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Pillole d'autore: John Ashbery, un mondo fatto di parole

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John Lawrence Ashbery non avrebbe bisogno di presentazioni. Nato a Rochester, nello stato di New York nel 1927, ha all’attivo più di venti raccolte di poesia ed è considerato, anche da Harold Bloom tra gli altri, il più celebre e importante poeta americano vivente. Esponente della “Scuola di New York”, insieme ad autori come Kenneth Koch e Frank O’Hara, ha esordito nel 1956 con la raccolta Some Trees (Certi Alberi). Da allora ha pubblicato con una frequenza e una costanza che non hanno paragoni nella storia recente, sicuramente non in quella americana. In Italia sono apparse poche e sparute edizioni, fino alla pubblicazione, nel 2008, da parte di Luca Sossella editore, di una sorta di antologia - curata da Damiano Albeni e Joseph Harrison e tradotta dallo stesso Albeni insieme a Moira Egan - che prende il titolo da un verso di Ashbery del 1970, Un mondo che non può essere migliore («… while you, in this world that could not be better/ waken each morning to the exact value of what you did and said, which remains») e attraversa tutta l’opera dell’autore, dalla prima raccolta, fino a quella che, all’epoca, era la più recente.

In un’intervista rilasciata a Meghan O’Rourke della rivista Slate, nel 2005, John Ashbery dichiara di avere sempre ricercato un genere di poesia che sia il più possibile challenging, una poesia «di cui la critica non può parlare», che sfugga al tentativo di interpretazione conclusiva, che costringa a mettere da parte tutte le certezze, per lasciare il lettore sempre fuori equilibrio, spiazzato ed estasiato. La poesia di Ashbery rappresenta una sfida sempre aperta e sempre avvincente; apre interrogativi ai quali non sembra disposta a rispondere, porta alla luce paure mai assopite e gioie mai consumate, lascia dietro di sé spazi vuoti, note stonate, problemi irrisolti. Eppure, alla fine, sembra sempre che tutto torni, che ogni testo sia un universo perfetto nella sua imperfezione, sembra che la sua stessa possibilità di esistere poggi sull’alternanza tra oscurità e lampi di luce, tra senso e non senso. Gran parte della fortuna di John Ashbery dipende proprio da questa sua capacita di stupire, dall’abilità di rinnovarsi all’infinito senza mai rinunciare ai suoi tratti liminari, agli elementi essenziali del suo stile. Joseph Harrison nell’introduzione all’antologia di Sossella individua proprio in questa caratteristica la straordinarietà dell’opera di Ashbery; perché a essere straordinario non è il fatto di raggiungere risultati all’avanguardia, ma il fatto di rimanere all’avanguardia per oltre un cinquantennio. Il fatto di apparire costantemente «diverso», senza mai cambiare davvero.

Adesso tutto è diverso senza essere cambiato
come se ci si trovasse a passare per la stessa strada a orari diversi
e nulla di ciò che è vecchio potesse preferire il nuovo.

Un ultimo mondo, da Il giuramento della pallacorda


La poesia di John Ashbery affonda le radici nella tradizione inglese e americana, lega al suo interno il romanticismo visionario di Emily Dickinson, Emerson, Stevens, l’orfismo di Whitman, il classicismo rinascimentale europeo, la potenza improvvisatrice della poesia Beat, mischia tratti dadaisti e spunti surrealistici, arte pop ed espressionismo astratto, trovando sempre un proprio respiro e una propria autonomia. Ogni testo costituisce un mondo a parte, con le sue regole e le sue disfunzionalità. Ogni testo sembra essere compiuto proprio in quanto rimane irrisolto. In questo senso Ashbery è considerato un autore vicino al “canone postmoderno”. Postmoderna è già la sua ricerca di un senso che sta sempre oltre, possibile solo perché irraggiungibile, sfaldato e corroso disfatto ancor prima di essere raggiunto. Postmoderna è l’idea di un tempo che non scorre in maniera lineare e procede per salti e scossoni, per alternanze e momenti di paralisi, un tempo che passa ma rimane distante e incorruttibile. Postmoderna è l’idea di uno spazio totale e omnicomprensivo, indistinguibile, in cui la carta e il territorio, i segni e il loro valore simbolico, si sono fusi tra loro in un unico organismo irrappresentabile. Postmoderne infine sono molte sue soluzioni stilistiche; dalla tendenza a sottolineare che l’arte è un gioco che acquisisce e trova il suo senso solo rimanendo perfettamente insensato al frequente ricorso a riflessioni di tipo metapoetico e metalinguistico, dal miscuglio di codici (linguaggio economico, giornalistico, televisivo, scientifico, colloquiale, quotidiano), all’impiego di una retorica sempre parodistica e dissacratoria.

[…] Si vede
alla fine che i buoni e i bravi saranno ricompensati,
che l’ingiusto è dannato a bruciare in eterno
attorno al proprio errore, ad ogni modo più triste e più saggio.
Tra questi emblemi gli altri si arrabattano
come noi, insicuri ma indossando candidamente
la loro funzione di personaggi secondari che si deve
tenere a mente. Siamo noi a creare questa
giungla e a chiamarla spazio, dando nome a ogni radice,
ogni serpente, per come suona il nome
quando tinnisce ottuso contro il nostro piacere,
indifferenza che è piacere. […]

Sherazade, da Autoritratto in uno specchio convesso



Ashbery ci dà sempre l'immagine di una scrittura irridente e svogliata, volutamente troppo complessa, di una superficialità ostentata che sembra voler respingere i suoi lettori, mentre alla fine i suoi versi arrivano spietatamente fino in fondo, costringono sempre a una rilettura, aprono il confronto con il baratro. Il suo è un caos ordinato alla maniera del pittore Jasper Johns, che distrugge e irradia allo stesso tempo, che, per rubare un’espressione di Zygmut Bauman, si sforza di aprire davanti al lettore la porta del senso, spalanca un vuoto pieno di significati nascosti, di sensazioni irriproducibili. Dietro i suoi versi non è mai possibile individuare un soggetto preciso o un tema; come per la pittura di Pollock il nucleo centrale è un sentimento che prende forma in maniera imprevedibile.

