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“L’appropriato governo del fuoco” (dialogo con Alessandra Palmigiano)

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Il Salotto: dialogo con Alessandra Palmigiano

L’appropriato governo del fuoco è il titolo che Alessandra Palmigiano, italiana trapiantata ad Amsterdam, ha assegnato alla sua seconda raccolta poetica. La proposizione è tratta dal Libro sulla composizione dell’alchimia di K. ben Jesid. E l’immagine presentata dal titolo è in perfetta coerenza con il suo contenuto. Cosa voglio dire? Che “l’appropriato governo del fuoco”, a parte lo stile adottato, i versi, i frequenti enjambement e un uso della punteggiatura minimale (che ritrovo frequentemente nella poesia contemporanea), mantiene il carattere di un autorevole testo di biologia. Il “manuale” (come tale all’autrice piacerebbe che la raccolta fosse letta) narra le vicende di un corteggiamento, le vicende di un amore. E in undici versi, come per un chiarimento, viene sintetizzato…
cosa significa amare se stessi:
niente, pensavo anni fa, amare è
amare altro da sé. ma ciascuno
sta dalla propria parte, e volere è
sempre volere per sé. ed è così
infatti che si inizia da adulti
a voler bene a se stessi:
nel disgusto di sé, non c’è
una parte da cui stare, e si inizia
con l’amarsi
per stare insieme, come per natale.
L’amore scorre come su assi cartesiani, razionalmente. Non ci sono sbavature sentimentali che sconfinino oltre la razionalità. Il sentimento è alchimia, preparato in laboratorio. E colei che di questo amore parla è una donna (o forse un uomo: l’identità è stata volutamente nascosta) che appare fredda, come i venti olandesi, ma fragile e innamorata. Ma iniziamo dalla fine (capirete perché). L’ultima sezione del libro, intitolata “Convergenza”, è un epilogo. Andrebbe letta in ordine inverso, dalla fine all’inizio. A detta di chi sta scrivendo, tale “atteggiamento” (che vale da suggerimento) è stato assunto perché, mentre si raggiungeva la fine, la sensazione provata era simile al venir meno della terra sotto i piedi. Il desiderio è stato di ritornare al processo precedente, quello che nel mondo animale è chiamato corteggiamento, che nel mondo umano, al di là di appartenenze a specie e risposte a impulsi, è la parte più bella (perché è l’attesa dell’amore, non l’amore in sé), e che nel mondo di Alessandra Palmigiano è “pupille”, o meglio, “trattative”, le trattative attuate nell’amore. Spesso, ciò a cui si giunge nell’amore (mi riferisco al genere umano in comparazione al testo) è «Disgelo», qualcosa che non rallegra. Non sempre, ma spesso. Dunque, tutto diventa previsto, un gioco solitario. Due domande: perché amiamo (se un po’ conosciamo l’epilogo)? E perché continuiamo ad amare (altrove, rispetto il soggetto a cui prima ci si indirizzava)? Rubo la tesi di un filosofo medievale: la passione non si “fissa”?
La storia di cui la raccolta parla è raccontata con la freccia del tempo rovesciata, ossia dalla fine all’inizio. L’ultima sezione del libro è certamente il suo epilogo, osservato dal punto di vista del libro. Ma dal punto di vista della storia è l’inizio. Quindi, leggendo (tutto) il libro dalla fine all’inizio, il lettore ha la successione temporale dei fatti nell’ordine in cui si sono svolti. È un ottimo istinto di lettore il Suo, che l’ha portata a leggere l'ultima sezione del libro al contrario, a non subirne passivamente la costruzione. Per me, raccontare la storia dalla fine all’inizio è stato un espediente che mi ha permesso di scrivere una storia pesante dal punto di vista psicologico mettendo un po’ di distanza. Questo è un esempio di scelta razionale che risponde ad una necessità irrazionale. Ossia, quello che può sembrare un espediente cervellotico è in realtà la soluzione che ho trovato ad un disagio reale. Alla Sua domanda: perché amiamo se conosciamo l’epilogo? Perché continuiamo ad amare? Io risponderei: perché obbediamo ad un impulso della specie; siamo irrazionali perché la specie lo trova razionale. Ma questa è un’ovvietà, credo, e più interessante è dare una risposta che riguarda questa rappresentazione dell’amore in particolare, con la freccia rovesciata. Perché raccontare l’amore così, visto che già dall'inizio ne conosciamo l’epilogo? Io considero questa soluzione in un certo senso analoga alla soluzione del finale di Thelma e Louise, ovvero: Ridley Scott si è fermato al loro salto glorioso ed ha nascosto la caduta, l’epilogo che tutti conosciamo. Ma ciò che è essenziale per la storia (di Thelma e Louise) è la scelta del salto, e al salto la storia si ferma: grazie alla soluzione formale di far finire il film prima dello schianto, Thelma e Louise non sono mai cadute. Questa soluzione si può anche pensare come un espediente del regista per salvarle, in fondo l’unico. In maniera analoga, una distanza che progressivamente si allarga, se raccontata al contrario, diventa un riavvicinamento. Ma vorrei anche aggiungere qualcos’altro, che è legato alla Sua osservazione (a prima vista tautologica), che l’ultima sezione del libro ne è l’epilogo. È verissimo, ne è l’epilogo, ma non solo e non tanto perché si trova in fondo al libro. Ne è l’epilogo soprattutto perché il movimento di convergenza delle prime cinque sezioni (lette nell’ordine in cui appaiono nella raccolta) verso l’inizio della storia diventa invece un movimento di distacco nell’ultima sezione, la quale parla invece del prima dell’inizio, e quindi racconta la convergenza verso l’inizio della storia. Detto altrimenti, c’è nella raccolta una dualità tra tema e struttura: il processo di allontanamento, tema delle prime cinque sezioni, viene rappresentato nella struttura come convergenza, e il processo di convergenza, tema dell’ultima sezione, viene rappresentato nella struttura come allontanamento. Da qui credo che derivi la Sua sensazione che leggendo l’ultima sezione Le venisse a mancare il terreno sotto i piedi. Quello che Le veniva a mancare, più che il tema del corteggiamento, era forse il movimento di convergenza, che è la struttura portante delle prime cinque sezioni della raccolta, per ristabilire il quale (ossia, per usare le Sue parole, per “tornare al processo precedente”) Lei ha trovato la soluzione di leggere l’ultima sezione dalla fine all’inizio.

