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Anche il terrorismo nero ha avuto la sua “meglio” gioventù

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La legge dell’odio

di Alberto Garlini

Einaudi, 2012
pp. 809


Tribunale di  Milano, 1985: al banco degli imputati siede Franco Revel, un  leader di Lotta Nazionale (sigla che adombra quella di Avanguardia Nazionale). Arrogante, provocatorio, reticente è protagonista di un processo per strage. In testa ripercorre l’infernale romanzo di formazione del camerata Stefano Guerra, per il quale il teorico del neo-fascismo a tinte esoteriche Julius Evola coniò l’epiteto “Lupo azzurro”, dagli scontri del 1968 fino alla Terra del Fuoco.
Il 16 marzo 1968 Stefano Guerra è a Valle Giulia. Sta scappando dalla polizia che ha sfondato alla facoltà di Giurisprudenza e, finito per caso in un’aula vuota, uccide involontariamente un giovane comunista. È il primo omicidio e l’inizio del suo percorso. A Valle Giulia c’è anche Franco che ha schierato le sue milizie, quel giorno, a fianco dei rossi. Sono anzi gli uomini di Lotta Nazionale a tenere testa alla polizia e si risentiranno in seguito che questo venga dimenticato. A Franco basta guardare Stefano per capire che ha davanti il perfetto combattente: giovanissimo, feroce, arrabbiato. Uno che sembra «portare dentro la rivoluzione».
Da questi famosi fatti, si dipanano l’orizzonte angoscioso della strategia della tensione e la testa e la psiche sconcertanti di un terrorista neofascista. Un groviglio di ideologia, frustrazioni sociali, vicende umane e passioni che restano a uno stadio pre-politico. A un certo punto la storia d’amore tra Stefano e l’archeologa Antonella è il miraggio di un’altra vita possibile, fatta di bellezza, libertà, cultura. Antonella amerà Stefano senza sapere che è il carnefice del fratello, quel ragazzo ucciso nell’aula di Giurisprudenza. A parte l’excursus in Afghanistan dove Garlini inscena addirittura un incontro tra il protagonista e Bruce Chatwin, il ritmo è serratissimo.

Sono gli anni di piombo visti da destra, è la “meglio” gioventù dell’eversione nera a raccontarsi. Questo il merito di Garlini, antropologico e letterario. Perché quello è un mondo che ha segnato in profondità la nostra storia, volenti o nolenti, ma è rimasto opaco rispetto alla galassia del terrorismo di sinistra. Tuttavia se il dato storico-politico, il ruolo del palazzo, dei poteri occulti, dei servizi deviati, restano sullo sfondo è perché all’autore interessa un vicenda esistenziale, come l’odio possa mettere radici e crescere fino a una deriva assassina e palingenetica. Le pagine diventano bagliori di esaltazione quotidiana: noi lettori sentiamo pulsare la rabbia di Stefano, la sua ebbrezza, quasi erotica, per la distruzione, la sua fascinazione virile per le armi. Per la morte. Ma questi soldati neri, che vogliono abbattere il sistema e credono alla violenza eroica come unica forza purificatrice dell’universo, restano dei ragazzi sbandati tra alcol, sesso e bravate.

Una manovalanza troppo più piccola del sottobosco che gira attorno a essa e che mescola personaggi squallidi e ambigui, complotti golpisti, ambizioni, vizi e debolezze, vendette e ricatti a ogni livello. Se anche i giovani “Lupi azzurri” crederanno di essere migliori dei vecchi reduci di Salò o di chi li dirige, il loro ideale perverso sarà destinato alla sconfitta non appena pretenderanno di restare indipendenti dai giochi.
«Forse l`intera stagione di volontà rivoluzionaria, di violenza, nasce da una mancanza di scappellotti dei padri sui figli» pensa Stefano in un passaggio-chiave: la mancanza, o la patetica inadeguatezza, dei “padri” – a destra come a sinistra – percorre il libro, fino alla scoperta del trauma originario di Stefano rivelato nel finale. Ancora un dato umano osceno e al contempo struggente a costituire la linfa del romanzo, la sua forza. Non a caso, raggiunta la Terra del Fuoco, non svelo ovviamente come e perché, Stefano ricorrerà a un’autobiografia-confessione per comporre le sue scissioni interiori: è pensabile reazione più intima a una vita sprecata?