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Mario Grasso, "Latte di cammella"

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Latte di Cammella
di Mario Grasso
2012 Sensoinverso

Pp 185
17,00


L’errore di “Latte di Cammella “ di Mario Grasso è cedere alla tentazione della narrativa, volendo dare una veste accattivante a ciò che dovrebbe essere solo reportage, brutale denuncia. L’inizio del romanzo, col giornalista Vanni Ossarg che fa un sogno premonitore e poi incontra personaggi inquietanti in un villaggio diroccato, brumoso e fuori dal tempo, sembra precipitare il lettore in un thriller paranormale, per poi riacciuffarlo immediatamente per i capelli e lanciarlo nella materia dell’inchiesta giornalistica. Vanni Ossarg andrà in Somalia e poi in Sierra Leone, raccontando a modo suo ciò che vede. Di là dal contenuto completamente diverso, il modo di esporre è quello de “La profezia di Celestino”, in un mix fra saggio e narrativa, in un accumulo di dialoghi, incontri, illuminazioni e indottrinamento del lettore.
Il reportage di Grasso, il suo modo di raccontarci l’Africa, è viziato da uno spiccato indirizzo di pensiero, teso alla giustificazione forzata di tutto ciò che è il continente nero, visto come innocente e incolpevole, come originariamente “buono”. Vengono così trovate attenuanti per la sharia, le incursioni dei pirati, addossando all’occidente tutte le colpe.
"Chi vuole aiutare la Somalia non deve pensare alle lotte dei clan, alle brutture del fondamentalismo esasperato, alle tante cose che devono cambiare, ma alla gente e ai bambini la cui unica colpa è di essere nati lì o altrove." (pag. 101)
Vero è che la denuncia è indispensabile, che troppo spesso le guerre a colpi di machete - sbrigativamente etichettate come etniche o tribali - sono dimenticate dai nostri telegiornali, con i loro orrori impensabili. Fiumi di sangue e di morte scorrono in Africa, inseguendo diamanti, petrolio, rifiuti tossici scaricati dal cielo, con la complicità di politici corrotti, signori della guerra, multinazionali rapaci e persino organizzazioni finto-umanitarie, soprattutto complice, e muto testimone, l’occidente.
Il libro è una carrellata di orrori: bambini trasformati in macchine per uccidere, costretti ad amputare braccia e gambe di parenti, resi aggressivi con la cocaina inserita sotto pelle, bambini di cui si è distrutta l’umanità, rendendoli soli al mondo, vittime a loro volta di mutilazioni atroci, di malattie, di fame, di emarginazione e analfabetismo; bambine stuprate e infettate con l’Aids; figli sacrificati dagli stessi genitori, vaccinati troppe volte in cambio di una zanzariera da rivendere.

La parte più bella del libro, tuttavia, non è né la storia narrata, né l’intento d’insistita accusa, ma piuttosto la descrizione dell’Africa, dei suoi paesaggi polverosi e dorati, dei suoi tramonti di fuoco, dei suoi odori speziati ed acri, dei suoi immensi alberi di baobab, delle sue acacie spinose, del fumo acido dei copertoni bruciati, del fetore delle discariche a cielo aperto, dei liquami versati in mare, dei mercati dove si vende merce poverissima, cose che noi getteremmo nella spazzatura e lì significano un altro giorno di sopravvivenza. Pagina dopo pagina entriamo nei luoghi, sentiamo gli odori, percepiamo il calore e il vento, le voci, vediamo i volti di ebano e di giaietto.

C’è un altro filone nel romanzo, ammesso che di romanzo si possa parlare, ed è il sentimento che sboccia fra Vanni e Sonia, colei che ha a cuore la sorte dei diseredati, degli ultimi della terra. L’atto d’amore è descritto con tono aulico, senza volgarità, come un balsamo che lenisce le ferite, che dà tregua all’orrore, come risarcimento per “l’eroe”.
Lo stile è pulito, con spiegazioni particolareggiate ma non sempre necessarie, nella foga di dire tutto e fin troppo, di raccontare e investigare ogni aspetto dei rapporti fra Occidente e continente africano, comunicando fatti, notizie, dati statistici, mescolandoli ad opinioni e riflessioni personali.  


Patrizia Poli