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#paginedigrazia - Quando la realtà infrange i sogni del passato, ormai ridotti a semplici "nostalgie"

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Nostalgie
di Grazia Deledda
Ilisso, 2011

Introduzione di Giorgio Todde

Prima edizione: 1905

pp. 256
€ 11 (cartaceo); € 4,99 (book)


Perché Regina ha sposato Antonio? È una domanda martellante nella prima parte del romanzo, perché la ragazza, a Roma dai suoceri dopo il matrimonio, non fa che rimpiangere il proprio paese settentrionale e la famiglia abbandonata. Certo, Antonio è bello e condiscendente, ma non pare ricco e ambizioso quanto pensava Regina, che ha aspirazioni borghesi continuamente frustrate dalle entrate modeste del marito. E poi c'è la suocera, così invadente, per quanto a fin di bene; e tutto il resto della famiglia di Antonio si dimostra altrettanto al di sotto delle speranze di Regina. Un grande senso di solitudine rassegnata avvolge tutto e porta la protagonista a una disperazione quieta, ma forse per questo crudelissima: 
- Sono io che l'ho voluto, - pensò, lacerando l'angolo del foglietto - Chi mi costringeva a cambiare stato, a lasciare la famiglia e la patria? Oramai sono sola. Sola! Anche se mi lamento nessuno può comprendermi. 
S'appoggiò allo scrittojo e cominciò a filosofare amaramente.
- Ho diritto di lamentarmi? No. D'altronde ogni lamento è inutile, quando la ragione del malessere è in noi stessi. La mia anima è malata; è un cespuglio strappato dal luogo ove è nato, e ogni piccolo urto la strazia. (p. 53)
Anche la bellezza di Roma non consola: la miopia di Regina offusca la visione delle reliquie antiche e i monumenti tanto acclamati sono sferzati da una pioggia impietosa. 

Insomma, il matrimonio, legame immortale, e la Città Eterna, tanto agognati da tutti, rappresentano paradossalmente la caduta delle illusioni e dei sogni («- Ma lassù, dopo tutto, che vita facevi? -Ah, Antonio; sognavo!», p. 83). Ciò che era idealizzato nella fervida immaginazione di Regina si scontra con la realtà, e crolla. La noia e la nostalgia attecchiscono subito, perché, d'altra parte, la protagonista non ha la prospettiva di trovare un lavoro per riempire le sue giornate, dominate così solo dai pettegolezzi e da visite svogliate a questa o quella conoscenza. Se usciamo dalla dinamica della sinossi per un istante, è chiaro quanto Regina rappresenti la donna primo-novecentesca ancora intrappolata nelle regole sociali, ma profondamente inappagata dal vuoto di ricevimenti per il tè e chiacchiere da salotto. Persino la principessa Makuline per cui lavora Antonio non rispetta i canoni dell'immaginazione comune: è alta e grossa, ormai avanti negli anni, con «due grosse labbra grigiastre, un piccolo naso rivolto all'insù, due occhietti metallici, d'un verde giallognolo» in un «viso cascante, pallido, immobile» (p. 60). Dunque, il contrario della seduzione. E allora perché a un certo punto Regina pensa che gli orari sballati del marito siano da imputare a una relazione extra-coniugale proprio con la principessa? 

Tante cose sono accadute nel frattempo: un tentativo di fuga verso il passato, al paese natale, seguito dal terrore dell'abbandono da parte di Antonio, forse offesosi per una lettera di Regina molto forte; il ritorno e l'inizio di una nuova vita coniugale, ben più unita rispetto al passato. L'apatia e la stasi della prima parte del romanzo sono senza dubbio lontane, Grazia Deledda ha scosso i dialoghi sonnecchiosi e futili da salotto e sta preparando i lettori alla svolta, che a tutti gli effetti si avrà nella terza parte, decisamente la più riuscita del romanzo. È lì infatti che Regina inizia a essere rosa dal dubbio del tradimento, dopo aver letto per caso gli appunti che una giovane aspirante scrittrice ha preso su tutti loro. Le insicurezze precedenti, tenute a bada dal nuovo compito di badare alla figlioletta appena nata, esplodono: come un tarlo, il dubbio dilania la giovane sposa. Ora, negli atteggiamenti del marito, ogni dettaglio è una prova a favore o contro il suo adulterio: un vero e proprio tormento che, di pagina in pagina, accompagna i tentennamenti di Regina. È la paura di una conferma a ritardare il chiarimento, mentre tutto diventa nuovamente facciata, sforzo immane per non lasciar trapelare l'urlo che la donna ha dentro. E l'esito sarà insolito, quasi una dissolvenza sulla coppia, da gustarsi dopo 250 pagine di attesa.

Dunque, niente a che fare con i sentimenti atavici tra vallate e montagne nuoresi, a cui la scrittrice sarda ci aveva abituato. La virata, poco dopo il suo trasferimento a Roma, non è stata ben recepita dalla critica contemporanea: infatti, come ricordato da Giorgio Todde nell'introduzione alla presente edizione, Nostalgie è stato massacrato sui giornali, a cominciare da Ojetti sul «Corriere della Sera» poco dopo l'uscita nel 1905. In effetti, anche Todde sembra confermare alcuni punti: 
La penna della Deledda, dunque, esce per la prima volta fuori dall'isola con Nostalgie. Resta da vedere se, insieme alla penna, esce dall'isola anche la sua "testa" e la sua vena creatrice, ovvero se, con Nostalgie, il talento e la forza deleddiani si trasferiscono nei luoghi dove li trasporta la sua narrazione. (p. 11)
Eppure sono proprio la seconda e la terza parte del romanzo a interessare di più e a spostare Nostalgie dalle accuse di Ojetti: lì lo scavo psicologico irrompe, i dubbi di Regina si fanno i nostri e anche la protagonista, prima fredda e lamentosa, guadagna in empatia con il lettore. Ma soprattutto è da notare il mutamento nei dialoghi: prima volutamente scarni di contenuti e pomposi, segno di una classe sociale sterile e ormai anacronistica, in un secondo momento piegano verso l'inarrestabile discrasia tra essere e mostrarsi. Anche la comunicazione tra i coniugi ne è la prova: quante volte Regina cerca di compiacere Antonio, e invece semina insinuazioni e trabocchetti per provare la colpevolezza del marito? E quanto la moglie, con i suoi capricci da accontentare, può sentirsi a sua volta colpevole di aver spinto Antonio tra le braccia della principessa? 
Anche la sensualità, il senso di possesso e la gelosia fisica hanno il loro spazio, scuotendo l'altrimenti calcolatrice Regina, ed è proprio in questa spinta irrazionale che riconosciamo la penna di Grazia Deledda, e ci confortiamo, togliendoci dal viso l'iniziale pallore davanti a un testo troppo misurato e borghese.

GMGhioni