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#IlSalotto - «Il contrario della perdita è l’incontro»: intervista a Yari Selvetella

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Foto di Stephanie Gengotti
Nominato tra i dodici candidati al Premio Strega 2018 con il suo Le stanze dell’addio (qui la recensione), Yari Selvetella affronta nella sua opera un argomento delicato: quello della morte di una persona amata e del percorso – quasi impossibile a dirsi – dell’attraversamento della propria sofferenza. Gli è necessario, per farlo, dare voce a un altro da sé: un personaggio, l’uomo coi baffi, che è a un tempo specchio e proiezione. Gli è necessario accompagnarlo nel suo viaggio, una discesa all’inferno attraverso stanze che sono prigioni, ma anche anticamere della liberazione. Gli è necessario trovare una lingua per dire questa esperienza quando sembra che tutte le parole siano inadeguate. Selvetella riesce nel suo intento, approdando a un romanzo anticonvenzionale per stile e contenuti, in grado di suscitare nel lettore reazioni emotive di grande complessità.
Per comprendere meglio l’itinerario creativo che ha condotto a questo risultato, abbiamo contattato l’autore, che ci ha raccontato con grande generosità del suo rapporto con la letteratura, con l’amore e con la vita. 

Tu fai una scelta per nulla scontata: sono tanti i testi che parlano del dolore di una perdita, ma pochissimi hanno il coraggio di parlare della ripresa, del desiderio più che legittimo di rifarsi una vita, di dire cosa viene dopo il lutto. Cosa ti ha spinto ad imboccare questa strada, almeno sul piano narrativo?
La tua domanda mi porta subito a quello che io considero il fulcro del libro: questo è un libro che in un certo senso possiamo definire “scandaloso”, perché nelle narrazioni, a differenza di quello che capita nella vita, si prova consolazione in ciò che è irrimediabilmente perduto. Se io voglio raccontare un grande amore, questo amore deve essere unico, incredibile, una sorta di chiusura definitiva di ogni esperienza: il grande amore è il grande amore, punto. Il fatto che questo libro parli di un grande amore, ma anche del fatto che poi l’amore si ripresenta spiazza, disorienta. Questa situazione viene vissuta con disagio perché ne testimonia un’altra: che la vita è una forza molto importante, in un certo senso quasi crudele rispetto a ciò che vogliamo conservare. Quando tu decidi di immetterti di nuovo in questo grande fiume, senti decisamente che è la corrente che ti porta. Tale forza può essere positiva, in un certo senso, perché vuol dire che ti puoi affidare alla corrente, ma al tempo stesso è come se questo ti sottraesse una indipendenza di pensiero rispetto a tutto. Allora questo libro in sé rappresenta un voltarsi indietro e affrontare la corrente contraria, ma al tempo stesso mostra come la corrente ti porti comunque avanti. Non so se mi sono spiegato.

Ti sei spiegato benissimo: questo è esattamente ciò che emerge dal libro, ciò anche che lo rende difficile. Io non so davvero se vincerai lo Strega, perché è un libro molto complesso da affrontare.
Credo che la difficoltà maggiore del libro si trovi nella sua ambivalenza. Nel testo c’è un apparato emotivo molto forte, molte letture non riescono a bucarlo e andare oltre. Ma se noi riusciamo a superare il sentimento che pervade quasi ogni parola, rimane una fortissima ambivalenza di fondo: per esempio, la morte di una persona amata viene raccontata come una grandissima perdita, come una tragedia, ma per certi versi anche come un’esperienza illuminante. È un’idea forte da mandare giù: oltre al lutto, c’è il fatto che il protagonista, proprio attraverso il suo terribile dolore, riesce a mettersi in contatto con quello che è, o che potrebbe essere, il senso della sua esistenza. 

Ovvero?
Il pericolo è quello di credere che chi rimane di esperienza non ne può fare più: non può più amare, non può più stare al mondo, non può più sentire; è questo il vero nemico. Nel momento in cui si parla di morte, di malattia (ci sono tanti sostituti di imposta) si adottano spesso metafore combattenti, guerriere, come se ci si mettesse alla ricerca di un rivale alla nostra portata. Invece si perde di vista la minaccia più grande. Non è un caso che questo libro è stato scritto per lo più dopo aver pianto, alla fine del pianto. Non è un libro che nasce da un tumulto, che sfoga… è un libro che nasce dopo essersi sfogati. È una reazione alle cose, forse un po’ desolata, ma una reazione lucida. La verità è che bisogna morire: c’era una persona che amavi e l’hai persa. Devi fare i conti con questo. 

