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La pelle: orrore, vergogna e uno strappo su un cielo di carne

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La pelle
di Curzio Malaparte

Adelphi 2010, pp. 379

Abitualmente, effettuo una piccola ricognizione bibliografica sul romanzo che intendo recensire, per avere un quadro chiaro della sua ricezione e delle proposte critiche più aggiornate. Nel caso della Pelle, mi ha stupito che il contributo più specifico sulle scelte narratologiche di Curzio Malaparte non venga dal mondo accademico italiano, ma da quello britannico, con una recente monografia su Curzio Malaparte: the narrative contract strained (W. Hope, Troubadour Publishing 2000). Questa nota non è di poco conto, perché mi sembra davvero un’ingiustizia che un autore del genere possa contare al suo attivo, in Italia, più biografie che monografie. Si tratta, oserei dire, di un cancro da «divismo» giornalistico-compilativo che, forse quanto quello iperfilologico, colpisce la critica italiana; e per guarirlo dovremmo cominciare davvero a guardare alla critica anglosassone e al suo modello di «lotta costruttiva» col testo e le sue meccaniche interne.
Ma veniamo al nocciolo della questione: La pelle. Hope, nella sua monografia, ne parla poco. Ma vale anche per questo romanzo l’idea di un «patto narrativo forzato, distorto da una tensione» che dà il titolo alla monografia. Difatti l’io narrante del romanzo, che per ampi tratti coincide con quello autoriale, si spinge in un territorio sconosciuto nel suo rapporto col lettore. A ogni scrittura corrisponde un destinatario e un legame tra chi scrive e chi legge. In Malaparte il legame diventa amara sfida, ghigno e ostentazione: un legame raddoppiato, perché in gran parte del romanzo il narratore si trova a interagire con uomini innocenti, ignare tabulae rasae a cui deve spiegare il nuovo equilibrio del mondo dopo la seconda guerra mondiale.
Qui arriviamo, paradossalmente, a trattare ciò che la stragrande maggioranza dei critici italiani ha rilevato nella narrativa di Malaparte: una vistosa virata, cioè, verso un espressionismo ai limiti del macabro. Nella Pelle si trovano episodi di cannibalismo, di vendita di bambini e pedofilia, di crocifissioni e orge omosessuali; ambientati, per di più, non in un mondo esotico, ma nella Napoli del dopoguerra. Questo fa capire perché un editore come Valentino Bompiani, dopo l’edizione in anteprima di alcuni estratti sulla rivista francese Carrefour, sentì l’esigenza di inviare una delicata lettera all’autore in cui chiedeva di «mitigare» – questo il verbo usato – la crudezza di alcune scene prima della pubblicazione italiana. Lettera a cui Malaparte rispose con l’ironia e il profondissimo acume che, a mio parere, costituiscono le basi della sua ispirazione letteraria:
«Non sapevo che il pubblico italiano fosse di stomaco così debole (…) ma come si fa a dare un quadro della rovina nostra e dell’Europa, senza crudezze?»
Eccoci arrivati al tema fondamentale della Pelle, la rovina dell’Italia e dell’Europa dopo il secondo conflitto mondiale. La deformazione orrorifica, infatti, sarebbe esecrabile se fine a se stessa, ma in Malaparte è fondamentalmente connaturata a uno spirito moraleggiante che ricorda la tarda satira latina: l’ossessione riguardo al corpo e alla sessualità (Persio) non sono che modi espressivi della notomizzazione sociale, il mezzo attraverso cui si realizza un’indignatio (Giovenale) altrimenti puramente intellettuale. La violenza in Malaparte, molto più che nel cinema di Pasolini, si ritaglia un proprio valore allegorico e retorico: l’esibizione dell’osceno e del macabro hanno lo scopo di mostrare ciò che, agli occhi degli alleati vincitori, è l’orrore e la vergogna dei vinti. Orrore e vergogna sono i sostantivi chiave del romanzo. La vergogna, in particolare, appare in 65 occorrenze come verbo o sostantivo, spesso come vergogna specchiata: il sentimento che Malaparte prova di fronte all’orrore. Ma la vergogna non è soltanto dei vinti: nel rivolgimento carnevalesco della guerra, e di questa guerra in particolare, peste spirituale prima che fisica, la vergogna è anche dei vincitori, soprattutto dei vincitori. Il vinto, infatti, nell’aberrante