della collana Nero Rizzoli, ma è ampiamente diffuso e in maniera preoccupante. Sono sempre più numerosi gli scrittori che sostengono di non essere intellettuali, forse per mettersi al riparo da una critica che va oltre una lettura superficiale del testo, o, ancor peggio, per non farsi carico delle proprie idee e difenderle davanti ai lettori, che potrebbero rimanerne delusi. Tuttavia, le due cose vanno insieme: non si può fuggire dalla responsabilità pubblica che la Letteratura impone; si sceglie di essere scrittori e si diventa, in questo modo, coscienza pubblica di un Paese. Perché sono gli scrittori a raccontare l’Italia di oggi (insieme a giornalisti, saggisti, accademici, ecc.) e sarà sui loro libri che gli italiani di domani andranno a cercare le risposte alle domande che si porranno per capire il loro presente. Lo sapevano bene Pasolini, Moravia, Sciascia, Eco, Calvino. Per questo continuiamo a leggerli e rileggerli: l’Arte non dovrebbe mai essere fine a se stessa.

Alessio Piras