No, la mia sensazione non si riferiva a nulla di architettonico, o a “strutture portanti” e così via. Il fatto è che ai «rettili piumati» presenti nel finale, preferivo una Alessandra che osserva «movimenti del corpo e delle mani». Io ho immaginato una donna che raccoglie le parti invisibili dell’amore, che sfida la vita che sfugge (anche con un piccolo gesto: osservare, per ricordare). Questo lo trovo più geniale di un arco a sesto acuto o della formula chimica dell’acqua: ovvero di quelle cose che sono se stesse solo se hanno perfezione strutturale. Non so se osservare i movimenti delle mani sia “perfetto”. So che è meraviglioso. E ciò che è meraviglioso è (per me) perfettamente strutturato. I “rettili” (con tutto il rispetto - anche perché non mi hanno mai parlato e non li conosco), nonostante li trovi meravigliosi, non li posso affiancare alla sensazione procurata da una parola o un gesto umani. Ovviamente, io, leggendo di lei che osserva, ho fatto questa congettura, che è differente da quella che lei stava facendo mentre osservava le mani in movimento. Pensi a un dipinto, pensi a una scultura… a “Le tre grazie” di Raffaello e al “Satiro” di Prassitele. Non sono belli unicamente perché costruiti bene, ma perché ci dicono qualcosa, ci inteneriscono, ci distraggono (dovrebbero farlo). Concludendo: sono ritornato indietro perché, verso la fine, ho sentito che l’amore mancava, che si parlava di “rettili piumati”. Tuttavia, non ci sono dubbi che L’appropriato governo del fuoco sia la narrazione di un amore. Eppure, tra le pagine del libro, esso mi è apparso soffocato. Non ho sentito sorrisi, né lacrime che scorrono. Non ho sentito palpiti del cuore, né sussurri. Non ho sentito baci, schiaffi, incomprensioni, contraddizioni. Non ho sentito l’Amore urlare la follia di trovarsi in un mondo inadatto a se stesso. Ho letto soltanto annotazioni, addizioni: ragionamenti. È come se Alessandra Palmigiano avesse usato le parole e i versi per dimostrare un’equazione. È così? Sto fornendo un’immagine dell’amore errata, o “l’appropriato governo del fuoco” è un nuovo linguaggio (un nuovo linguaggio dell’amore)?
Sì, la scommessa di questo libro è di affrontare il tema dell’amore con un linguaggio diverso, che ad esempio metta al centro una nuova rappresentazione delle intenzioni, e che in particolare riconosca che la natura delle intenzioni non è servire all’introspezione, ma piuttosto alla comunicazione; un linguaggio dove la retorica dell’amore (i ruoli predefiniti, le parole dell’amore, le lacrime, i sussurri, i palpiti, etc.) è tenuta presente, ma volutamente relegata in un angolo.

