in

CriticaLibera - Francesco Pecoraro: una vita, una pace, un tempo

- -


Lo spirito moderno secondo Alberto Savinio: la coscienza cinicamente lucida di chi «liberamente e spassionatamente contempla intorno a sé il mondo sdivinizzato» (Alberto Savinio, Luciano di Samosata).

Ci si appoggia alle pieghe del tempo, alla memoria, a quel bagaglio invisibile ma pulsante e pesante, per ritrovare cosa? 
Lo scandalo e l’indignazione per una vita  vissuta? Per un posto nel mondo che non è fatto su misura per il sé che si crede di essere? Per un passato che per essere davvero tale, profondamente tale, prepotentemente tale, deve  essere percorso a ritroso? 
Per affermarsi bisogna davvero chiudere gli occhi e tuffarsi, a capofitto, con la testa leggera, in un mondo che ci è appartenuto, ma mai fino alla radice dell’anima?
La vita in tempo di pace: un ossimoro celato. La vita non può essere pace, perché per sua natura è una socratica contraddizione. 
Dalla prospettiva di questo ossimoro, Francesco Pecoraro contempla il mondo sdivinizzato: un mondo che non prevede più una rigida distinzione tra passato, presente e futuro. Tutto concorre a una scrittura a incastri, che non confonde, tuttavia. Un entrelacement ordinato, pur contenente il magma del labirinto. 
Una narrazione dominata dal verbo e dal sostantivo “potere”: un personaggio che potenzialmente attraversa luoghi, spazi, tempi ed epoche. Ma in nuce rimane sempre attaccato alla stasi del fare umano. Un libro di movimento che è la negazione stessa del movimento. 
Ivo Brandani è affetto dalla stasi del questuante: domande su domande, che nascono non dalla curiosità, non dallo stupore, non dalla meraviglia, ma dal tedio, matrice che permette una coincidentia oppositorum che annulla ogni spiraglio di dialettica, che sterilizza ogni germe di dinamismo. 
Nel presente c’è l’attesa, in un aeroporto (precisamente di Sharm el-Sheikh), luogo spersonalizzante per eccellenza, in cui la persona (anche etimologicamente intesa come “maschera”) diventa un numero, un qualsiasi della massa (anonima a sua volta). Un’attesa che potrebbe portare a qualcosa: ma a cosa? 
Emblematicamente il libro si chiude con una frase: «Non ancora». Una perifrasi temporale, ambiguamente sospesa tra l’attesa di un qualcosa che, nel qui e nell’ora, è acerbo, e che deve maturare, e l’attesa di un qualcosa di catastrofico che arriverà a tempo debito. 
In apertura l’attesa della catastrofe, in chiusura un «non ancora» indefinito: tra questi margini un mondo che fluisce nel suo farsi. Non c’è un tentennamento nella scrittura lucida, tagliente di Pecoraro: scrittore che non ama le anestesie. Che opera i suoi pazienti a cuore aperto, senza chiedere deroghe. 
Che scruta la realtà per quello che è, senza orpelli: il barocchismo, l’effetto retorico sono lasciati alla scrittura. Il contenuto deve essere chiaro e comprensibile, anche mediante una sintassi difficile. Perché anche l’esperienza di perdersi fa parte della scommessa di Pecoraro. 
Scrittore che non ha paura di usare i dialoghi, che si dimena tra il maiuscolo e il corsivo: senza mai, però, perdere di vista la leggibilità del testo. Il quale, pur inserito in un impianto solido, classico, se si vuole, profuma di modernità. 
L’obiettivo di Pecoraro si fa concreto pagina dopo pagina: aprire un romanzo al mondo, e non più viceversa. Ogni sfaccettatura del reale, della storia possono diventare letteratura, senza pretesa di cristallizzare: lo scrittore non cala il suo personaggio nella «gelatina della storia» (Alberto Savinio), non vuole renderlo immortale (perché, Savinio docet, anche i personaggi perfetti del mito, come Ulisse, desiderano la mortalità). 
Pecoraro costruisce un mito moderno: senza fanfare, senza eroismo. Una quête perenne, che continuamente torna su se stessa, che ammette il fallo. Che erra. 
Le Muse della Storia e del Mito diventano, “dechirichiaramente”, inquietanti. 
Ma, a differenza di Ariosto, di Savinio, Pecoraro non cerca la follia: forse perché ha già imparato la lezione di un’arte che sorprende la natura nel suo stato di pazzia. 
Lo scrittore cerca altro: e lo dice in maniera esplicita nel titolo. Cerca di smascherare e mascherare l’ossimoro di una vita vissuta in tempo di pace. In questo gioco di intermittenze tra apparire/scomparire, tra potere/dovere, tra guardare/vedere, tra sentire/ascoltare, il lettore “scelto”, allo Borges, alla Stendhal, alla Savinio (il sintagma di scrittore che sceglie i suoi lettori è ripreso da Leonardo Sciascia) giunge alla fine con due domande: quale vita? E quale pace?
E in sottofondo sente il mare, questa grande distesa che fa da leitmotiv a tutto il romanzo: mare che, in fondo, è il cronotopo dominante della narrazione, metafora della divisione e della separazione, della possibilità e impossibilità di comunicare. Spazio e non spazio, utopia e ucronia: spazio tanto della distinzione, quanto del distanziamento. E, se si vuole, anche del discernimento. Una via di ostacolo, ma anche di salvezza: dipende dalla prospettiva. 
Prospettiva duplice presente nello stesso protagonista: Ivo Brandani, simile a Emilio Brentani, il grande inetto della letteratura, protagonista di Senilità di Italo Svevo. Ma, a chi scrive, le etichette di “inetto” garbano poco: Brandani, come Brentani, forse, è un “anti-formato”, un uomo che ha vissuto un percorso di formazione ma partendo dalla fine. 
O Ivo Brandani come Irma Brandeis, la Clizia montaliana: e la vicinanza onomastica non può non rimandare all’etimologia del cognome della donna, che, in tedesco, se frammentato, alluderebbe al fuoco e al ghiaccio. 
Un ingegnere, votato, per natura e per i dogmi di “specie”, al pragmatismo e al razionale, ma che porta inconsapevolmente (?) sulle spalle le ossessioni, i sogni, gli incubi della letteratura. E non solo quella del Novecento. 
Ma soprattutto un protagonista che inciampa in un romanzo magistrale, pietra miliare della letteratura coeva, militante fino alla fibra dell’essere, che null’altro chiede se non di essere letto. 

Nadie puede escribir un libro. Para
que un libro sea verdaderamente, 
se requieren la aurora y el poniente,
siglos, armas y el mar que une y separa.

(J. L. Borges)