in

«La bellezza sghemba e abbagliante della vita»: "Parlami di casa" di Jeanine Cummins, un romanzo famigliare tra USA e Porto Rico

- -




Parlami di casa

di Jeanine Cummins
Feltrinelli, 2025

Traduzione di Francesca Pe’

pp. 457
€ 22,00 (cartaceo)
€ 11.99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

2023. Palisades, vicino a New York, una blogger affermata sta realizzando dei contenuti per la sua pagina, quando riceve una telefonata sconvolgente. A San Juan, Portorico, un’ora e quarantatré minuti prima, mentre incombe un uragano, una giovane donna viene travolta da un’auto impazzita e si trova sospesa tra la vita e la morte. È così che si avvia Parlami di casa di Jeanine Cummins: da una madre e una figlia, separate dallo spazio e da una incomunicabilità protratta nel tempo, che rischia di diventare definitiva; da un evento tragico che costringe tutti i membri di una famiglia a confrontarsi con se stessi e con i nodi irrisolti che hanno condizionato, e a tratti contaminato, le relazioni reciproche.

La nuova opera di Cummins risulta molto diversa nei toni e nei contenuti dal precedente, mozzafiato, Il sale della terra. È più lenta, riflessiva, c’è una minor rincorsa degli eventi, e un maggiore indugio sui sentimenti. C’è però, comune, la volontà di indagare la tensione culturale, politica e ideologica, che oppone gli Stati Uniti a quella che per tanto hanno considerato una loro colonia, con i conseguenti problemi di definizione identitaria e di autoaffermazione della minoranza portoricana. In Parlami di casa il tema dell’appartenenza etnica è centrale e stratificato, perché condiziona non solo i rapporti dei personaggi principali con il mondo esterno, ma anche la percezione che loro hanno di sé stessi.

Tutte le protagoniste, perché questo è un romanzo familiare che segue prevalentemente la linea femminile dell’albero genealogico, devono fare i conti con le proprie origini portoricane, con l’allontanamento da una terra in cui le loro radici affondano e che, pure a distanza, continua a fornire forza e nutrimento. Così, attraverso continui salti temporali, inizialmente spiazzanti e poi più facilmente decifrabili, anche grazie all’albero genealogico riprodotto a inizio volume, l’esistenza delle donne Acuña inizia a farsi più nitida tra le pagine.

Vediamo il matrimonio, azzardato e osteggiato, di Rafaela con Peter, il trasferimento negli Stati Uniti con i due figli ancora piccoli, il razzismo endemico della società americana, le difficoltà dell’integrazione, e lo sprofondare di lei in una lenta depressione. Ruth, che lascia San Juan ancora bambina e che si immerge completamente nella sua nuova appartenenza; Ruth, che assiste al naufragio del matrimonio dei suoi genitori, che si innamora di due ragazzi diversi, e poi sceglie quale sposare; la vedovanza precoce, la necessità di reinventarsi come imprenditrice di se stessa. E, infine, la crescita di Daisy, bambina fragile e poi adolescente e giovane donna in cerca di sé, con sogni grandi e la giusta dose di determinazione per realizzarli, ma soprattutto con un legame forte e mai reciso con Puerto Rico, una realtà conosciuta progressivamente e riscoperta però come parte connaturata del proprio essere.

Quello era il culmine di un sogno latente dentro di lei fin dall'infanzia, un sogno che solo da poco aveva cominciato a germogliare e crescere. Era fertilizzante, luce, pioggia. Era eredità, approvazione, una linea diretta che passava da sua madre e arrivava fino a Mamamía. Il suo unico desiderio era vivere una vita piena di significato senza contribuire a peggiorare il mondo. (p. 341)

Il dramma che le tre donne vivono, ciascuna a suo modo, è di appartenere a due posti, e a nessuno. Per Ruth, soprattutto, la lontananza dalla terra natale è fonte di spaesamento, di crisi identitaria. L’oblio della lingua d’origine, la differenza rispetto al fratello, che appena può torna a Portorico, l’incapacità di inserirsi nella comunità portoricana una volta al college, tutto rimarca una cesura dolorosa, e quindi non affrontabiletutte le volte che tornava doveva affrontare una verità pungente: ormai il semplice concetto di Casa le era precluso. Apparteneva a ogni posto e a nessuno», p. 374).

