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"Il cardellino": quando il Bildungsroman incontra il caos del mondo

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Il cardellino
di Donna Tartt

Rizzoli, 2014


Un romanzo ogni dieci anni. O meglio, un capolavoro, ogni dieci anni. Donna Tartt con tre soli romanzi è senza dubbio una delle voci più interessanti del panorama letterario contemporaneo, osannata dalla critica e amatissima dal suo pubblico che freme nella lunga attesa tra un’opera e l’altra pregustando lo straordinario viaggio nelle parole e nell’animo della prossima storia. Inevitabile quindi che il 2013 (o il 2014 se facciamo riferimento all’edizione italiana) rimanga l’anno di Donna Tartt e del suo Il cardellino. Un romanzo che sfiora le quasi 900 pagine che tuttavia scorrono come se fossero molte meno grazie ad una storia avvincente ma soprattutto alla scelta accurata di ogni singola parola che porta in sé significati più profondi di cui il lettore si fa interprete in un gioco alla scoperta del significato della bellezza, della vita e del suo carico di dolore, della solitudine e dell’amicizia. Undici anni di lavoro per scrivere la parola fine ad un romanzo che si è aggiudicato, meritatissimo, il premio Pulitzer per la narrativa
a beautifully written coming-of-age novel with exquisitely drawn characters that follows a grieving boy’s entanglement with a small famous painting that has eluded destruction, a book that stimulates the mind and touches the heart. 
In un lunghissimo flashback è il protagonista Theo a raccontarci la sua storia, a partire da quella tragica mattina del 10 aprile quando, tredicenne, rimane coinvolto in un attentato terroristico che sconvolgerà per sempre la sua vita, spartiacque tra prima e dopo, tra la vita che poteva essere e ciò che invece sarà. 


Per una serie di banali circostanze, quei casi della vita assolutamente imprevedibili che solo a posteriori assumono significato, Theo e la madre si ritrovano al Metropolitan Museum of Art ad ammirare i dipinti della mostra “Ritratti e nature morte: capolavori nordici dell’età dell’oro” tra cui “Il cardellino” di Fabritius (allievo di Rembrandt e maestro di Vermeer) uno dei primissimo quadri che la donna aveva amato quando molti anni prima, giovane studentessa di Storia dell’Arte appena arrivata a New York dalla provincia, era rimasta folgorata da quel piccolo dipinto pieno di luce ammirato in un libro d’arte; la vita poi si era intromessa, le passioni e i desideri messi da parte per fare spazio alla nuova famiglia e la donna si era ritrovata con un figlio amatissimo e un marito inaffidabile e alcolizzato che da qualche mese li aveva lasciati, un abbandono che in fondo appare più una liberazione. Quella mattina quindi il richiamo del dipinto di Fabritius è davvero irresistibile e madre e figlio si ritrovano a vagare per quelle sale come hanno fatto decine di volte; si separano solo per un attimo, Theo distratto dal volto di una ragazzina dai capelli rossi che si aggira per il museo insieme ad un uomo anziano, la singolare curiosità di leggere le storie negli occhi degli estranei, il fato, la storia che si mette in mezzo a sconvolgere le vite: un boato assordante e in un attimo è il caos, ogni cosa è distrutta, vite spezzate, quotidianità stravolte. 

Un attentato terroristico assurdo ma così crudelmente realistico e sconvolgente. Tra le macerie e i corpi dilaniati dall’esplosione, Theo scorge proprio quell’uomo, ora in fin di vita, visto poco prima in compagnia della ragazzina dai capelli rossi e gli è accanto mentre la vita scivola via dal suo corpo straziato, tra delirio e ricordi, in un momento così intenso e straordinariamente intimo tra due sconosciuti che sarà impossibile dimenticare. L’uomo consegna al ragazzino un anello antico chiedendogli di riportarlo da “Hobart e Blackwell” e inaspettatamente prega anche Theo di mettere in salvo proprio quel piccolo strabiliante dipinto della scuola fiamminga che sua madre ammirava, “Il cardellino” che già una volta era stato in pericolo rischiando di andare perduto nella terribile esplosione della fabbrica di polvere da sparo a Delft, nel 1654, in seguito alla quale moltissimi dei lavori di Fabritius finirono distrutti. Una bellezza troppo pura per essere lasciata in quelle sale devastate dalla violenza: così Theo nasconde il piccolo quadro nello zaino e lo porta fuori dal museo. 

