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La letteratura come legna da ardere: "Manaraga" di Vladimir Sorokin

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Manaraga
di Vladimir Sorokin
Bompiani, 2018

pp. 224
€ 17


Tocca al manzo Kobe con L’adolescente. Una bistecca di discreto spessore, non di arrachera. Il libro è in edizione economica. Con sottile e pregiata carta di Lubecca della fine del diciannovesimo secolo. Dovrò leggere il più veloce possibile, “in diagonale”. Una lettura così è come un volo acrobatico […]. È una lettura impavida. Noi diciamo che “ti avvampa negli occhi”. Ma può farlo a tal punto da incendiare il libro, mentre la bistecca resta cruda. E tu finisci al patibolo! Con la testa nel cappello bianco che rotola giù…
È il 2035: il mondo riemerge dopo il Nuovo medioevo e la Seconda rivoluzione musulmana, gli uomini sono totalmente dipendenti dalle “pulci” innestate nei loro cervelli tramite le quali riescono a ricavare informazioni vitali sull’ambiente circostante e sull’omeostasi interna, la Baviera e altre zone dell’Europa sono diventate regni o cadute in preda alla barbare e, con la pubblicazione dei libri passata totalmente al digitale – agile e rapido ma carente in quanto a materia –, nasce il book’n’grill, ossia la tecnica di cucinare pregiati piatti utilizzando prime edizioni, ormai rarità conservate nei musei, come legna da ardere.
Buona parte del romanzo, che si presenta quasi come un saggio sulla nuova moda mondiale, viene investita nello spiegare al lettore quali siano le capacità che un book’griller stellato deve possedere per soddisfare i raffinati palati dei clienti di tutto il globo. Così, da lettori seguiamo le vicende di Geza Jasnodvorskij, specializzato nella “cucina russa”, che nella più perfetta clandestinità incontra postini e corrieri e si ritrova in sfarzose ville ottocentesche e lussuosi yacht per cucinare Tolstoj, Cechov e Nabokov.
L’aspetto rilevante di questa parte del testo, al di là dell’inventiva di Sorokin nel dettagliare un mondo così vicino eppure assolutamente estraneo, è certamente l’idea geniale di considerare il libro come oggetto da collezione, qualcosa di valore così elevato da essere conservato e venerato, eppure al contempo utilizzato come legna da ardere, il cui prestigio non risiede in alcun modo nel contenuto bensì nel fatto di essere, appunto, un determinato tipo di oggetto. E questo elemento la vediamo nel momento in cui la trama si sviluppa attorno alla società di “falsari”, nascosta nel monte che dà il titolo al romanzo, la quale è in grado di riprodurre migliaia di copie esatte di Ada o ardore di Nabokov e smerciarle tutte come originali; allo stesso modo è interessante notare come nessuno (o quasi) si appresti a leggere i classici che vengono invece utilizzati per leggere insieme a un filetto o una bistecca.

La critica che Sorokin vuole sollevare è dunque palese: la cultura, e la letteratura nello specifico, ha/è un valore in quanto in grado di spingere al ragionamento, di offrire una particolare visione del mondo, o anche solo di intrattenere, oppure è un valore in termini assoluti ma, in quanto tale, un valore vuoto e privo di contenuti? Per fare un esempio concreto: la lettura dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij è qualificante per una persona in quanto quello specifico libro può offrire un valore aggiunto per un qualche motivo X, o invece basta dimostrare di aver letto il romanzo per essere considerati persone colte, elevate, in altre parole "migliori"? E se la risposta è la seconda, perché le cose stanno così? In che momento della storia recente la letteratura è divenuta un valore assoluto ma privo di contenuti, qualcosa di cui vantarsi senza la necessità di immergervisi?
In altre parole: perché in alcuni negozi si vendono libri finti con cui riempire gli scaffali e librerie altrimenti vuote delle case, se poi chi li acquista non è evidentemente interessato al contenuto di quei testi ma solo alla loro esposizione?

Il romanzo di Sorokin, ironico e beffardo, insiste su questo aspetto senza tuttavia dare una risposta: l’autore ci mostra un mondo in cui le cose stanno così, in cui la letteratura è ridotta alla stregua di merce di consumo, in qualche modo seguendo e sviluppando quanto Walter Benjamin, nei primi del novecento, scrive nel suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
È questo, nonostante qualche pecca stilistica e alcuni momenti non proprio brillanti, un libro che merita di essere letto anche solo per trovare una risposta a queste domande.

David Valentini