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Care cose ricordose: I gatti non hanno nome di Rita Indiana

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I gatti non hanno nome 
di Rita Indiana
NN Editore, 2016

Traduzione di Vittoria Martinetto

pp. 165 
€ 16

Perché NN Editore sta facendo così tanto (e così positivamente) parlare di sé? Forse perché chi ci lavora è particolarmente abile a gestire la comunicazione, sia sui media che sui social, in modo che se ne parli "sempre e comunque"? Oppure il merito è ad intero appannaggio della ricerca di titoli che, come appunto nel caso di questo I gatti non hanno nome di Rita Indiana, sono praticamente una serie di unicum nel panorama editoriale italiano? O che invece  il motivo non sia da rintracciare nelle copertine, nella superba ma contenuta grafica che rende ogni volume NN un oggetto che, al di là del contenuto letterario, è plasticamente bello e meritevole di essere messo in bella vista? Probabilmente è l'addizione di questi fattori a rendere particolarmente magica e riuscita la formula di questa casa editrice, proprio sulla scia di quanto cantava Franco Battiato qualche anno fa, ovvero "Il tutto è più della somma delle sue parti". Tuttavia, ad un'analisi più stringente- tra l'altro particolarmente evidente nel libro di Rita Indiana -  il fattore in più di NN Editore è la responsabilità, la responsabilità di far parte di una casa editrice "altra" che accomuna tutti quelli che ci lavorano e che i lettori, anche quelli più distratti, percepiscono chiaramente. Perciò, per approcciarsi come si deve al romanzo preso in oggetto, non si può non partire, paradossalmente, dalla sua fine, ovvero dalla responsabile della traduzione italiana, Vittoria Martinetto
Vittoria Martinetto, prima di essere traduttrice, è anche e soprattutto Docente di Lingua e Letteratura  Ispanoamericana all'Università di Torino ed ha curato volumi di scrittori del calibro di Julio Cortazar, Mario Vargas Llosa e Alejo Carpentier. Quello che però balza subito agli occhi, dopo aver letto I gatti non hanno nome, è la, piuttosto sorprendente, postafazione ad opera della stessa traduttrice. Traduttrice che, senza svestire i panni di colei che ha mediato tra una lingua e l'altra, non si limita a tracciare una microstoria del proprio lavoro, ma allarga il discorso al valore letterario del romanzo in questione, spiegandone la natura "intimamente romanzesca della storia". Uno spazio davvero inconsueto quindi, quello lasciato dai tipi NN, per una traduttrice, considerando che, specie in Italia, pur svolgendo un ruolo praticamente insostituibile, queste figure sono praticamente relegate ad un piccolo nome nella prima pagina. e poco altro. Alle volte vengono addirittura dimenticati nella quarta di copertina. Qui è diverso, qui in NN il loro  lavoro non solo viene stimato ma addirittura esaltato. 

Ed allora in compagnia di Martinetto, esploriamo il libro di Rita Indiana. I gatti non hanno nome è un romanzo, perché, come dice giustappunto la traduttrice, è un volume colloquiale, immediato che però nasconde, nelle pieghe di quest'apparente semplicità, grandi significati e squarci profondi, anche abbastanza inquietanti e vertiginosi, come del resto è la stessa prosa di Indiana. Infatti Rita Indiana, scrittrice di Santo Domingo, realizza un romanzo dove la forza evocativa della parola viene fatta deflagrare e dove le situazioni vengono, volutamente, esagerate, donando al libro un'atmosfera un po' surreale un po' sospesa, molto cinematografica se si suole, e perfettamente contenuta in "sole" 148 pagine. 

Non facile da riassumere la vicenda che, sostanzialmente, ruota attorno alle situazioni che capitano alla protagonista, lasciata misteriosamente senza nome la quale, per passare l'estate guadagnando qualche soldino, si trova a lavorare nella clinica veterinaria degli zii. Questa clinica è una sorta di super-concentrato di tutte le stramberie del mondo con la presenza di una pletora di personaggi spesso e volentieri stralunati, a cominciare dallo Zio Fin, dalla cameriera Armenia, da Zia Celia o da Radamés, i quali punteggiano e danno gusto al romanzo intero. La scrittura di Rita Indiana, lo dicevamo prima, è semplice, tutti la possono capire ma, proprio alla stregua di quei tubetti di tempere che noi tutti abbiamo utilizzato alle scuole medie, nasconde delle quantità di colori, profondità e sfumature che, ad una lettura leggermente più approfondita, si possono cogliere come le diverse nuances in un cielo dipinto con del blu di Prussia. Si prenda ad esempio il lungo elenco dei "pazienti" che transitano in clinica:
Da quando ho cominciato a lavorare qui ho visto di tutto. Boxer zoppi chiamati Windsor, husky siberiani con dermatiti acute, pappagalli il cui becco era stato divorato da una specie di fungo conosciuto solo in Tasmania, gatti d'angora che, dopo aver visto Il settimo sigillo di Bergman, hanno la mania di svegliare regolarmente i loro padroni alle tre e trentatré del mattno, terrier anoressici, collie in miniatura addestrati a marciare al ritmo della Patetica di Beethoven, chihuahua che si credono minotauri, rottweiler con complessi di colpa e scimmiette entrate di contrabbando grazie ad un danese che portava le valigie a Janis Joplin.
Ecco in questo brano un fulgido esempio di cosa sia tale romanzo. Un testo che, lungi dall'essere preso alla lettera, dev'essere affrontato, una volta tanto, con molta incoscienza, quell'incoscienza tipica dell'infanzia e dell'adolescenza che ti fa apparire piccoli i problemi grandi e grandi i problemi piccoli. Questo libro è, de facto, una grande avventura della penna di una scrittrice potentissima in fatto di fantasia che può essere apprezzabile anche dal lettore più comune grazie alla "piccolezza" della difficoltà con il quale è scritto. I gatti non hanno nome racconta storie strampalate e inverosimili come i racconti dei nostri nonni anziani: ma non è forse anche per questo che noi adoriamo queste "care cose ricordose"? 

Mattia Nesto