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Pillole d'Autore: Il senso di una fine di Julian Barnes

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Il senso di una fine è il romanzo che ha portato Julian Barnes, dopo tre nomination, a vincere il Book prize nel 2011. Si tratta di una storia che analizza il tema del tempo  declinandolo attraverso il concetto di morte, o meglio, di suicidio, come extrema ratio filosofica di fronte ad un dolore che va oltre la capacità di tolleranza umana. La storia si sviluppa attorno a due  blocchi narrativi. Il primo volto a ricostruire gli anni della gioventù del protagonista e voce narrante;  il secondo più concentrato sull’analisi delle conseguenze che questo passato ha avuto sull’oggi. Tutti gli eventi sono quindi esposti con un'unica prospettiva, quella di Tony - testimone dei fatti - l’ex ragazzo che dopo tanti anni si vede costretto ad affrontare di nuovo gli eventi di una fase della  vita che credeva conclusa. Ma la prima cosa che emerge dalla lettura di Sense of an ending  è proprio che il passato non è mai tale. Gli eventi continuano a tornare, modificati nella loro percezione dagli anni e dalla memoria che, si sa, è fallibile, per acquistare ogni volta un altro significato.
Tony dunque, ricevendo una misteriosa eredità da parte della madre di Veronica, la donna che frequentava durante il college, si vede costretto a rivedere un intero capitolo della sua esistenza, rievocando il ricordo di Adrian,  il carismatico amico del liceo - morto suicida appunto - con il quale aveva interrotto ogni rapporto diverso tempo prima in seguito ad alcune incomprensioni.

Ecco una differenza fra noi tre e il nostro nuovo amico. Noi prendevamo tutto alla leggera, tranne le poche volte che decidevamo di prendere qualcosa sul serio. Lui prendeva tutto sul serio tranne le poche volte che decideva di prendere una cosa alla leggera. Ci mettemmo un po’ per capirlo.
Tony rielabora il suo vissuto per effetto di una sorta di necessità psicanalitica, che permette al lettore di addentrarsi nei suoi pensieri, di capirne il funzionamento. Questo fa di lui un personaggio archetipico, nel quale è facile immedesimarsi; l’uomo comune che si compone in egual misura di debolezze e piccoli momenti di felicità. Chi, infatti, non ha mai subito le pesanti conseguenze di un lutto? E così a distanza di decenni, episodi che ormai credeva scomparsi iniziano a tornare alla mente e a fornire una nuova prospettiva a fatti considerati ormai parte di un’epoca remota.

Si arriva alla fine della vita, no, non della vita in sé, ma di qualcos’altro: alla fine di ogni probabilità che qualcosa cambi. Ci viene concesso un lungo momento di pausa, quanto basta a rivolgerci la domanda: che altro ho sbagliato?
Le conclusioni alle quali Tony era giunto circa la fine dell’amico dovranno essere riviste completamente. Non si tratta più di considerare il suo come un gesto razionale, l’unica altrenativa quando si viene privati della possibilità di scegliere, ma di qualcosa di molto diverso.  Il tempo è ciò a cui Adrian ha voluto rinunciare con la sua scelta  e se all’inizio essa sembrava essere vista con una certa ammirazione da Tony,  finisce ben presto per rivelarsi nella sua autentica essenza: una scappatoia quasi semplicistica ad una situazione che pareva troppo complicata da affrontare.

(Edizione di riferimento: Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi 2012)



Uno

Nella lettera che aveva lasciato a beneficio del coroner, Adrian dava conto delle sue ragioni: la vita è un dono elargito non a seguito di una qualsivoglia richiesta; l’essere pensante ha il dovere filosofico di esaminare sia la natura dell’esistenza, sia le condizioni in cui essa si manifesta; e, infine, se tale persona decide di rinunciare al suddetto dono elargito senza essere stato richiesto è suo dovere umano ed etico agire di conseguenza.
Ma secondo la legge, chi si toglie la vita è per definizione uno squilibrato, almeno nel momento in cui commette il gesto. La legge, la società, la religione concordano nel ritenere che non si può essere sani di mente e di corpo e uccidersi. Sarà perché quei poteri temono che l’argomentare del suicida possa impugnare la natura e il valore della vita secondo l’organizzazione che lo stato, lo stesso che paga il cononer, le dà? Dopodiché, essendo stati dichiarati temporaneamente squilibrati, altrettanto squilibrate si riterranno le ragioni per uccidersi. Perciò dubito che qualcuno abbia badato un granchè alla motivazione lasciata scritta da Adrian, con tanto di riferimenti ai filosofi antichi e moderni, sulla superiorità dell’atto deliberato rispetto all’indegna passività di chi lascia che la vita gli succeda.
E cosa dovevo pensare a quel punto di Veronica? Adrian era innamorato di lei, eppure si era ucciso: come mai? Per la maggior parte di noi la prima esperienza amorosa, anche se non funziona – forse specie se non funziona -, è la promessa che quella è la cosa in grado di dare un senso alla vita, di riscattarla. E sebbene con gli anni le prospettive possano cambiare, tanto che alcuni preferiscono lasciar perdere del tutto, il primo colpo di fulmine resta impagabile, no? Siete d’accordo?

