mare accarezza, il vasto ed alto sole,
a Te che cresci in opulenza, vale!
A Te, per carità di Te, m’inchino!”
(Dal sonetto “Alla città natale” di Giosuè Borsi)
Giosuè
Borsi (1888 – 1915) nacque a Livorno, nella casa di via degli inglesi. Dovette
il suo nome al Carducci, amico del padre. Studiò al liceo classico Niccolini
Guerrazzi e si laureò a Pisa.
Così
descrive se stesso:
Nere chiome; occhi bruni e lunghe ciglia,narici aperte; impube avida bocca,
voce grave, parola che somigliauna dritta saetta quando scoccaErto busto; esil corpo che s’abbiglia
Con cura forse troppo vana e sciocca.
Cominciò a poetare presto, con versi, manco a dirlo, d’ispirazione carducciana. Il padre, Averardo, nato a Castagneto Maremma, era uno dei tanti
letterati che orbitavano attorno al Carducci, indiscusso maestro dell’epoca.
Chiamò il figlio Giosuè proprio in onore dell’amico poeta.
In un
periodo di sperimentazione e di avanguardia come quello, la posizione di Giosuè si
attestò su forme tradizionali, classicheggianti, imitatorie.
Voci
Chi sussurra così? L’onda del mareOggi somiglia un pianto doloroso,
e par che pianga e pare
che dica. – Io non avrò nessun riposo.Chi gorgheggia così’
Quel rosignolo,
la sera, piange tantoperché si sente soloe per compagno ha il canto.Chi mormora così? Sono le frondeD’un alberello in fiore:sanno che al mondo quel che nasce muore,e il vento passa, ascolta e non risponde.E questo canto flebile e tranquillo?Senti: - fiorin fiorello,io canto sempre come canta il grilloche tutti i giorni inventa uno stornello!E tace il cuore e ascolta l’ansimare,il canto, il gorgheggiare anche , e il sussurro…si lamenta la terra, il cielo, il mare…Una vela è lontana nell’azzurro.
Scrisse commedie, novelle, racconti per l’infanzia, ma anche pezzi critici e
giornalistici. Con lo pseudonimo di Corallina, fu cronista e confezionò pezzi
come inviato sul terremoto di Messina e sulla biennale d’arte di Venezia.
Era elegante, molto ricercato nei salotti, fece vita dissoluta di cui poi si
pentì. Ebbe successo come conoscitore e fine dicitore di Dante. Ma la morte del
padre e della sorella Laura lo gettarono nello sconforto, al punto che, quando
morì anche l’amatissimo nipotino, figlio di Laura, Giosuè tentò il suicidio.
Pur essendo cresciuto in ambiente anticlericale e agnostico, le sventure della vita lo orientarono verso il cristianesimo. Divenne terziario francescano, cioè un laico che s’impegna a vivere nel mondo lo spirito di San Francesco.
Fra il 1912 e il 13 scrisse “Le confessioni di Giulia", dedicate alla donna amata, intesa in versione angelicata e dantesca.
Fu interventista nella prima guerra mondiale perché considerava la morte sul campo come l’espiazione di una vita di peccato.
Pochi giorni prima di morire, scrisse una lettera alla madre, considerata il suo più alto momento letterario.
Pur essendo cresciuto in ambiente anticlericale e agnostico, le sventure della vita lo orientarono verso il cristianesimo. Divenne terziario francescano, cioè un laico che s’impegna a vivere nel mondo lo spirito di San Francesco.
Fra il 1912 e il 13 scrisse “Le confessioni di Giulia", dedicate alla donna amata, intesa in versione angelicata e dantesca.
Fu interventista nella prima guerra mondiale perché considerava la morte sul campo come l’espiazione di una vita di peccato.
Pochi giorni prima di morire, scrisse una lettera alla madre, considerata il suo più alto momento letterario.