Terribilmente scosso e incredulo per la morte dell’amatissima madre, solo a New York senza più nessuno che si preoccupi per lui, nelle settimane che seguono viene affidato alla ricca famiglia Barbour, nella casa a Park Avenue dove fino a poco tempo prima aveva passato pomeriggi spensierati in compagnia dell’amico Andy. Sono settimane confuse, in un viavai di sconosciuti – polizia, assistenti sociali, psicologi, giornalisti- che gli rivolgono le stesse banali domande, nel tentativo di dare un senso a quei fatti inspiegabili che per Theo non potranno mai avere una logica. Ciò che può fare è mantenere la promessa fatta allo sconosciuto: trova “Hobart e Blackwell”, una piccola bottega antiquaria nel Village, dove viene accolto dal socio dell’uomo al quale Theo consegna l’anello, senza fare menzione dell’altro preziosissimo segreto che custodisce. Affascinato dalla bottega e da Hobie, torna più volte in quella casa avvolta nel buio e ritrova Pippa, la ragazzina del museo rimasta gravemente ferita dall’esplosione. Sono piccole fughe dalla rigida atmosfera a Park Avenue, attimi di vita che Theo cerca avidamente anche quando, inaspettatamente, Pippa è costretta a lasciare Hobie – che non è un parente- per recarsi in una clinica in Svizzera sotto la tutela della zia. Anche se l’assenza di Pippa è straziante, Theo frequenta sempre più la bottega e il suo affascinante proprietario che diventa un amico e un maestro capace di portare istanti di pace nel caos della sua mente devastata dal trauma e insegnarli quel mestiere antico padroneggiato ormai da pochi, che «passa di generazione in generazione». 

Una parvenza di normalità turbata da incubi e apprensione per il quadro ricercato da tutta l’Interpool, che va in pezzi quando all’improvviso il padre di Theo ricompare nella sua vita, mosso più da interesse economico che da ritrovato affetto paterno, per portarlo lontano da New York e dai ricordi di un passato felice e trasferirsi a Las Vegas dove vive insieme alla sua bizzarra ragazza Xandra. 
A NY ogni cosa mi ricordava la mamma – ogni taxi, ogni angolo di strada, ogni nuvola che copriva il sole -, ma lì fuori, in quel rovente vuoto minerale, era come se lei non fosse mai esistita; non riuscivo nemmeno a immaginare che il suo spirito potesse osservarmi dall’alto. Era come se ogni traccia di lei fosse stata bruciata dal nulla del deserto. 
 La nuova vita in Nevada è fatta di solitudine e nostalgia, fino all’incontro con Boris uno strano ragazzo ucraino che diventerà il solo vero amico di Theo. Insieme a lui scopre l’alcol e la droga, in esperienze sempre più al limite, una spirale di inconsapevole autodistruzione, lacrime e fantasmi dal passato, profonda infelicità e senso di colpa che niente può alleviare. Perso in un abisso di sofferenza, tra furti, botte e creditori violenti, Theo trascorre due anni in quella Las Vegas polverosa e caldissima, un mondo in cui New York e sua madre sembrano non essere mai esistiti. Ma il destino tesse le sue trame e Theo si ritrova ancora una volta alla porta di Hobie che non esita un momento ad accogliere quel ragazzo emaciato e in preda alla febbre; di nuovo tra mobili e oggetti preziosi, Theo riscopre il piacere di quel mestiere antico diventando un aiutante valido e un abile venditore. Il passato però con il suo carico di segreti e il senso di colpa devastante che mai abbandona il ragazzo, si insinuano anche in quel quotidiano pronti a mettere in pericolo l’apparente equilibrio della vita di Theo in un ritmo incalzante di droghe, fantasmi, polizia e truffe in una spirale sempre più votata all’autodistruzione. 

