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#paginedigrazia - Grazia Deledda e il Corriere della Sera: «sulla carta millimetrata del Novecento non collima mai»

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Grazia Deledda e il Corriere della Sera. Elzeviri e lettere a Luigi Albertini e ad altri protagonisti della Terza Pagina
di Giambernardo Piroddi
Edes, 2016

pp. 446
28€



In questo lungo viaggio che ha portato noi collaboratrici di Critica Letteraria alla (ri)scoperta dei capolavori deleddiani, da quelli più celebri ai meno conosciuti, e che abbiamo saggiamente chiamato #paginedigrazia, ho avuto l’occasione di avvicinarmi a testi di natura ibrida e complessa, che racchiudono le diverse anime del Premio Nobel nuorese: Grazia autrice, giornalista, Grazia madre e moglie, Grazia intellettuale e, sopra a tutto, Grazia scrittrice nel senso più ampio del termine.
Uno di questi testi, il più ibrido e complesso, se dobbiamo dirla tutta, è Grazia Deledda e il Corriere della Sera. Elzeviri e lettere a Luigi Albertini e ad altri protagonisti della Terza Pagina di Giambernardo Piroddi. In questo certosino lavoro di ricerca e documentazione, Piroddi ricostruisce, e integra con pertinenti osservazioni, l’epistolario di Grazia Deledda con Luigi Albertini e i successivi direttori del Corriere della Sera, negli anni della sua collaborazione con il quotidiano milanese, in qualità di elzevirista; collaborazione che ha attraversato i primi decenni del Novecento, dal 1909 all’anno della morte della scrittrice, il 1936. Con un lungo periodo di pausa, negli ultimi anni del primo conflitto mondiale.