“Tutto dunque mi è propizio”, diceva, “tutto mi arride per fare una morte fausta e bella, il tempo, il luogo, la stagione, l’occasione, l’età. Non potrei meglio coronare la mia vita.”“Sono tranquillo, perfettamente sereno e fermamente deciso a fare tutto il mio dovere fino all'ultimo, da forte e buon soldato, incrollabilmente sicuro della nostra vittoria immancabile. Non sono altrettanto certo di vederla da vivo, ma questa incertezza, grazie a Dio, non mi turba affatto, e non basta a farmi tremare. Sono felice di offrire la mia vita alla Patria, sono altero di spenderla così bene, e non so come ringraziare la Provvidenza dell'onore che mi fa.Non piangere per me mamma, se è scritto lassù che io debba morire. Non piangere, perché tu piangeresti sulla mia felicità. Prega molto per me perché ho bisogno. Abbi il coraggio di sopportare la vita fino all'ultimo senza perderti d'animo; continua ad essere forte ed energica, come sei sempre stata in tutte le tempeste della tua vita; e continua ed essere umile, pia, caritatevole, perché la pace di Dio sia sempre con te. Addio, mamma, addio Gino, miei cari, miei amati.”
Riuscirà
nel suo intento: morirà in un assalto a Zagora. Nella sua giacca, insieme a
medaglie insanguinate, saranno ritrovate una foto della madre e la Divina
Commedia.
L’associazione
culturale Giosuè Borsi è nata nel 2004 come continuazione del gruppo omonimo,
attivo a Livorno dal 1988, in occasione del primo centenario della nascita del
poeta. Inizialmente si è occupata di custodire i cimeli del concittadino, prima conservati in un piccolo museo, ora chiuso. Con il
riconoscimento del Comune di Livorno, ha la custodia etica del Famedio di
Montenero, che raccoglie resti e ricordi dei livornesi illustri.
L’associazione, con sede in via delle Medaglie d’Oro 6, mantiene vivo il
ricordo di Giosuè Borsi (1888 – 1915) e promuove conferenze e studi sulla
storia della città e sui suoi personaggi dimenticati. Pubblica con cadenza
semestrale la rivista “La Torre” e ha provveduto a far ristampare numerose
opere di borsiane.
Il
presidente dell’associazione, Carlo Adorni, ha curato un’antologia intitolata “Omaggio a
Giosuè Borsi” con prefazione del compianto professor Loi, di
cui abbiamo un ammirato ricordo come nostro insegnante di storia. L’antologia,
edita nel 2007 dalla casa editrice “Il Quadrifoglio” e corredata di bellissime
foto, contiene versi da varie raccolte - fra le quali Primus Fons - alcune interpretazioni
dantesche - di cui Borsi era appassionato e fine dicitore - il famoso Testamento spirituale, esempio elevato di scrittura
religiosa, e L’ultima
lettera alla madre, il
suo momento poetico più alto.
Come
evidenza Loi, Arte, Patria e Religione furono i tre motivi ispiratori
dell’opera borsiana, seppur egli non sia stato poeta “di grande ala”. Dopo una
vita di piaceri, vissuta con senso di colpa, dopo essere cresciuto all’ombra
degli ideali carducciani e classicisti paterni, dopo aver bramato per se stesso
l’amore della donna e la gloria dell’artista, Borsi ebbe una profonda
conversione spirituale che lo avvicinò al cristianesimo. Il testamento spirituale è una conferma di quanto egli abbia
sentito, pur nella sua beve esistenza, la vanità e il peso delle cose terrene.
Il dolore lo ha colpito, attraversato, prostrato, con colpi ripetuti e brutali:
la morte del padre, della sorella Laura e del nipotino nato dalla relazione di
questa con il figlio di D’Annunzio.
Ma
nella sua morte in battaglia, ricercata, ambita, desiderata, c’è molto di
decadente, l’ultima pennellata wildiana o dannunziana data ad una vita
artistica, sublimata, però, e illuminata, dalla spiritualità, da una ricerca di
purezza francescana. La morte è bella, è
fausta, perché consegna alla gloria, rende leggendari, redime dai
peccati e, tuttavia, in questa morte intesa come coronamento più che come
rinunzia, scompare il terziario francescano, il rinunciante, e riaffiora il
superuomo nietzschiano.
“Lascio la caducità, lascio il peccato, lascio il triste ed accorante spettacolo dei piccoli e momentanei trionfi del male sul bene: lascio la mia salma umiliante, il peso grave di tutte le mie catene, e volo via, libero, libero, finalmente libero, lassù nei cieli dove è il padre nostro, lassù dove si fa sempre la sua volontà.”(pag 172)
Riferimenti
Carlo
Adorni, “Omaggio a Giosuè Borsi”, edizioni il quadrifoglio, Livorno, 2007
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