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CriticaLibera - L'uomo che piange alla metro

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Dovendo portare a termine un progetto sull’arte contemporanea, che auspicava l’apertura di un centro che promuovesse la ricerca dell’arte in laboratorio, ovvero nella maniera in cui viene fatta la ricerca scientifica (un’idea non molto facile da spiegare), pochi mesi fa mi sono dovuto trasferire a Roma. Per una settimana, sono stato ospitato da una ricca signora, molto bella e di nobile educazione, la quale gestisce una sorta di b&b in periferia. Dico “una sorta”, perché il suo b&b era piuttosto insolito: si trattava di un enorme castello, con altrettante enormi stanze, dentro le quali erano conservati libri, dipinti e mobili di secoli fa, immersi tra innovazioni architettoniche per nulla stridenti e un design minimalista davvero seducente. La ricca signora, oltre a essere bella, era anche di gusto. Il fatto che ella possedesse entrambe le caratteristiche, mi portava a starle accanto tutto il giorno, per dialogare, ammirarla, sentire il suo profumo e imparare qualcosa in materia di giudizio estetico. Ella, di contro, pareva non disdegnare la mia compagnia; se, per esempio, me ne stavo nella mia stanza a studiare il progetto e, dunque, la trascuravo, veniva a trovarmi, con tutti i suoi modi delicati e amorevoli, chiedendomi se mi stessi annoiando, se mi andava di cucinare con lei una pietanza o, semplicemente, se volessi contemplare il tramonto girovagando intorno al castello.
Per una settimana, insieme a questi momenti da romanzo pseudo erotico dell’ottocento, mi esclusi completamente dal mondo; nel senso che, in quei giorni, non vidi nemmeno un telegiornale e non ascoltai la radio, nonostante mi recassi a Roma ogni giorno e avessi potuto acquistare un quotidiano qualsiasi (sono tutti uguali). Se fossi un medico, prescriverei a tutti questo farmaco dal dolce sapore di socialismo wildeiano.
Facevo colazione in un bar del centro, perché lasciavo il castello la mattina presto e non volevo affatto disturbare la signora per un solo caffè. Mi mettevo in un angolo del locale, poggiavo gli appunti sul tavolo e ripassavo il progetto. Poi, andavo all’università per esercitare soprattutto i muscoli delle gambe. In questo modo: ritiravo un documento, lo compilavo, lo consegnavo presso un dipartimento, il quale mi comunicava che invece sarei dovuto andare a consegnarlo in un altro dipartimento, dall’altra parte della città, il quale, a sua volta, dopo i miei inutili chilometri, si dispiaceva con me perché ormai da tempo avevano cambiato la loro funzione, ma potevano ugualmente prendersi cura della pratica in quanto l’impiegato più anziano, che sarebbe dovuto andare in pensione anni fa, ma era ancora lì per completare gli anni dei contributi, sapeva cosa fare, anche se proprio in quel giorno non era presente: forse ritornava tra qualche mese, forse era stato spostato in un’altra sede. Tuttavia, avevo la possibilità di ritornare al dipartimento da cui ero partito, per ritirare un altro modulo, che non serviva per consegnare la mia pratica, ma per ritirare un ulteriore modulo che, in sostituzione del mancante documento che mi avrebbe permesso la consegna in chissà quale dipartimento, prorogava la scadenza di un giorno. In questo modo, avrei goduto del tempo a disposizione per informarmi su una cosa di cui non capii bene l’argomento, ma, dissero gli impiegati, fondamentale, la quale mi avrebbe aiutato a facilitare, e terminare, un lungo percorso burocratico. Perché la burocrazia sembra noiosa, continuarono loro, e invece permette di non annoiarci.