Due

Quello che ti è impossibile è guardare avanti e immaginare te stesso che guarda indietro dal punto che avrai raggiunto nel futuro. Conoscere le emozioni nuove portate dal tempo. Scoprire, ad esempio, che con il ridursi del numero dei testimoni della tua esistenza tende a diminuire l’avvaloramento, e di conseguenza la certezza, di ciò che sei o sei stato. Se anche hai documentato ogni cosa in modo sistematico, in forma di immagini, suoni, parole, puoi d’improvviso scoprire di avere sbagliato la modalità di registrazione dei fatti. Com’era la battuta di Adrian? “ La storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione”.
Leggo ancora parecchia storia e, va da sé, mi sono tenuto al corrente dei grandi eventi contemporanei alla mia vita.: la caduta del Comunismo, la signora Thatcher, l’11 Settembre, il riscaldamento globale. L’ho fatto con il normale miscuglio di ansia, paura e cauto ottimismo. Ma senza mai riuscire a considerarli con la stessa fiduciosa sicurezza con la quale guardo ai fatti di storia greca e romana, o dell’Impero Britannico, o della Rivoluzione sovietica. Può darsi che mi senta più tranquillo sulla storia sulla quale si è grosso modo raggiunto un accordo.
Non ha più i capelli lunghi fino a metà schiena o raccolti in una treccia francese; oggi li porta cortissimi, senza nascondere quelli grigi. I vestitoni a balze hanno lasciato il posto a cardigan e pantaloni di buon taglio. Alcune delle efelidi che amavo tanto somigliano ormai più a macchie d’età.   Ma sono comunque gli occhi che continuiamo a guardare, no? È negli occhi che abbiamo incontrato l’altro ed è lì che ancora lo troviamo. Gli stessi occhi nella stessa faccia di quando ci siamo conosciuti, abbiamo fatto l’amore, ci siamo sposati, siamo andati in luna di miele, abbiamo acceso un mutuo, fatto la spesa, cucinato e passato le vacanze insieme, ci siamo amati e abbiamo avuto una figlia. Gli stessi di quando ci siamo separati.
In compenso, mi sono rigirato in testa la questione della nostalgia e mi sono chiesto se io ne soffro. Di sicuro non mi vengono gli occhi lucidi al pensiero di qualche giocattolo della mia infanzia, e nemmeno intendo ingannare me stesso a livello sentimentale su cose che non erano sincere neanche allora: l’amore per la vecchia scola e via dicendo. Ma se nostalgia significa il ricordo potente di un’emozione forte, e il rimpianto di non ritrovare più sensazioni del genere nella vita, allora mi dichiaro colpevole.
Il tempo però … ah, come può trascinarci alla deriva e confonderci le idee. Credevamo di avere raggiunto la maturità quando ci eravamo soltanto messi in salvo, al sicuro. Fantasticavamo sul nostro senso di responsabilità, non riconoscendolo per quello che era, cioè vigliaccheria. Ciò che abbiamo chiamato realismo si è rivelato un modo per evitare le cose ben più che per affrontarle. Già, il tempo ci riserva … il tempo necessario a farci percepire le nostre più salde risoluzioni come traballanti, le nostre certezze come capricci momentanei.
Che ne sapevo io della vita, io che ero vissuto con tanta cautela? Che non avevo mai vinto né perso, ma avevo lasciato che la vita mi succedesse? Io che avevo avuto le ambizioni di tanti, ma che mi ero ben presto rassegnato a non vederle realizzate? Che avevo evitato il dolore e lo avevo chiamato attitudine alla sopravvivenza? Che avevo pagato conti e bollette, che ero rimasto in buoni rapporti con tutti il più a lungo possibile; io, per cui estasi e disperazione erano diventati da molto tempo giusto parole lette una volta nei libri? Uno i cui rimproveri a se stesso non avevano mai lasciato il segno? Beh, c’era tutto questo su cui riflettere, mentre sperimentavo un genere di rimorso speciale: una sofferenza inflitta a chi aveva sempre creduto di sapersi sottrarre al dolore, e inflitta, alla fine, precisamente per quella ragione.