Il filo del sangue che lega le tre donne è forte, viscerale, eppure le differenze nel modo con cui ciascuna affronta la propria anima mista, sfaccettata, e troppi segreti non condivisi, le pongono spesso in contrasto. Questo vale soprattutto per Ruth e Daisy, incapaci di comprendersi davvero, nonostante l’affetto profondo che le unisce, e lontane, soprattutto quando la ragazza decide, contro il volere della madre, di trasferirsi a San Juan per aprire un negozio di modernariato e curiosità vintage.

É qui che, all’inizio del romanzo e alla fine dell’arco temporale ricostruito dall’autrice, le due donne possono ritrovarsi, o perdersi per sempre.

Anche dopo aver riattaccato, la tempesta le risuona ancora nelle orecchie. O forse invece la tempesta avviene proprio lì nella stanza, ed è Ruth a emanarla? La rabbia cataclismatica del vento, lo sferzare inclemente dell'acqua che non sembra per niente liquida, ma una cosa fatta di fruste e catene. Rafaela sente l'essenza stessa della tempesta nelle ossa, porta il dna delle intemperie inciso nella memoria. Lei le ha vissute, quelle tempeste. (p. 234)

Tutto ruota intorno alla tempesta: la tempesta è l’elemento imprevedibile e incontrollabile, ciò che spariglia le carte; è ciò che, metaforicamente e letteralmente, svelle le radici, minaccia la stabilità dell’albero. Può diventare anche ciò, però, che ne testa la tenuta. Al tempo stesso, la via del ritorno, ancora una volta leggibile su più piani di significato, passa attraverso la ricerca di un punto di ancoraggio, la casa, che è ciò che il vento non può abbattere, la stella polare che guida il cammino. Parlami di casa, pensa confusamente Daisy nel suo stato di semi-incoscienza. Il suo appello disperato non ha bisogno di essere espresso, passa attraverso le cellule. Il recupero di una dimensione comune, attraverso la narrazione, apre la possibilità di un nuovo incontro (tra madre e figlia, tra diverse generazioni), ma indica anche la strada per la guarigione.

La narrazione di Jeanine Cummins è sempre concreta, ancorata a una linea fattuale, ma è anche attraversata da una rete sottile di significati simbolici, che vanno intercettati e costituiscono il piano di profondità della storia. Il baniano, l’albero che si autoalimenta, che fa delle proprie radici i propri nuovi rami, diventa metafora dell’energia, della vitalità, che, insieme al sangue comune, corre all’interno della famiglia, legando ciascuno dei membri agli altri in maniera indissolubile, ma è anche memoria di un tempo lontano, di serenità, che deve essere recuperato.

Si ricordava […] di quando si arrampicava sulle radici del baniano dietro casa, cercando il punto in cui i due rami più grossi si univano a formare una specie di amaca, dove poteva sdraiarsi incrociando i piedi e restando immobile a guardare […]? Riusciva a ricordare un tempo in cui quasi tutti quelli che la circondavano erano portoricani e non avevano bisogno di definizioni imposte da stranieri né dovevano dimostrare la propria umanità e le proprie qualifiche ai non portoricani presenti tra loro? Un tempo in cui non erano scesi a compromessi, non venivano paragonati a nessuno ed erano liberi; lo ricordava, sua madre, come ci si sentiva a essere una persona, solo una persona, senza aggettivi, come ci si sentiva a essere una bambina di nome Ruth che viveva in un posto che amava, con le persone che amava? (p. 276-277)

Con una prosa sicura e fresca, attenta a ricostruire le dinamiche psicologiche in atto, ma anche aderente al principio narratologico dello Show, don’t tell, il romanzo di Cummins parla di incontri, separazioni e seconde occasioni; è una grande storia d’amore che ne racchiude molte altre, e l’amore più grande è quello interno alla famiglia, che va di pari passo con quello della famiglia per la propria terra. L’insieme inestricabile di questi due amori contribuisce a costruire il complesso, ma fondamentale, concetto di casa. Dall’accettazione di questa verità, inizialmente combattuta, deriva la ricomposizione che tutti gli Acuña si meritano, e con loro anche il lettore, in un romanzo che, partendo da uno strappo iniziale, mentre con delicatezza ne ricuce i margini, diventa poco alla volta una carezza e un inno alla vita e alla ricerca di sé.

Carolina Pernigo