La natura complessa del saggio di Piroddi è data essenzialmente da due elementi: il materiale trattato, ovvero centosessantasei documenti (tra lettere, cartoline, telegrammi, biglietti postali) che l’autore ha consultato presso l’Archivio Storico del Corriere, classificato, analizzato, in alcuni casi interpretato, dati i danni provocati dal tempo; in secondo luogo, il tipo di analisi condotta: approfondita, accademica, votata alla massima serietà e aderenza al materiale consultato, diretta a evidenziare le particolarità della scrittura, le peculiarità storiche emergenti dai testi, le caratteristiche proprie della letteratura deleddiana attraverso la forma-elzeviro.
Tuttavia, l’elemento su cui vorrei porre l’accento è l’ibridismo del testo di Piroddi, che coniuga analisi attenta del materiale e dimensione più popolare (sebbene si resti nei binari di una trattazione colta).
È in questa natura ibrida che si può godere del saggio, pur non avendo (come nel mio caso) tutti gli strumenti necessari per apprezzare appieno la trattazione.
Eseguendo, dunque, un’analisi del testo che segua i due binari paralleli, si può rilevare in primo luogo la possibilità, attraverso il lavoro di Piroddi, di sbirciare dal ventunesimo secolo l’humus culturale dei primi anni del Novecento: si scopre, così, un ambiente in vivace fermento, dove i grandi intellettuali erano corteggiati dai vari quotidiani, alla continua ricerca di materiale nuovo per i loro inserti culturali. La stessa Deledda, come emerge dal carteggio, era regolarmente sollecitata a inviare novelle, articoli letterari.
All’attenzione dei quotidiani per gli autori fa da contrappunto una altrettanto vivace partecipazione dei lettori alla Terza Pagina, che non raramente prendevano carta e penna e scrivevano ai direttori dei giornali per plaudere o (assai più di frequente) criticare perfino le scelte espressive degli autori:
…la ricorrente discrasia culturale o se si vuole, sempre da un punto di vista estetico e dunque linguistico ed antropologico, quel «conflitto dei codici» […] era avvertito anche dai lettori del «Corriere». Alcuni di loro infatti non tollerarono coloritura e forza espressionistica di una similitudine nella citata novella Mezza giornata di lavoro, in cui la ‘Valle dell’inferno’ - nome con cui a Roma è storicamente nota la valle Aurelia […]  è definita con aggettivi e sostantivi fortemente connotativi: «tutta umida e pelosa come una grande ascella della città».
O, ancora, direttamente dalla missiva di un lettore indignato:
“Ill.mo Signor Direttore, |ho letto [...] ‘Compagnia’ di Grazia Deledda, e mi son chiesto per quali ragioni quello spazio di terza pagina ove saltuariamente vengono presentati brani di scelta prosa a firma di Ojetti, Forzano, Panzini, Borelli ecc., possa [...] esser ‘sporcato’ da una melensa,  inverosimile e descrittivamente brutta novella dal titolo dianzi citato [...] esistono le cosiddette cestinature, e quando si presentano casi consimili [...] nessuna indulgenza, nessuna considerazione,
sia pur d’indole cavalleresca è ammessa, giacché non è giustificabile che un giornale come il Corriere della Sera presenti ai lettori produzioni, siano pur esse di un’autrice a cui recentemente è stato assegnato il Premio Nobel, che sanno di acuto infantilismo letterario.”
Se pure leggere oggi tali passaggi possa far sorridere, stupisce l’atteggiamento tutt’altro che superficiale con cui Deledda accoglieva il feedback di lettori e direttori del quotidiano.
Da una lettera che ella scrive a Luigi Albertini, nel 1910, in risposta ad alcune osservazioni in merito a un manoscritto, si legge: «il mio desiderio è appunto di piacere ai lettori del Corriere, lettori che Ella conosce meglio di me».
Grazia Deledda dimostra natura tutt’altro che comune tra i letterati: un’umiltà intelligente che la rende autrice prima ancora che intellettuale nel suo mettere al primo posto il lettore e non il proprio ego. Un atteggiamento, sottolinea Piroddi, figlio di quelle origine sarde che attingono dalla tradizione dei contos la propria volontà di affascinare e coinvolgere sopra al bisogno, tutt’altro che giustificabile, di molti scrittori di dar mero sfoggio di sé.
In tale contesto, non si può tuttavia non sollevare una legittima riflessione sulla ricorrente questione dell'autonomia dell’arte: può una scelta lessicale, e dunque artistica, essere oggetto di critiche per la sua crudezza? Non sono forse la crudezza e la verità che scuotono la coscienza borghese del lettore le armi più preziose dell’arte? Cos’è l'arte, se non una scossa destabilizzante alle nostre consapevolezze?
La trattazione di Giambernardo Piroddi, dunque, oltre a essere un mirabile lavoro di raccolta e restituzione di un patrimonio epistolare e umano che consegna a chi lo legge un’immagine inedita della Deledda, è anche un’occasione di riflessione sulla figura dell’autore e sulla produzione letteraria.
L’istantanea artistica di Deledda che si evince è quella di una scrittrice che mantiene per tutta la vita il suo legame intrinseco con la Sardegna, non solo in quanto terra natìa («…di ritorno da un giro nella mia Sardegna» scrive ad Albertini nel 1911), ma anche e soprattutto come origine narrativa e orizzonte letterario: alla brevità richiesta dai quotidiani (massimo una colonna e mezzo per elzeviro), definita eloquentemente «un cavallo […] invitato a far pipì in un bicchierino da liquore» da Carlo Emilio Gadda, Deledda si adatta più velocemente e facilmente di altri, proprio perché la sua formazione letteraria attinge alla tradizione orale sarda, basata su brevità e semplicità dell’intreccio.