Mi scusi, la interrompo. Ma l’amore non dovrebbe venir trattato per quello che è? Con l’idea di trattare l’amore con nuovi linguaggi non si rischia di parlare del nulla e di eliminare ciò a cui ci si riferiva?
Mi permetta di risponderLe con qualche domanda al suo interrogativo: secondo Lei Dante parlava dell’amore “per quello che è”? O non usava piuttosto l’amore per parlare di altro? Ad esempio della nobilitazione della classe sociale (la borghesia) a cui apparteneva? Secondo Lei, Dante, quando scriveva “poesie d’amore” voleva parlare della verità dell’amore? Voleva mettere il suo lettore di fronte all’amore “per quello che è”? O non usava piuttosto l’amore per affilare un certo tipo di armi retoriche che sarebbero servite a lui ed alla sua classe sociale nella lotta politica? Non pensa Lei che vedere l’amore (come lo vede Lei, a quanto ho capito) attraverso il filtro di un linguaggio che ha così tanti secondi fini, come quello di Dante, aiuta poco, alla fine, a vedere l’amore “per quello che è”? Non pensa Lei che un linguaggio, come il mio, che si allontana volutamente dalla retorica abbia forse qualche chance in più di trattare l’amore “per quello che è”?

Finalmente ricevo, da intervistatore, alcune domande. Che dire? Solitamente, quando leggo le poesie di Dante, sono così rapito dalla bellezza che non riesco a pensare. Mi succede davvero, questo. Poi penso alla mia adolescenza, ovvero quando iniziai a leggerlo, e ai sogni ai quali quei sonetti mi inducevano. Ho sempre visto Dante come un oracolo (l’oracolo dell’amore) da “frequentare”. E spero di poter leggere Dante ancora per molto, così come facevo nell’adolescenza: ingenuamente (genuinamente?). Passando a “l’appropriato governo del fuoco”, non ritengo che il Suo linguaggio abbia “chance in più”. È un punto di vista, che non condivido affatto, ma che rispetto profondamente (anche perché l’ho gustato con piacere). Io vorrei che l’amore venga trattato “per quello che è”, imitando il sentimento insomma (e tutto il resto: dal semplice rossore sulle guance, all’erotismo). L’amore e le parole… che battaglia! Cosa diceva prima che la interrompessi?
Dicevo che affermare che il sentimento appare soffocato, dire che ho usato i versi per provare un’equazione è forse, di nuovo, farsi mancare il terreno sotto i piedi per l’assenza dei punti di riferimento tipici (e triti) della poesia d’amore, che non avevo nessun interesse a frequentare. Invece, mi interessava dire la (mia) “verità sull’amore”, come chiedeva W.H. Auden nella sua famosa poesia “O Tell Me The Truth About Love” (La verità, vi prego, sull'amore). E la (mia) verità sull’amore è che l’amore ci assomiglia fin troppo, non ci eleva, non ci rende né migliori né peggiori; semplicemente ci spinge a giocarci le carte che abbiamo al tavolo della vita. Un’altra menzogna sull’amore, che la raccolta in alcuni punti attacca, è che, quando le cose vanno male, la colpa sia delle incomprensioni, dell’incomunicabilità. Come se si trattasse solo di un equivoco; ma dare la colpa agli equivoci è consolatorio. La verità (mia, della raccolta) è che le intenzioni si decifrano in un lampo, che ci si capisce al volo, che tutto ciò che doveva essere capito è stato capito, che nell’ora della scelta si hanno in mano tutti gli elementi che servono, e che spesso le cose vanno male proprio perché non inganniamo nessuno. Ossia che falliamo nel corteggiamento perché la persona che abbiamo di fronte ci ha capiti fin troppo bene.

