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#TreQuarti14 - Intervista ad Alessandro De Roma

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Laura Ingallinella e Alessandro De Roma alla Libreria CLU
con #TreQuarti14
Foto ©GMGhioni

Alessandro De Roma (1970), già autore di quattro romanzi - Vita e morte di Ludovico Lauter, La fine dei giorni, Il primo passo nel bosco (Il Maestrale, 2007, 2008 e 2010), Quando tutto tace (Bompiani, 2011) - ha pubblicato quest'anno La mia maledizione (Einaudi 2014), che presto uscirà in Francia per Gallimard. Ho avuto il piacere di presentare Alessandro e il suo nuovo romanzo al festival pavese TreQuarti di weekend lo scorso 11 ottobre. Alcune delle cose che ci ha raccontato in quest'occasione le troverete in quest'intervista.

Il tema centrale di La mia maledizione è un'amicizia su cui il lettore è spinto a interrogarsi continuamente, perché nasce sotto una dicotomia irredimibile – quella tra schiavo e padrone. Emilio Corona potrebbe vivere (come uomo, ma anche come personaggio) senza un Cosseddu?
Penso che nessuno potrebbe vivere da solo e gli incontri che si fanno condizionano tutte le nostre possibilità esistenziali; delimitano i confini di ciò che possiamo diventare o che potremmo diventare se ne avessimo il coraggio. Cosseddu per Emilio Corona è in negativo ciò che lui stesso potrebbe essere se non godesse di tutti i vantaggi sociali con cui è nato, ossia l’ultima ruota del carro, un inetto, uno scarto; dall’altro, in positivo, è ciò che Emilio potrebbe essere se avesse il coraggio di non curarsi delle opinioni della gente, di non vergognarsi dei suoi sogni e della sua stessa giovinezza. Cosseddu è l’arco di tutte le potenzialità di Emilio e per questo certamente, senza di lui, Emilio non potrebbe vivere. In ogni caso io non lo avrei potuto raccontare. Ogni volta che Cosseddu sparisce, nel libro, Emilio arranca.

Le scelte onomastiche rivestono un'importanza fondamentale nel tuo romanzo: perché?
Emilio è l’Emilio di Rousseau, è il giovane che si perde nella società e si ritrova solo nella natura; ma è anche il Corona, l’ambizioso, il monarca che sceglie la carriera davanti a tutto e sceglie dunque di rinnegare la natura per ricoprirla di case a schiera, che è il talento degenere e il mestiere della sua famiglia. È la Sardegna degli anni Sessanta e Settanta che si è industrializzata, imbruttita e modernizzata in fretta e di malo modo, ricoprendosi di orrende case non finite e capannoni incongrui; vergognandosi di se stessa come Emilio si vergogna di sé. Cosseddu ha un nome sardo, immediatamente riconoscibile, è l’anima tenuta a freno, è la natura fatta schiava, ma libera ancora in fondo: è la terra, il bosco da massacrare; ma al tempo stesso è anche il sardo “autentico” che, pur mantenendo la sua ruvidezza di carattere e di aspetto, sogna solo una cosa: essere amico del fortunato e moderno Emilio Corona

Perché Emilio Corona e Cosseddu riescono a essere se stessi soltanto in mezzo alla natura? E perché, tra le tante manifestazioni della natura, proprio il bosco?
Nella natura i rapporti si rovesciano. È lì che, privo delle sue certezze sociali, Emilio deve rincorrere, invece che essere inseguito dall’amico. È lì che lui cade e si umilia ogni giorno, come Cosseddu si umilia in classe o per le strade di Nuoro. Ed è lì che entrambi si ritrovano al cospetto delle vere divinità di questo libro: gli alberi, che riescono in tutto ciò in cui Emilio e Pasquale falliscono (e gli uomini tutti, credo, fanno molta fatica a riuscire), ossia a lasciare un segno fertile, arricchire la terra al proprio passaggio, invece che impoverirla.

Per molti aspetti La mia maledizione può essere apparentato ai grandi romanzi di formazione del nostro Novecento, tutti accomunati da un elemento: la crescita è sempre incompleta, come un ingranaggio che per qualche motivo s'inceppa mentre tutto il resto continua a correre. È così anche per Emilio Corona? E per Cosseddu?
Penso che i romanzi debbano sempre raccontare qualcosa di incompleto, perché la loro missione è aprire strade, gettare nuove luci. Nella vita “reale” le strade si interrompono per pigrizia, per abitudine, ma Emilio e Pasquale invece non possono che andare avanti, ciascuno verso il proprio fallimento. Devono vivere fino in fondo. Emilio non riesce a essere buono, ma la storia che racconta è la storia del tentativo di farcela, di una speranza mai sopita di riuscire a migliorarsi, a crescere. Cosseddu, come dice Emilio stesso, lo ha reso, suo malgrado, un uomo migliore: facendogli raccontare la sua storia, diventando la sua ossessione. E Cosseddu, lui non può crescere mai fino in fondo, perché in questa storia è la giovinezza invincibile, l’inconcluso eterno. Non potrà mai risolversi, deve anzi restare come un mistero fino all’ultima pagina: la speranza che ci possa essere un uomo degno della vita di un albero.

Le tue scelte narrative sono molto meditate: la prosa di Emilio è insieme nostalgica e straniante, analitica, questo sì, fino alla vivisezione.
Ho cercato di fare mia la prosa di Volponi nel Memoriale, e quella di Berto nel Male oscuro. Ma il mio Emilio è vittima di una alienazione che si è fabbricato da solo. È lui il padrone ed è lui lo schiavo. Spero di essere riuscito ad avvicinarmi almeno un po’ a quei due grandi libri. Ma soprattutto volevo un libro che avesse un tono ipnotico, che venisse voglia di leggere a voce alta, di recitare quasi. Un libro che si scrivesse da solo una volta trovata la chiave del suo proprio ritmo. Volevo insomma che la confessione diventasse un canto per chiedere perdono alla vita e a un amico tradito.