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Idiosincrasie e nevrosi contemporanee: "Le attenuanti sentimentali" di A. Pascale

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Le attenuanti sentimentali
di Antonio Pascale
Einaudi, 2013

Cartaceo € 19,50


"Questo non è un romanzo". Metanarrativo, spudoratamente magrittiano, l'incipit de Le attenuanti sentimentali, ultimo lavoro einaudiano di Antonio Pascale, strizza subito l'occhio al lettore chiedendogli di seguirlo in quello che nelle intenzioni, peraltro dichiarate, dell'autore vuole essere un inedito e davvero inusuale, letterariamente parlando, "giro in bicicletta". Se, a questo punto, il suddetto lettore (non propriamente ingenuo) si è limitato a drizzare le antenne, è proseguendo nella lettura delle successive tre righe che non potrà fare altro che arrendersi e consegnarsi nelle mani di questa fin troppo scafata voce narrante:
"Sottotitolo: riflessioni filosofiche quotidiane. Ma dài, ho sussurrato tra me e me durante un notte d'insonnia, che schifo di titolo è? Ci vuole qualcosa di semplice" (p. 3).
Fosse la ricetta di un piatto particolarmente prelibato diremmo che Pascale - narratore 'onesto' - dal principio sta presentando gli ingredienti del libro: un'opera che si sta facendo proprio mentre il lettore legge; una riflessione sul genere 'romanzo' in età contemporanea; un buon numero di digressioni filosofico-quotidiane o viceversa; un io narrante invasivo; l'insonnia; i giri in bicicletta, prevalentemente in notturna, in una Roma non certo da cartolina ma abbastanza radical-chic. Mescolati per bene, dosati nelle giuste proporzioni e affidati alla penna sapiente di un masterchef come lo scrittore campano, quello che facilmente sarebbe potuto essere un furbo polpettone 'postmoderno' (virgolette d'obbligo) risulta alla fine un'opera che trova la sua dimensione in una giusta misura di ironia e depressione, situazioni (e dialoghi) brillanti e cadute (poche, per la verità) banali.

Al centro di questo romanzo/non-romanzo si erge, protagonista indiscusso, l'io del personaggio Antonio Pascale, che, come in ogni fictio che si rispetti, non è necessariamente sovrapponibile in toto (e dunque da non confondere) all'Antonio Pascale autore delle Attenuanti sentimentali; un io nevrotico e ipertrofico, e perciò contraddittorio e fragile, che non sfigurerebbe al confronto degli alter-ego cinematografici di Nanni Moretti. Soprattutto, i punti di contatto con il celebre e pluripremiato Caro diario sono notevoli: lì, infatti, il protagonista scorazza in Vespa per i quartieri di Roma come fa, qui (in bici), Antonio Pascale alle prese con un blocco creativo che lo spinge verso una forma di rappresentazione del reale più immediata della scrittura, vale a dire la narrazione audiovisiva. Il leit-motiv dei capitoli che compongono il libro, in realtà dei racconti dotati di una loro autonomia (a conferma dell'indiscusso talento di Pascale per il genere), tra loro intrecciati, mediante una serie di rimandi interni, nella struttura complessiva dell'opera, è dato dalla volontà del protagonista di girare un documentario sui sentimenti nella società contemporanea; una sorta di aggiornamento o versione 2.0 dei Comizi d'amore ai tempi della liquidità sentimentale (Bauman docet).
Sennonché, tra una divagazione filosofica e l'altra dettate dalle contingenze di tutti i giorni (famiglia, lavoro, viaggi, amicizie, interessi e passioni personali), Pascale si rende conto di quello scarto che la narrativa, e dunque il medium-scrittura, possiede rispetto alle altre forme di espressione artistica:
C'ho pensato in treno, verso casa. Mi tornava tutta la giornata in mente. Del resto si scrive per rimettere in ordine. La narrativa è così, un piacevole autoinganno. Anzi, più è introspettiva più è soggetta a inganni. Ma è chiaro, no? L'io è labile, discontinuo, i pensieri sono uno strano miscuglio, insomma la narrazione altro non è che l'estremo tentativo - illusorio e, chissà, a volte commovente - di dichiarare che niente accade per caso. E invece tutto accade per caso, anzi prima le cose accadono, e non le vediamo, poi cerchiamo di interpretarle. Dobbiamo proteggerci dal caos, e i sentimenti sono lo strumento, la nostra corazza. (p. 164)
L'impasse, come si può evincere, non attiene solo alla sfera della creatività, bensì tocca una dimensione più radicale, ontologica si potrebbe azzardare, che viene definitivamente rimossa quando Pascale incontra un'amica francese capace di spalancargli un universo inesplorato grazie a una sola parola magica: 
- Otoficsiòn, dice lei, sciogliendo la parola in un mare di dolcezza di s. - In Francia è un genere conclamato. Non c'è nulla di strano. Parti dal seguente concetto: ora tutto è pubblico. Chi ti accusa di essere ombelicale lo fa, in genere, da un blog, nel quale racconta la sua giornata. Il gioco è proprio questo, dare intensità a fatti minimi. Costruire storie e trame a partire da accadimenti normali che però diventano imprevisti. Trovare la tua serendipity, e non è facile: devi sprecare tanto, e solo alla fine, come in una pratica zen, arriva. Si basa tutto sulla precisione. Più sei preciso in alcuni dettagli più puoi inventare. Perché in fondo, ombelico o no, dipende da quanto grande è il punto d'osservazione. (p. 12)
E il punto d'osservazione di Pascale è ampio davvero, la sua "inquadratura" del reale, da cineasta mancato verrebbe da dire, mette a fuoco nevrosi e idiosincrasie della contemporeneità; zoomando, all'occorrenza, sui fatti più minuti e, apparentemente, banali del nostro orizzonte giornaliero. Che senso ha, dunque, parlare ancora d'amore e di sentimenti - ma, in fondo, di cosa parliamo quando parliamo d'amore?, si sarebbe chiesto un altro cantore della banalità quotidiana uso, come Pascale, alle short stories - pur sapendo che "l'amore assoluto è un racconto, bello perché astratto, quasi sempre vago. Una necessità imposta dall'evoluzione, unirsi procreare e mantenere i figli, renderli migliori di te, tutto questo richiede un progetto comune" (p. 221)? Le certezze razionali, laiche, iperscientifiche e ipertecnologiche di uomini del XXI secolo quali noi siamo, che l'io di Pascale prova a sbandierere, perfino sciorinare in qualche parte (in effetti un po' troppo farraginosa e artefatta) del libro, sembrano però sfaldarsi davanti a un altro tipo di consapevolezza, non raggiungibile mediante gli strumenti del solo pensiero logico:
essere artisti significa corteggiare la propria fragilità. Fragile, cioè narcisista, egoista, depresso, vittima di se stesso e delle sue stesse parole. Vitalità e depressione si sfidano sempre. Se da una parte infondi energia, dall'altra la sottrai. L'artista è uno che può rovinarti a forza di parole insensate, perché se è vero che sa leggere i tuoi dolori è anche vero il contrario: non vede che il suo dolore. (p. 151)
E questa, a ben osservare, è già un'attenuante. Sentimentale, e come sennò?


Pietro Russo