Ritorno un po’ indietro. Dare la colpa agli equivoci è una (diciamo) tattica umana (non esattamente) permessa dalla nostra moralità (ma utilizzata). Qualcuno dice che sia male (cfr. Max Weber), qualcuno trova che sia una fortuna, o una “possibilità” per venir fuori da certi vicoli ciechi (la vita è piena di vicoli ciechi, mi pare). Che significa: “l’amore ci assomiglia fin troppo?”. Questo tema, infatti, è presente nel libro.
L'espressione “L’amore ci assomiglia fin troppo” vuol dire che quando siamo innamorati, da adulti, non smettiamo di essere noi stessi, con tutti i pregi e i difetti ed i limiti che abbiamo; quindi, ad esempio, se siamo codardi, passivi, intraprendenti, dominanti, remissivi, esprimeremo l’amore con le stesse corde di codardia, passività, intraprendenza, etc, che ci caratterizzano. Ossia, non è vero che, se siamo codardi, l’amore ci fa diventare coraggiosi, se siamo passivi, l’amore ci fa diventare intraprendenti, e così via, che è la storia che ci raccontano nei film, nei romanzi e in molta poesia.

Qualche lettore se lo chiederà. Lo chiedo prima io: lei è in qualche modo nel libro?
Sì, sono nel libro, perché racconto una cosa che è successa a me; ma per il lettore non ha molta importanza che sia io l’“io” del libro: avrebbe potuto essere anche qualcun altro. L’unica differenza vale solo per me, ed è che se questa vicenda non fosse successa a me non avrei mai avuto la motivazione a scrivere questa raccolta, avrei scritto di altro. La verità è che ero molto riluttante ad affrontare il tema dell’“amore in poesia”, sia perché a scriverne si subisce il confronto diretto con una tradizione letteraria schiacciante, sia perché si corre sempre il rischio di passare per “il cuore infranto” che scrive poesia autoconsolatoria, che io detesto. Ho scritto questa raccolta perché per un periodo dopo la prima raccolta non riuscivo a scrivere più niente; ad un certo punto ho capito che dovevo prendere il toro per le corna e confrontarmi con questa storia, altrimenti non avrei potuto scrivere di nient’altro. Di nuovo: decisioni razionali al servizio di motivazioni irrazionali. Quindi, se il libro non vuole essere lo sfogo autoconsolatorio del cuore infranto, allora deve mostrare di avere qualcosa da dire sul fronte dell’efficacia e dell’invenzione poetica. Da qui l’esigenza di scrivere con un linguaggio nuovo, spoglio di retorica e attento a registrare fenomeni che sono in fondo sotto gli occhi di tutti, ma che non hanno ancora attraversato la soglia del mainstream poetico.
[…] a me è venuta in mente la storia
di quell'altro, che scorse sul tram
una signora che gli piacque al primo sguardo
e quando vide che era sua moglie
fu contento.
Questi cinque versi sono quelli che, tra tutti, mi sono piaciuti maggiormente, fino a ripeterli a memoria molte ore dopo aver chiuso il libro (mi hanno anche commosso… per via della semplicità altrove “camuffata”). Potrebbe raccontarmi la storia di quest’uomo che scorse sul tram una signora che gli piacque al primo sguardo…
Nella “storia di quell’altro”, “quell’altro” è Prevert, che racconta la storia in questa poesia qui sotto. Non ho trovato la traduzione, ma credo di averne letta una di Cucchi in cui, per motivi di rima, l’autobus diventava tram. La poesia di Prevert ha un ritmo molto lento, con questi versi brevi; nella mia versione, il ritmo si velocizza un po’. 
 