miseria trova una giustificazione, per quanto paradossale; ma il vincitore, nel ritratto tragicomico di Malaparte, è un uomo innocente che calpesta nel nome della libertà. Per questo, anche lui si macchia d’orrore, e di un orrore altrettanto paradossale. Tutto questo si traduce in immagini: gli Americani di Malaparte sembrano dèi solari, purezze edeniche al limite dell’ingenuità. Molti di loro amano l’Italia e ne hanno rispetto: così Jack, il compagno di Malaparte, alter ego del vero colonnello Cummings a cui La pelle è dedicata, così molti altri. Ma gli dèi solari schiacciano i vinti, letteralmente: per caso, le ruote di un cingolato riducono un uomo in poltiglia; a una cena, viene imbandita ai commensali un pesce-sirena dell’acquario di Napoli e viene scambiata, nell’orrore generale, per una bambina cotta al vapore.
L’episodio della cena mi riporta al tema di base di questa recensione: non il macabro di per sé, ma il ghigno nel macabro. Il problema assume un valore metaletterario, perché coinvolge il narratore e il patto «strappato» di Hope. L’orrore, per prima cosa, non si dispone fluidamente in tutta la narrazione: seguendo la natura proteiforme del romanzo – con accenti quasi epici, danteschi, da catabasi infernale – il basso si mescola con l’alto. Episodi drammatici sono giustapposti a ekfraseis loci di mediata ispirazione liricheggiante. In questo romanzo, il cielo è carne e la carne è cielo: tutti sul punto di imputridire. Ma si va ancora oltre, perché, come una sacrilega rappresentazione teatrale, il narratore (vinto tra i vincitori) squarcia la quarta parete scoprendo la propria finzionalità.
Il mezzo con cui si realizza lo «strappo sul cielo di carne» è proprio il ghigno. l fatto si rivela chiaramente durante la cena col generale Cork, in cui i commensali dubitano che ciò che Malaparte ha scritto nel suo precedente romanzo, Kaputt, sia realmente accaduto e si prendono gioco della sua vena narrativa. La reazione del narratore-autore (in questo momento i contorni si fanno pericolosamente sfumati) è particolarissima: per dimostrare la «verità» della sua scrittura, egli racconta la storia mitico-antropologica di ciò che hanno appena mangiato, ma soprattutto rivela che nel suo piatto di kouskous, durante la cena, ha trovato la mano di un uomo, probabilmente staccata da una mina e finita nel pentolone. Il narratore ha mangiato la mano senza proferir parola, per non turbare i commensali, ma può così dimostrare che i suoi racconti non sono fantasie. Ai fini dell’analisi non conta tanto la storia in sé, quanto il fatto che gli interlocutori del narratore accettano questa rivelazione senza mostrare incredulità, ma soltanto orrore. Questi interlocutori sono miniature al rovescio del lettore ideale di Malaparte: che, al contrario, percepisce che il «patto narrativo» è stato, appunto «forzato», strappato con violenza.
Scoprire la natura finzionale del racconto non ne annulla il valore pedagogico. Tutto il contrario: lo potenzia fino all’inverosimile. La pelle assume quindi i connotati misti di un romanzo "della crudeltà" (per rubare un’etichetta ad Artaud) e dei tableaux moralizzanti di certa letteratura medievale. Il paragone artistico è d’obbligo: se Malaparte fosse stato un pittore, sarebbe stato di certo un Hogarth trecentesco, autore di cicli sul trionfo della morte e sulla corruzione del corpo. Non a caso, il culmine del romanzo coincide con l'eruzione del Vesuvio del 1944, il momento di massima distruzione in cui persino la natura si ribella all'uomo corruttore della propria anima e del proprio corpo. La peste, d’altronde, doveva essere il titolo di questo romanzo, cambiato a causa della pubblicazione, in quegli stessi anni, dell’omonimo capolavoro di Camus. Tuttavia, La pelle è un ottimo titolo perché insiste su un doppio tema, quello della corruzione e quello della mescolanza iperletteraria di registri. Il cielo è carne e la carne è cielo, dicevo, e questa carne ha subito ogni tipo di violenza. Soltanto l’autore che ha scelto anche nel proprio pseudonimo di stare dalla mala parte, la «parte cattiva», poteva raccontare la vergogna di vinti e vincitori come di un vergognoso, archetipico carnevale di corpi.

L. Ingallinella