Ho intenzione di restare qui un po’
perché si tratta solo di momenti, momenti di lucidità,
e vi sono recessi da raggiungere,
un ultimo livello d’ansia che si scioglie
nel divenire, come chilometri sotto le suole del pellegrino.

Il compito, da Il doppio sogno della primavera





La poesia di Ashbery è una poesia “difficile” senza mai volerlo essere, da un lato respinge, dall’altro attira, sconvolge, protegge. Il poeta statunitense modella le strutture metriche della tradizione anglo-americana, si lascia andare in lunghissime prose poetiche, lavora sul linguaggio e sui significati, sceglie sempre la parola più inusuale, meno familiare, in un certo senso perturbante. Però dietro questa complessità è possibile rintracciare alcuni tratti essenziali. La necessità di comunicare e di trasmettere messaggi, anche in un’epoca di stagnazione entropica dei messaggi, la volontà di trovare un contatto con i lettori, di far passare il disagio, l’emozione, il delirio, la rabbia, anche se solo dagli angoli più remoti e dalle fessure. I testi di Ashbery mettono in scena paesaggi distopici di un’America ormai irriconoscibile, attraversati da personaggi trasparenti e impalpabili, da un io senza corpo, che passa senza lasciare traccia. E senza lasciare traccia passa anche tutto il resto; il tempo trascorre, i corpi si corrompono, lo spazio si deforma, ma tutto rimane uguale, immutato. L’io del poeta attraversa il mondo senza sporcarsi le mani, senza mai rompere definitivamente il silenzio, seguendo un istinto esistenziale sommesso, un puro esser-ci che accetta le cose per come sono, il loro prendere forma, accetta la scomparsa, senza tragedie, senza sussulti, senza commenti, perché alla fine non c’è nulla da dire, non c’è più nessuna disperazione da consumare.

Mentre contemplavo le placide macerie venni sconcertato
da una cosa: cos'era successo e perché?
Un istante eravamo immersi nella ribellione fino a qua
e quello dopo la pace aveva sottomesso le legioni dell'infernalità.

Un paese mondano, da Un paese mondano

È il risultato estremo della sua ironia; mettere in scena un dramma che non è mai consumato, che rimane costantemente sospeso e che, proprio per questo, finisce con il generare un’angoscia vivifica e vivificante.

Un giorno o l’altro dovrai dirmi delle tue intenzioni,
ma adesso devo stare qui su questa corsia di sorpasso
nel caso arrivino le vettovaglie
che non mi servono, perché sono una creatura che vive, respira.
Ma ti ho chiesto del tuo cappello.
Oh si, beh, è importante avere un cappello.

Modred, da Sussurri Cinesi

Il lunghissimo percorso poetico di John Ashbery - tra le altre cose l’unico poeta ad aver vinto con una raccolta (Autoritratto in uno specchio convesso) il premio Pulitzer, il National Book Award e il National Book Critics Circle Award - non ha seguito alcuna parabola. É rimasto solido e lineare negli anni, ha mantenuto la sua forza e la sua costanza. Oggi Ashbery è riconosciuto come il più grande esponente di una nuova linea poetica, lontana dal grande mainstream della tradizione anglo-americana degli ultimi due secoli, rappresentato dalla poesia di tipo confessionale, che ha in Wordsworth il capostipite e in Lowell il più celebre epigono. L’idea che ci sbilanciamo a definire “nuova”, nel contesto anglo-americano, è che la poesia non debba necessariamente nascere da un evento o da un sentimento personale, non debba dar voce all’inconscio taciuto del poeta o generare visioni affettive, ma debba invece limitarsi a dispiegare la forza espressiva della parola, liberare il suo potenziale creativo e associativo. La poesia, prendendo la celebre distinzione del critico americano Brian McHale tra scrittura epistemologica e ontologica, non ha più il compito di mettere in evidenza un senso che è già implicito nelle cose, ma bensì creare essa stessa un senso, ex-novo e dal nulla. Questa è la grande sfida di John Ashbery; nei suoi versi non sono le parole a essere generate dal mondo, ma è il mondo a essere costruito con le parole.

Non per niente il poeta e critico Richard Howard, nel recensire The Double Dream of Spring (Il Doppio Sogno della Primavera) sulla rivista “Poetry” scriveva che, «le poesie non sono “su” nulla, sono loro a essere qualcosa, esse sono la loro stessa creazione, e sarebbe più giusto dire che il mondo è, invece, una loro chiosa, un saggio critico su di esse. Con tutta la sua modestia e amabilità, nondimeno questa è la grande asserzione simbolista di Ashbery: che il mondo esista per finire in un libro».

Il vago sospetto è che sarà sempre così,
l’apparenza, il modo in cui le cose all’inizio si terrorizzavano
nella luce della notte e poi si rivelarono essere,
seppure ancora capaci, nondimeno, di un’angusta fedeltà
che tu e loro volevate diventare:
niente sospiri come musica russa, solo un immenso sdinapanarsi
fuori verso i punti di confluenza e la tenebra oltre
questi prati spogli, costruiti a spese dell’oggi.

Pirografia, da I giorni della casa galleggiante


Emiliano Zappalà