Voyages

Moi aussi
Comme les peintres
J’ai mes modèles
Un jour
Et c’est déjà hier
Sur la plate-forme de l’autobus
Je regardais les femmes
Qui descendaient la rue d’Amsterdam
Soudain à travers la vitre du bus
J’en découvris une
Que je n’avais pas vue monter
Assise et seule elle semblait sourire
A l’instant même elle me plut énormément
Mais au même instant
Je m’aperçus que c’était la mienne
J’étais content.
 Cosa si può imparare dal suo “manuale” in versi?
La mia risposta, al netto dell’esperienza che la raccolta descrive, ha molto a che vedere con la cura. Cura di un sentimento, proprio ed altrui, cura nel rendere giustizia ad una storia raccontata necessariamente da una sola parte, cura nel capire e nell’interpretare le ragioni che muovono le decisioni, cura e rispetto della vita propria ed altrui, cura del linguaggio e della forma. Cura che passa anche per un “appropriato governo del fuoco”, ossia che passa per il riconoscere che la natura delle scorie che la sublimazione mira a separare è duplice ed è data non solo dall’“immonda sostanza terrosa”, ma anche dalla “parte sottile e fumosa che porta la combustione insieme alla corruzione”. Il successo di un’educazione sentimentale si misurerà allora dalle successive esposizioni al fuoco, per le quali conterà quanto si sia riusciti a fare dell’equilibrio (eguaglianza) la propria forza, così che si “faccia sul fuoco una semplice fusione senza bruciare, o che [si] fugga dal fuoco senza infiammarsi”.

Nel fuoco dell’amore uno più uno fa sempre due?
Come si evince dalla nostra discussione fino a questo punto, io credo che l’amore si possa trattare razionalmente, così come ogni altra cosa (anche l’irrazionalità si può trattare razionalmente: come oggetto di un’indagine, ad esempio, ma anche in maniera demistificante. Ossia, ad esempio, individuando il possibile tornaconto dietro ad un comportamento irrazionale, autodistruttivo, etc.). Ma Le do ragione sul fatto che il mio punto di vista personale, come quello della raccolta, sia solo uno dei tanti possibili. Dal punto di vista poetico ciò che conta -come ho già detto- è l’efficacia: io ho provato a giocarmi la partita dell’efficacia poetica con i mezzi espressivi che avevo, ed anche riconoscendo, affrontando, parzialmente superando e parzialmente aggirando gli attriti psicologici che avevo, assieme agli impulsi espressivi che pure avevo. Tutta la razionalità dispiegata nella raccolta lavora al servizio della descrizione del sentimento, se lo si vuol vedere come antitesi della razionalità. Il risultato è (mi si passi l’espressione) la somma vettoriale di molteplici volontà e necessità, di impulsi emotivi consci ed inconsci e di soluzioni trovate anche a tavolino. Quindi, per tornare al discorso del “manuale”, chi ne abbia voglia può anche leggere la raccolta come un discorso pratico su certe soluzioni formali, ad esempio basate sui contrasti, o sulle simmetrie: come parlare a freddo di ciò che è caldo, come parlare in astratto di ciò che è concreto e come rendere concreto l’astratto, come annullare le differenze (di genere, ad esempio). 

