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L'epopea di un mondo infranto: "I demoni del deserto" di Bijan Zarmandili

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I demoni del deserto
di Bijan Zarmandili

Edizioni Nottetempo, 2010
pp. 260


I demoni del deserto è il quarto romanzo di Bijan Zarmandili, giornalista esperto della politica mediorientale per il Gruppo Espresso-Repubblica. Il suo testo ha tutto il sapore del Medioriente non solo perché è ambientato in Iran, ma perché è intriso in modo più profondo delle voci e dei ritmi di un mondo affascinante. Nonostante il romanzo prenda avvio in un giorno preciso, il 26 dicembre del 2003, lo si potrebbe collocare benissimo in un mondo lontano, oppure in un passato prossimo; è una storia che ha un che di atemporale e assurge a paradigma. Il motore dell’azione è il viaggio che i due personaggi principali, un nonno e la sua piccola nipote, intraprendono in seguito a un terribile terremoto che ha distrutto completamente la loro città natìa, quella Bam dalle alte torri che si ergeva ai margini del deserto. Unici sopravvissuti della famiglia, i due si muovono alla ricerca di una salvezza, si dirigono verso il mare, a sud. Separati da distanze che sembrano incolmabili, Agha Soltani e Hakimè, bambina autistica che vive in un mondo che ha pochi contatti con quello reale, riescono a comprendersi a poco a poco, superando ostacoli e peripezie che minacciano di allontanarli per sempre. L’inaccessibilità e i silenzi lasciano progressivamente il posto a una comunicazione fatta di sguardi e poche parole, per arrivare, infine, al tentativo di costruire una vita insieme. L’anziano maestro pensava di sapere tutto di sé ma, proprio nella stagione finale della propria vita, è costretto a reinventare se stesso e il suo destino, scappando dall’amata Bam e dai ricordi di una vita, seppelliti ormai sotto le macerie. Un viaggio per ritrovare le fila della propria esistenza, come nella migliore letteratura di tutti i tempi; un viaggio come strumento di conoscenza di sé e del mondo. A questo si associa l’idea del superstite privato di tutto che è tipica della narrativa del ‘900. Non mancano nel testo dei momento di grande efferatezza, la descrizione delle violenze di cui sono vittime i bambini nei territori di guerre, specialmente in seguito alle grandi catastrofi. Ma trovano posto anche l’amicizia sincera e l’aiuto disinteressato. Zarmandili descrive un panorama umano di grande realismo, senza bisogno di addolcirlo con buoni sentimenti o di calcare la penna per far rabbrividire il lettore di fronte alle meschinità degli uomini. Tutto è in equilibrio, retto com’è da una scrittura essenziale che diventa lirica in occasione di certe descrizioni di paesaggio, quando si traduce in colore puro, nitida pennellata, tattilità. Non manca la penetrazione psicologica che si traduce in un’estrema capacità di ritrarre soprattutto l’universo femminile, spesso raccontato attraverso gli sguardi e i silenzi, quasi a sancire quel mistero che la donna resterà sempre per l’uomo.
I demoni del deserto è un libro che ha il fascino dell’epopea, Agha Soltani, Hakimè, Amir Khan, Agha Salami hanno dei volti antichi e, al contempo, sanno raccontare l’Iran dei nostri giorni. Ed è un epopea sulla vita e sul senso della vecchiaia. Lo stesso autore, che ho avuto modo di incontrare a una presentazione del libro, durante il Festival della Letteratura di Milano, ha raccontato di aver voluto scrivere un libro sulla vecchiaia come stagione di cambiamento dell’esistenza e non come il periodo della staticità e del rimpianto. L’anziano maestro viene rieducato dalla bambina al caos della vita e vi si adegua, riscoprendo forze interiori che non ricordava di possedere. Non è un caso che l’autore abbia scelto di collocare, in apertura al testo, un brano di Walter Benjamin (Tesi di filosofia della storia, 1940):
C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta.
È dal caos del mondo infranto che si scorgono, alla fine, la possibilità di costruzione, la speranza e la bellezza del progresso.


Claudia Consoli