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Critica Libera: una Buenos Aires a tinte bianconere

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Combi, Rosetta, Caligaris, Varglien I, Monti, Bertolini, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi. Non so se dice nulla questa accozzaglia di nomi. Ma a qualsiasi tifoso juventino scalda il cuore. E comunque non mi pare neppure giusto trascurare altri aspetti: ovvero che raccontando le loro storie si entra diretti nel cuore di Buenos Aires. Che, d’accordo, non è Brasile ma Argentina e quindi non siamo in linea con il mondiali. Ma sempre di calcio e Sudamerica si tratta.

Andrebbe scritto un libro per ciascuno, per i loro riccioli trapezoidali, i capelli con la riga in parte o nel mezzo, comunque pieni di brillantina e sudore, sbiaditi in foto di regime. Sembravano pronti a emulare Rodolfo Valentino e Carlos Gardel piuttosto che i fuoriclasse del calcio danubiano che dettava legge in Europa negli anni Trenta. Era gente che aveva fatto il percorso inverso dei nostri migranti che toccavano Buenos Aires stravolti e più in malora delle loro valigie di cartone legate con lo spago.

Approdarono dall’Argentina con chissà quali speranze: ingrassata come Luisito Monti, a cui gli inglesi nel ’34 in un incontro internazionale maciullarono un alluce neanche fossero alla guerra delle Falkland; oriundizzata senza preamboli dal fascismo come Mumo Orsi che, a dispetto del cognome aveva movenze feline e non da plantigrado; con ancora il tango nel sangue come quello strambo ribelle di nome, appunto, Renato Cesarini.

Monti, Orsi, Cesarini inocularono nella Torino delle ciminiere, che già appannavano la vista del  profilo delle Alpi, quel qualcosa in più di spudorato che trapelava dalla loro patria originaria. Buenos Aires… terra di sogni coltivati fin da bambini, nei campetti polverosi nascosti dalle variopinte facciate del Caminito e nelle straducole lungo il Riachuelo, dove capitava di seguire mestamente il pallone perdersi in acqua e proseguire verso la foce. Un’Argentina ancora innocente, senza traccia delle camionette militari che facevano irruzione nervosa nei quartieri: «Ehi niños, aquí». Con Videla era questo l’approccio dei soldati che salutavano, regalavano cioccolate e chiedevano di Tizio o Caio. Poi se ne ritornavano in caserma con qualche prigioniero. Magari un familiare.


A Buenos Aires rivedi l’epoca dei padri che provavano a distogliere i figli dal calcio facendo loro frequentare nei giorni festivi il mercato di San Telmo prima di sedere in un bar e respirare l’aria  privilegiata di chi coabita con democrazia o dittatura senza difficoltà. Ma i bambini, gli Orsi, i Monti, i Cesarini, non potevano cogliere certe sfaccettature. La loro noia diventava l’insofferenza  spavalda di chi sapeva che l’amico era allo stadio ad ammirare le gesta di undici protagonisti in calzoncini e maglietta, il calore del pubblico, i tocchi dei fantasisti dai capelli crespi, i derby. Ma se i vari Orsi, Monti, Cesarini avevano l’ardore di una scappatella calcistica, i padri si facevano più rigidi e non sentivano ragioni: la domenica era di nuovo la volta di antiquari e mercatino delle pulci. Attorno, Buenos Aires scaldava i motori: radio dei bar, litanie tristi d’addio, lattine di coca cola annichilite da acquavite della Patagonia, convenevoli fra persone in abito festivo, conformisti che si compiacevano di ogni stagione, lo scettro di campione metropolitano passato di barrio in barrio, dalla Boca alla foce del Rio de la Plata.
Con il tempo però, i padri, osservandoli là dove si ritrovavano giornalmente, si convincevano che la passione dei figli riposava su piedi buoni e un fisico adatto. Se si lasciavano commuovere da qualche preghiera reiterata, li conducevano dalle persone in grado di spendere una parola per il loro esordio nelle giovanili di qualche squadra. Di partita in partita, conquistata la fiducia dei primi allenatori, gente come Monti, Cesarini e Orsi capiva che poteva spiccare il volo, che le fasce laterali e la mediana potevano diventare terreno ideale per le loro scorribande da fuorilegge. La statura non era eccelsa, l’andatura caracollante, ma non per questo avevano timore a giocare con la maglia fuori dei pantaloni, il vezzo che solo i geni del calcio di tutte le epoche hanno potuto permettersi. È su questa fantasiosa indisciplina che Carlo Carcano, l’allenatore juventino, dovette modellare il suo gioco vincendo cinque scudetti dal 1930 al 1935.
Esso ruotava attorno a un perno: Luisito Monti. Con lui davanti, Rosetta e Caligaris si sentivano come in un caveau, con lui dietro Cesarini e Ferrari danzavano al suono del bandoneòn. Se la milonga di questi due non bastava a mettere confusione in testa agli avversari, il fronte di attacco raddoppiava con pagine di realismo magico grazie a Orsi e Munerati. A quel punto, a Vecchina non restava che metterla dentro. Senza troppe preghiere. Varglien I e Bertolini, nel frattempo, restavano sornioni a presidiare ogni pericolo come uomini senza ombra che pensavano con i piedi.
Circa venti anni dopo, degno erede dei Monti, dei Cesarini, degli Orsi, ci fu Rinaldo Martino, destinato a fare innamorare Gianni Agnelli ben prima di Platini. Per capire il personaggio, si narra che un 23 febbraio, nell’imbarazzato silenzio dello spogliatoio, disse: «datemi la palla e la vinco da solo!». Nel secondo tempo si accontentò di farne tre, Rinaldo Martino, poi decise di dribblare ancora come un condottiero dell’antichità alla testa del suo esercito intento a schivare le lance nemiche. Si ripresentò davanti al portiere e dando prova di eleganza pensò che prerogativa dei grandi è avvicinarsi consapevoli al senso del limite. Palla a un compagno che accorreva e quarto goal della Juve.


Cifra ricercata, accuratezza nei dettagli, i migliori Armagnac: tutto questo era l’atmosfera del Caño 14, il locale che Rinaldo Martino aprirà una volta appese le scarpette al chiodo. Gli bastava un frac. Paolo Conte ha sognato di esordirvi e Corto Maltese di giocarvi a biliardo. Buenos Aires, rieccola, era adatta a un ambiente del genere, per ospitare chi era interessato a ricercare le tradizioni musicali argentine. È in calle Humberto Primo, pochi isolati a ovest di San Telmo. Martino era alle prese con donne stupende, disegnate da Milo Manara, ma una lacrima scendeva dai suoi occhi nerissimi se gli riferivano una notizia, fosse anche banale, di quella Juve che si era pentito di abbandonare così presto.

Renato Cesarini è scomparso il 24 marzo 1969. Ancora si usa la metafora zona Cesarini per dire di un goal segnato mentre la partita sta per concludersi.

Luisito Monti il 9 settembre 1983. Lo soprannominarono per avere reagito agli inglesi senza un dito del piede: leone di Highbury.

Raimundo Orsi il 6 aprile 1986. Prendeva 108.000 lire al mese. Per l’epoca era una cosa scandalosa.

Rinaldo Martino il 15 novembre 2000. Hanno riaperto il Caño che è ancora un tempio del tango, quel ballo dove, così ho sentito dire, “uno più uno dà… uno”.

Erano artisti prima che calciatori. E Osvaldo Soriano ha pensato di sicuro a loro.