Lei ha paura del sentimento, che esso possa divenire incontrollabile? 
Non riesco a rispondere a questa domanda con un sì o con un no buoni per tutte le stagioni. Io credo nel “conosci te stesso”, e al tempo stesso nei limiti del “conosci te stesso” (e questo vale per tutti i sentimenti e le emozioni, paura compresa). Ed un aspetto -credo- innovativo della raccolta rispetto al discorso lirico ben conosciuto è legato proprio ai limiti del “conosci te stesso”, ed è il modo in cui viene affrontato il discorso sull’introspezione, che qui è certamente acquisito, ma -e qui viene la parte interessante- in parte ribaltato: ossia, nella raccolta vengono descritte emozioni ed intenzioni che sono per così dire progettate per essere lette ed interpretate dagli altri, più e prima che da se stessi; vengono descritte situazioni fulminee in cui le intenzioni volano come frecce, perché è quella la loro natura; l’introspezione viene riconosciuta come un esercizio contro-intuitivo e, se si vuole, secondario rispetto all’essenza di ciò su cui l’introspezione vorrebbe indagare.

Infatti:
[…] tu metti il tuo sorriso ed il tuo sguardo dentro il mio
dopo, dici qualcosa che offre conferma,
e che cerca il mio riconoscimento. nei mesi successivi
hai continuato a riferirti a quel momento.
Qui, la nostra natura di umani è perfettamente imitata e rappresentata. Immettiamo davvero parole, sorrisi e sguardi. Poi, chiediamo conferme, conferme. È possibile interpretare l’anima di chi ci guarda a pochi centimetri dal naso?
Eccome, se è possibile! Lo facciamo ogni secondo di ogni giorno, ma a volte quello che vediamo non ci piace e facciamo finta di non averlo visto. Allora perché chiediamo conferme? Il più delle volte, il motivo per il quale chiediamo “è cosi, vero?” non è che non sappiamo decifrare le altrui intenzioni, ed abbiamo bisogno di chiedere lumi. Come dicevo prima, la tesi della raccolta è che noi decifriamo benissimo le intenzioni, che è una parte essenziale della nostra natura; ma lo stesso chiediamo conferme perché, ad esempio, un conto è sapere che l’altro vuole una certa cosa, e ben altro conto è che l’altro dica apertamente che la vuole. Io posso anche sapere, ma sapere non mi obbliga ad agire; invece, dichiarandosi apertamente, o chiedendo apertamente conferma, l’altro può obbligarmi ad agire, a prendere esplicitamente una posizione. Tra il primo scenario e il secondo c’è la stessa differenza che esiste tra vivere le situazioni nella scatola chiusa del proprio mondo interiore e mettersi in gioco nel mondo reale, chiamando gli altri in causa e rischiando di fallire. Le poesie di questa raccolta cercano di mettere questa fondamentale differenza in rilievo.

Quale messaggio (se c’è) intende lasciare, con L’appropriato governo del fuoco all’interlocutore del corteggiamento presente nel testo? 
 Nessuno:
Ciò che dovevo dirti è detto altrove,
su altra carta; e altri sguardi, movimenti,
scelte, presenze, silenzi hanno detto
delle mie intenzioni ciò che si poteva. […]

Tirando le somme, si può benissimo affermare che il lavoro di Alessandra Palmigiano è matematicamente perfetto. Se ella abbia costruito “l’appropriato governo del fuoco” con righello e squadretta riferendosi al nostro non-romantico periodo storico, un po’ per descrivercelo, ha centrato in pieno l’obbiettivo. Tuttavia, un unico dubbio persiste: in amore, la matematica non dovrebbe impicciarsi. L’amore non è della vita o della ragione. È del cuore. E il cuore, seppur fallibile, è l’unico organo che dà senso alle nostre anime (ma è di amore che si sta parlando, ed è con ciò che è fallibile che scrivo - non con la mente - in questa umile critica, dunque…).

Dario Orphée