A questo possiamo legare allora un’altra considerazione: tu scegli di inserire due donne in questo romanzo. La seconda viene descritta come portatrice di vita, la rendi protagonista di un episodio di trionfo del femminile, quando dà alla luce sua figlia (la figlia del protagonista). Non si tratta chiaramente di una sostituzione rispetto alla prima compagna, ma di un necessario complemento narrativo. Puoi spiegarci in che modo?
Come avviene anche nel libro totem del romanzo, Moby Dick, letteratura e vita sono molto vicine, non si capisce qual è l’esperienza letteraria e quale l’esperienza che va oltre questo dato. Per quanto mi riguarda, l’idea dell’amore è questa: l’essere umano è una creatura relazionale. Non lo invento certo io, ma noi spesso ce lo dimentichiamo. Abbiamo un continuo bisogno di rispecchiarci in qualcun altro e il mio libro si nutre di questa dialettica. Anche dal punto di vista dei soggetti maschili, i protagonisti sono due, l’uomo coi baffi e il ragazzo del bar, che possono essere considerati quasi l’uno proiezione dell’altro. Allo stesso modo, la relazione amorosa si pone nei termini di un abbraccio alla vita stessa: la vita si ripresenta attraverso questa seconda persona. La vita è l’altro, è riconoscersi in un altro essere umano. Il contrario della perdita è l’incontro, è molto semplice.
C’è un altro aspetto poi che è importante considerare: quando noi costruiamo una relazione d’amore, questa diventa una forza in grado di smuovere ciò che c’è intorno. Non si può togliere l’amore dal mondo, considerarlo un possesso: se lo si fa, poi è difficile andare avanti. In caso contrario, invece, il non amore è quasi un oltraggio ai danni di chi non c’è più. Se tu ami un uomo o una donna per ciò che rappresenta in mezzo agli altri, poi è più semplice trovare in mezzo agli altri delle nuove risposte. 

In qualche modo, il tuo libro mi ha ricordato un altro romanzo, di un autore amatissimo: Prima di sparire di Mauro Covacich, forse per il rapporto tra verità e narrativa sbilanciato in favore della prima, forse per il coraggio di porsi sotto una prospettiva che può risultare impopolare, forse anche per una certa forma di trasparenza. Quindi, ti chiedo, qual è il tuo rapporto con il tuo libro, o meglio, come collochi te stesso rispetto al libro? 
La scelta che io ho fatto è una scelta letteraria, cioè una scelta che considera la lingua. Mentre nella memorialistica la lingua è uno strumento di chiarezza, nella letteratura è uno strumento di verità. Credo sia questo l’aspetto più disorientante del libro. 
Durante la fase ospedaliera, la prova della malattia e della privazione della libertà, c’è stato da parte nostra, cioè mia e di Giovanna, quasi un affidarci alla letteratura. Ritornare a lei non poteva che essere un’esperienza letteraria. 
Quindi l’uomo coi baffi è un personaggio, non sono io. Al tempo stesso però questo personaggio ha le caratteristiche che io avevo bisogno di esplorare. Ho scelto di attribuire a lui delle connotazioni che mi permettessero di capire come io potevo uscire da quelle stanze. 

A questo punto ti chiedo solo un’ultima cosa. Rispetto al tuo iter professionale, più orientato alla saggistica o al genere noir, Le stanze dell'addio appare un cambiamento di rotta. Lungo quali direttrici si sta evolvendo la tua scrittura? Quali nuove strade narrative ti ha aperto questa esperienza?
In realtà io ho scritto sempre tante cose, anche piuttosto varie (anche poesie). Il mio rapporto con l’editoria è sempre stato caratterizzato da tematiche legate alla criminalità, ma quella è solo una parte di me: è molto difficile esprimere una complessità oggi. In fondo, poi, perché uno dovrebbe interessarsi alla tua complessità?! Comunque questo modo di esprimersi non nasce con Le stanze dell’addio, però sicuramente questo romanzo è l’unico tra i miei pubblicati che espone in modo così letterario la mia visione dell’esistenza. Non so se questo apra nuove linee narrative in me, sicuramente però voglio continuare a scrivere libri diversi. 


Carolina Pernigo