Il caso volle che in uno dei miei vagabondaggi tra dipartimenti, perdessi il foglio in cui erano spiegate le finalità del mio progetto; e che un gentile signore, che ogni mattina faceva colazione nello stesso bar da me frequentato, avendolo trovato, me lo riconsegnò intatto il giorno successivo, alla metro. Non mi insospettii per quello che egli mi disse, consegnandomi il foglio: “Arte? Stai sprecando tempo”. Ma per il fatto che sia riuscito a trovare il documento, perduto durante uno dei miei tragitti burocratici nevrastenici in giro per Roma. Ci poteva essere una sola spiegazione: l’uomo, non essendo un mago, mi seguiva.
Accade così. Ero alla metro, e mi stavo recando all’università, sperando di trovare il documento. Vidi avvicinarsi verso di me l’uomo del bar, con una carpetta in plastica sotto il braccio. Si fermò accanto a me, la aprì e disse (lo ripeto): “Questo è tuo. Arte? Stai sprecando il tuo tempo”. Inizialmente, lo ringraziai, perché senza quel foglio il progetto non avrebbe avuto valore; dopo, gli chiesi con curiosità: “Come ha fatto a trovarlo?”. Con la sua risposta, capii di avere ragione: l’uomo non era un mago, ma mi seguiva. “Pensi di aver perduto il foglio? No, mio caro… non lo hai perduto. Ti è stato sottratto. Ti vengo dietro da tempo. O meglio, mi hanno detto di venirti dietro. Chi? Non posso dirtelo. E non perché abbia poca voglia. Semplicemente, non so chi sia colui che ha deciso di capire cosa hai in mente”. E andò a sedersi su una panchina. Lo seguii. “Accomodati”, disse. “Questa panchina l’hai pagata anche tu”. Mi fissò, e sorridendo aggiunse: “Arte… scusa se sono diretto, ma sei scemo? Tra tutto quello che potevi stilare in un progetto, ti concentri su un argomento nemico del nostro programma?”. Programma? Quale programma?, mi domandavo. E lui: “Noi facciamo di tutto per annientare il progresso culturale in società, e tu costruisci una macchina che produce cultura? Hai idea di cosa significhi una ricerca scientifica sull’arte? Abbiamo impiegato anni per distruggere il gusto della gente. Tu vorresti ripristinarlo?”. L’uomo conosceva il mio progetto perfettamente. Ciò dimostrava che non solo aveva letto le finalità contenute nel foglio da me smarrito (cioè, sottratto), ma aveva studiato ogni particolare. Mi parlò, per esempio, del “villaggio degli artisti”, le cui pagine, oltre me, aveva soltanto un mio amico pittore, il quale, con le sue intuizioni, era stato utilissimo per buona parte del progetto; e degli schizzi che un altro mio amico annotava sul suo taccuino, come gli studi sull’arte dal punto di vista biologico e misterico.
“Un laureato in filosofia e un gruppo di pittori. Cosa c’è di peggio?”, disse. “Professionisti dell’inutilità, pensatori anarchici. Nemici del programma. Ma ammiro il vostro sforzo”, continuò. Sospirò a lungo. Poi, sorrise: “Forse, non sai ancora chi sono”. Avevo capito chi fosse. Solo una cosa non riuscivo a spiegarmi; così, gli domandai: “Perché mi ha riportato il foglio, se sono un nemico del programma? Insomma, se lei sapeva che senza questo foglio avrei potuto strappare il progetto, in quanto non più valido, mi spieghi come mai me lo ha riportato? Avrebbe anche potuto prendere il progetto per intero, o rapire me e i pittori”. “No”, fece, “troppo facile. Averti rubato il foglio era una prova per invitarti ad abbandonarlo. Ma, notando il tuo odio per la burocrazia, abbiamo pensato che sarebbe stato meglio se lo avessimo restituito. Il piano era un altro. Te lo spiegherò, forse. Comunque, ciò che vuole il programma, che sarebbe poi il fondamento della sua sussistenza, non è prendere con sé la massa, ma mettere la massa nella possibilità di entrare nel programma dolcemente, come una maestra che accompagna in aula il suo alunno, sorridendo e coccolandolo. Puoi rimanere fuori l’aula, se vuoi. Ma siamo tutti dentro, seduti; e tu, l’unico in solitudine. Insomma, non puoi fare a meno del programma”. “E se un alunno si comportasse male e la maestra lo sbattesse fuori l’aula?”, domandai. “Il programma ha inventato la moralità”, ribatté l’uomo. “Ma che senso ha?”, domandai con rabbia. E lui: “Conosci un altro senso?”. Arrivò la metro; si aprirono le porte e la gente entrò dentro… come tanti alunni accompagnati da una maestra invisibile che li spingeva alle spalle”. L’uomo osservò, e si commosse. “Un altro senso ci sarebbe”, disse, asciugandosi una lacrima. “Ed è per questo motivo che parlo con te. Balzò in piedi, si diresse al vagone, entrò e scomparve tra la gente”. La metro partì, e rimasi solo, sulla panchina. Davanti ai miei occhi, i binari vuoti. Di quale senso mi stesse parlando, non saprei. So, però, quale senso avesse la sua lacrima: essa era ciò che gli scrittori e gli artisti indicano come dolore di uomo innamorato.
Circa un’ora dopo, ritornai al castello. Dissi alla proprietaria che volevo prenotare la stanza per un’ulteriore settimana, ed ella ne fu contenta. Spedii il progetto al mio amico pittore, il quale incollò tutte le pagine su una tela enorme, e ci dipinse sopra un uomo che piange alla metro. 

Dario Orphée