È un romanzo così intenso e ricco da sorprendere il lettore ad ogni pagina, con una storia che ha il sapore del thriller ma che nel profondo ha l’anima del Bildungsroman: l’influenza di Dickens e del novel ottocentesco è evidente, con il giovane orfano di fronte alle difficoltà della vita che cerca disperatamente di trovare il proprio posto nel mondo, la scoperta dell’amore, il rapporto difficile con gli adulti, le esperienze; ma è anche un romanzo estremamente contemporaneo e americano, evoluzione di una grande tradizione di giovani eroi in lotta contro il mondo e i demoni personali, tra timida insicurezza ed eccessi, da Huckleberry Finn al giovane Holden, passando per le esperienze di Sal Paradise on the road alla scoperta della droga e della vita. La trama che si dipana in quasi 900 pagine è intensa, a tratti spiazzante, dal ritmo incalzante e mai superficiale, ogni parola è chiaramente scelta con una cura ai limiti del maniacale, ogni luogo e personaggio così perfettamente delineati da lasciare alla fine l’impressione di averli conosciuti davvero come sicuramente è stato per l’autrice che negli undici anni necessari alla stesura di questo romanzo non ha lasciato nulla al caso e vi si è dedicata anima e corpo in una dedizione totale al mestiere di scrivere che oggi ha qualcosa di commovente. 