Inoltre, attraverso il lavoro di Piroddi si scopre anche l’attitudine giornalistica della scrittrice, testimoniata in giovane età dalla sua collaborazione con Angelo De Gubernatis alla Rivista delle tradizioni popolari italiane:
«Sono andata negli ovili, nelle case più povere e più oscure, tra il fumo e la miseria, ho detto bugie, mi son finta malata per sapere le medicine popolari.» L’affermazione è spia intratestuale rilevante, poiché prova un’attitudine alla raccolta di dati tipica del profilo del reporter, proclive alla menzogna e all’inganno se necessari al procacciamento di notizie in contesti situazionali ostili e
di oggettiva difficoltà.
Scrivere per il Corriere diviene una imperdibile occasione per far conoscere la Sardegna attraverso la sua lunga tradizione narrativa, i suoi usi e costumi, i suoi scorci paesaggistichi più selvaggi e nascosti:
È dunque in primo luogo la ‘Terza’ a consentire all’autrice di render nota al vasto pubblico non già una Sardegna da studiare con l’interesse scientifico dell’etnologo ma un’isola da sognare, immaginare, vagheggiare.
Allo stesso tempo, la regolare collaborazione con il quotidiano, e dunque la costante frequentazione della forma breve, producono significativi cambiamenti nello stile dell’autrice, contribuendo alla sua maturazione letteraria. Ciò è evidente negli incipit delle sue novelle, dove Piroddi fa notare che col tempo si passa da frasi d’apertura enunciative e situazionali a una maggiore varietà di lead (massime popolari, aforismi, subordinata argomentale all’infinito, citazioni e riferimenti metaletterari, lead situazionale privo di verbo ecc...).
Sollevando il lettore dal tedio di questa lunga analisi, mi si permetta un ultimo paragrafo più leggero, con citazioni degne di nota (e commenti) dall’epistolario:
«I miei libri si vendono molto nella stagione estiva, nelle stazioni balneari.» p. 20 (lettera di Deledda ad Albertini, 1914)
Quanta incolmabile distanza tra il pubblico degli anni Venti e quello del Duemila, se allora i romanzi di Grazia Deledda venivano considerati «da spiaggia»!
«Volentieri scriverò la novella che lei mi domanda e gliela manderò al più presto: però devo dirle sinceramente che mi dispiacerebbe molto se mi venisse ancora respinta. Io non sono capace di scrivere nulla pensando di rendere il mio lavoro adatto a tale rivista o giornale: scrivo come sento, sempre con grande coscienza artistica; e la più breve delle mie novelle mi costa, al contrario di quanto si crede, fatica e pena.» p. 21 (lettera ad Albertini, 1914)
«Caro Ojetti,
stamane la Deledda mi ha mandato a chiamare. Per la quinta volta sono andato da lei e per la quinta volta mi sono trovato di fronte, con tutto il rispetto per l’illustre scrittrice, ad una specie di asina di Buridano che non sa decidersi fra l’avena del Corriere e quella del Secolo.» (lettera di Bottazzi, corrispondente romano del Corriere al direttore Ojetti, 1926).
Grazia Deledda viene invitata a collaborare nuovamente alla Terza Pagina del Corriere, dopo un periodo di pausa e l’avvicendamento di più direttori nel quotidiano. Tuttavia, l’autrice non può garantire la pretesa esclusività che Ojetti le richiede, perché nel frattempo si è impegnata con Il Secolo XIX.
Fa senz’altro sorridere l’espressione di Bottazzi, ma denota anche, accanto a una certa mancanza di rispetto verso la scrittrice, l’elevata stizza che "l’affaire Deledda" suscitava negli uffici del quotidiano.
Affaire che continua, stizza che cresce…
Caro Bottazzi,
ti unisco questo foglio perché tu, fingendo di commettere una indiscrezione, lo mostri alla Deledda così che ella sappia regolarsi. Spiegale bene che ieri a Milano il Corriere ha venduto 142mila copie e il Secolo 13mila. (lettera di Ojetti a Bottazzi, 1926)
Se la signora Deledda desidera romperla col Corriere dopo la cordialità con cui sempre è stata trattata e come collaboratrice e come scrittrice, faccia pure. […]il danno maggiore non sarà per il Corriere. (lettera di Ojetti a Bottazzi, 1926)
Caro Direttore,
[…] in sostanza la Deledda dice che ha un impegno col Secolo dal quale non può sciogliersi per ora, che se nel prossimo anno potrà ritornare al Corriere sarà felicissima anche perché il Secolo le è antipatico, che al Secolo manderà delle brutte novelle perché non si affezioni troppo a lei. (lettera di Bottazzi a Ojetti, 1926)
Un lungo botta e risposta di Bottazzi e Ojetti, in cui si inserisce anche un’accorata ma ferma Grazia Deledda, che testimonia quanto il quotidiano milanese, a dispetto delle dichiarazioni esplicite, tenesse ad assicurarsi la firma della scrittrice.
…rileggerò io stesso le bozze dei Suoi articoli, così Ella saprà con chi prendersela in caso di involontarie scorrezioni. (lettera di Maffii a Deledda nel 1928, all’indomani della ripresa dei rapporti del quotidiano con l’autrice)
Fa sorridere lo zelo del direttore del Corriere nei confronti della Deledda, all’indomani dell’assegnazione del premio Nobel, così lontano dalla piccata permalosità di Ojetti.

A conclusione di questo viaggio attraverso le pagine epistolari di Grazia Deledda, tra le sue peculiarità artistiche e la sua umiltà intellettuale, alla scoperta della grandezza del suo talento e della sua sorprendente vicinanza alle tradizioni popolari, non posso che rifarmi alla massima di Geno Pampaloni, coniata nel 1971 proprio tra le pagine del Corriere: Grazia «sulla carta millimetrata del Novecento non collima mai».

Barbara Merendoni