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Hemingway e l'Italia, una storia d'amore

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L'Italia di Hemingway
di Richard Owen

traduzione di Daniela De Lorenzo

Donzelli, 2017
224 pp.
25,00 €


Wopland, la terra “spaghettosa”. Così Ernest Hemingway nei suoi, non rari, momenti umorali chiamava l’Italia. “But the Wopland gets in the blood and kind of ruins you for anything else” (“ma la terra spaghettosa ti entra nel sangue e poi ti rovina per qualsiasi altra cosa”). E la nostra Italia era davvero entrata nel corpo e nella mente di Hemingway, che la conobbe durante la Prima guerra mondiale, quando appena diciottenne, si arruolò volontario come autista di ambulanze per la Croce rossa americana. Il bel libro Hemingway e l’Italia di Richard Owen, che per 15 anni fu corrispondente dall’Italia per il Times, ripercorre per la prima volta tutte le tappe dell’amore che legò indissolubilmente lo scrittore, tra i più grandi del Novecento, alle nostre terre. E se poi la vita lo portò a vivere a Key West in Florida, poi a Cuba, alla Finca Vigía, a soggiornare per lunghi periodi a Toronto, a Parigi, in Spagna, negli States, in Africa, e infine a morire suicida a Ketchum nell’Idaho, è del nostro Paese che Ernest Hemingway si innamorò perdutamente.
Ho così tanta nostalgia dell’Italia che quando ne scrivo viene fuori quel non so che di speciale che si riesce a mettere solo nelle lettere d’amore.
Così scriveva all’amico James Gamble nel 1919. E per tutta la vita, Papa (come lo scrittore era soprannominato) tornò in Italia, portandoci gli amici e le mogli. Owen racconta in modo molto circostanziato la storia biografica che legò Hem all’Italia, avvalendosi di tantissimo materiale d’archivio, lettere, testi, annotazioni, interviste a persone che lo conobbero. E ovviamente grazie ai romanzi e ai racconti, da cui, a leggere tra le righe, escono persone, incontri e momenti. Perché per Hemingway vita e letteratura erano un unicum.


Ernest arrivò per la prima volta in Italia nel 1917, poco più che adolescente, nei mesi convulsi e confusi che avevano portato gli italiani ad attestarsi sulle linee difensive dei colli veneti e che culminarono con la disfatta di Caporetto (che, non a caso, divenne poi il teatro di uno dei suoi romanzi più noti, Addio alle armi). Fu qui che «l’Hemingway diciottenne perse per sempre l’illusione dell’immortalità», quando a Fossalta di Piave fu ferito, in modo abbastanza serio, a entrambe le gambe dalle schegge di un mortaio austriaco. Un trauma che lo accompagnò per il resto della sua vita. Trasferito all’ospedale americano di Milano, qui incontrò l’amore nella persona dell’infermiera Agnes von Kurowsky, la quale poi presterà molti dei suoi tratti alla Catherine di Addio alle armi. Un amore apparentemente platonico, che però non riuscì a superare la lontananza, visto che Hemingway dovette tornare in America.
È stato nel Veneto che mio nonno è diventato uomo, sperimentando per la prima volta le cose essenziali della vita: il dolore e la paura, in guerra, e poi l’amore e la perdita, che hanno messo in moto la sua letteratura.
Questo il racconto del nipote John Hemingway. Dopo un viaggio in Sicilia, che rivivrà nel racconto The Mercenaries (la prima opera dell’autore, che curiosamente sarà ritrovata e data alle stampe solo nel 1987, ben 26 anni dopo la sua morte) e il ritorno temporaneo negli States, per Hemingway fu ancora Europa, questa volta Parigi, dove si stabilì con la prima moglie, Hadley Richardson. Ma ben presto il ricordo dell’Italia si fece troppo pungente e Hemingway decise di portare Hadley in Italia, attraversando a piedi il passo del Gran San Bernardo…. Con immaginabili conseguenze per le francesine marroni, che Hadley indossava al posto degli scarponi da trekking, e per i piedi della sposina novella. Poi Hem volle tornare sui luoghi della guerra, laddove era stato ferito, ma la ricostruzione post bellica lo deluse. Di Fossalta scrisse:
Una città ricostruita era molto più triste di una devastata. Era decisamente come entrare in un teatro vuoto dopo che il pubblico e gli attori erano andati via…
Lo spettacolo dei suoi ricordi, cioè la guerra, era finito. Con Hadley visitò Vicenza, Schio, Rovereto, Trento, Milano, Rapallo, Cortina. Qualche anno dopo, prima di sposare la seconda moglie, Pauline Pfeiffer, fece un viaggio con l’amico Guy Hickok su una vecchia Ford che li portò, alla media di 30 km all’ora, da Rapallo fino a San Marino e poi a Firenze, Rimini, Imola, Bologna, Parma, Piacenza e Genova.

Poi una lunga assenza, vent’anni senza Italia (ma con due mogli in più, la Pfeiffer e Martha Gellhorn). Quando vi tornò, nel 1948, la consorte era la quarta e ultima, Mary Welsh. E fu la volta di Venezia, la città che gli entrò nel cuore e che gli ispirò Di là dal fiume e tra gli alberi. La città dove incontrò anche l’ultimo grande amore della sua vita, ironicamente platonico, come il primo, quella Adriana Ivancich, che nel libro trasfigurò in Renata. «Venezia (una città dove ho lasciato il cuore, quel figlio di puttana che da allora non sono più riuscito a ritrovare)», scriveva all’amico Buck Lanham.

Owen dipinge magistralmente questa grandissima figura di scrittore che ha riempito di sé gran parte del Novecento. E lo fa sia con precisione storiografica (grazie alla messe di studi e di testimonianze di cui abbiamo prova nella densa bibliografia finale), sia con episodi esilaranti e vividi, tratti dalla spavalderia, dalla tendenza a far confluire finzione e realtà e dalla propensione all’ingrandimento e alla bugia di cui spesso dava prova questo antesignano di maschio alfa, sempre intento alle conquiste femminili, alle bevute spropositate, alle battute di caccia e pesca, ai safari in Africa, alle mille avventure, vissute con sprezzo del pericolo.

Owen ci racconta le bevute esagerate e incredibili che accompagnarono tutta la vita di Hem, dalla cura a base di scampi e Valpolicella per guarire le ferite a Venezia alla cassa di whisky scolata ad Alassio e smaltita in spiaggia, dai celebri Martini dell’Harry’s Bar, di cui non si contavano i giri, alle tre bottiglie di Amarone che al mattino erano esposte fuori dalla stanza alla Locanda Cipriani di Torcello, dalla cassa di gin vuota alla fine delle battute di caccia, alle epiche bevute di Bloody Mary con la quarta moglie.

E tra le chicche gustose l’episodio con Mussolini protagonista: pare che un giorno Mussolini (per nulla amato dallo scrittore) avesse convocato i giornalisti, e tra questi il giovane Hemingway, a una conferenza stampa. Per darsi un tono, il dittatore se ne stava, a mascella sporgente, a leggere un libro, mostrando di non accorgersi nemmeno dell’arrivo degli invitati, tanta era la sua concentrazione. Hemingway, così dice, pian piano gli si portò dietro le spalle e vide che il libro a cui il dittatore era così intento altro non era che un dizionario italiano-francese. Per di più girato al contrario….. Realtà? Finzione? Per Hemingway, spesso, pari erano.


Sabrina Miglio