Lontana da ogni logica di mercato, indifferente al gusto dominante, alle dinamiche di vendita e ai tempi del marketing, Donna Tartt ha scritto una storia senza tempo: profondamente calata nel mondo contemporaneo ma dal chiaro sapore ottocentesco quando la lettura era un piacere da godere a lungo grazie a storie che non si esaurivano nello spazio di poche centinaia di pagine e senza perdere mai né il filo della trama né il gusto per la parola. E ancora una volta l’autrice torna a raccontare una storia di formazione; la vicenda di Theo è una discesa agli inferi a cui fino alla fine speriamo tenacemente corrisponda una risalita ma ciò che è certo è il peso del passato e il senso di colpa che condiziona tutta la sua vita di adolescente e poi di uomo. È l’incapacità di accettare la perdita e superare un trauma così terribile e l’attentato terroristico, con quel boato che non smette mai di risuonare nella mente dei sopravvissuti, è raccontato in pagine così riccamente dettagliate da richiamare immediatamente quelle immagini tristemente note; è la perdita dell’innocenza, è distruzione che spezza quel legame e quella vita che ancora sembrava possibile, perché « perdere lei fu come perdere l’unico punto di riferimento in grado di guidarmi verso un luogo più felice, verso un’esistenza più ricca di legami e più congeniale». Il ricordo della madre e dei giorni felici è balsamo e veleno insieme, perché la memoria si mescola al senso di colpa e la sofferenza per la perdita di lei è insopportabile: 
Com’era possibile sentire la mancanza di qualcuno come io sentivo quella di mia madre? Avrei voluto morire, da quanto mi mancava: era un bisogno terribile e fisico, come quello d’ossigeno sott’acqua. Sdraiato senza riuscire a prendere sonno, cercavo di ritrovare i ricordi più belli che avevo di lei – di imprimermela nella memoria, per non dimenticarla-, ma al posto dei compleanni e dei momenti felici continuavano a tornarmi in mente scene banali come quella in cui, pochi giorni prima che morisse, mi aveva fermato appena fuori dalla porta di casa per togliermi un filo dalla giacca della divisa della scuola.
Sono probabilmente tra le più belle pagine sul sentimento che lega madri e figli, così intense e strazianti percorrono tutta la storia e la vita infelice di Theo. È storia del caos dell’esistenza, simbolo estremo della caducità dell’uomo e dell’incertezza della vita che Theo vive sempre in una pericolosa precarietà (i mesi dai Barbour, la tutela temporanea di Hobie) cercando soltanto di restare a galla, tra un’overdose e l’altra, e sfuggire a quell’abisso che lo attira a sé: 
Perfino il marciapiede sembrava sul punto di sgretolarsi sotto i miei piedi, facendomi precipitare dalla Cinquantasettesima fin dentro un abisso senza fondo, in cui nulla avrebbe potuto fermare la mia eterna caduta. 
E il senso di colpa - per la morte della madre, per il furto del dipinto, per le truffe- è il veleno che rovina l’esistenza di Theo. Intorno a lui gli adulti sembrano quasi sempre incapaci di recitare il ruolo di genitori o tutori responsabili e affettuosi, di capire davvero ed essere responsabili e presenti come lo era stata la madre. Sono invece padri – quelli biologici soprattutto - inaffidabili, immaturi e spesso violenti, oppure problematici e malati ma egualmente incapaci di prendersi cura dei propri figli; le figure materne sono quasi del tutto assenti, sono il ricordo di un passato perduto e figure idealizzate, o donne fredde all’apparenza che un tragico evento priva di ogni interesse ma allo stesso tempo rivela un profondo desiderio di amare. Ma laddove i legami di sangue sono fragili e complicati, i padri elettivi sono invece in grado almeno di rispondere ad esigenze di affetto, anche questi rapporti imperfetti che non riescono a salvare dai demoni che ci portiamo dentro ma almeno pallida ombra di ciò che significa famiglia: 
[…] E malgrado le nostre chiacchiere fossero casuali e sporadiche, non erano mai banali. Anche un semplice “come stai?” era colmo di sfumature; e la mia solita risposta (“Bene”) lui la decifrava in fretta, senza che dovessi aggiungere altro. E nonostante non fosse un ficcanaso, e non mi sommergesse di domande, io sentivo che mi comprendeva meglio dei vari adulti il cui lavoro consisteva nell”entrare nella mia testa” […]. Però – soprattutto- Hobie mi piaceva perché mi trattava come un compagno e un buon conversatore. 
Anche l’amicizia, imperfetta e complicata, è un filo sottilissimo che tiene Theo alla vita, lo strappa alla solitudine pur non riuscendo a colmare la profonda infelicità che lo opprime. Boris è l’unico vero amico di Theo, con lui litiga furiosamente, prova ogni tipo di droga, si azzuffa e si confida, in un rapporto sempre in bilico tra amicizia e amore. Complicato, il confine tra giusto e sbagliato incerto e mobile, innocente e corrotto allo stesso tempo, Boris rappresenta uno dei rapporti più solidi di Theo e un appiglio alla vita: 
E io pensai che nonostante i suoi difetti, che erano tanti e spettacolari, il motivo per cui Boris mi piaceva ed ero sempre felice quand’ero con lui, fin dal momento in cui l’avevo conosciuto, era che non aveva paura. Non capitava spesso di incontrare qualcuno che si muoveva per il mondo nutrendo per esso un tale aspro disprezzo ma anche una fede stramba e incrollabile nel “Pianeta della Terra”, come gli piaceva chiamarlo da bambino. 
E soprattutto, al centro di ogni cosa, c’è l’arte, la bellezza, dal potere consolatore e salvifico cui l’eroe si aggrappa disperatamente; quel cardellino, ricordo di un passato più felice diviene il simbolo dell’innocenza perduta, bellezza consolatrice che con la sua luce ha il potere di dare un senso al caos della vita: Il quadro mi aveva fatto sentire meno mortale, meno ordinario. Era stato un sostegno, una forma di rivalsa, di nutrimento e di resa dei conti. Era il pilastro che aveva tenuto in piedi la cattedrale. Ed era terribile scoprire, ora che era scomparso all’improvviso, che dentro di me, per tutta la mia vita adulta, ero stato sorretto da questa colossale, crudele, invisibile gioia: credere che la mia intera esistenza avesse trovato il suo equilibrio grazie a un segreto che poteva disintegrarla da un momento all’altro. È l’antico sforzo dell’uomo di esorcizzare la morte e la caducità della vita mediante l’arte e la bellezza, di imprimere eternità a qualcosa di fragile come l’esistenza e riempire – come diceva Walter Pater- di bellezza quel breve intervallo di anni che ci sono concessi espandendolo proprio grazie all’arte, la più sublime delle passioni.

Debora Lambruschini