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Finalmente in Italia il primo romanzo della Nakba, l’altro esodo, quello dei palestinesi: “La strada per Be’er Sheva” della scrittrice britannica Ethel Mannin

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La strada per Be’er Sheva
di Ethel Mannin
Agenzia Alcatraz edizioni, 23 maggio 2025

Traduzione di Stefania Renzetti

pp. 398
€ 19,00 (cartaceo)

Fu solo quando si trovarono nel deserto che i palestinesi compresero fino a che punto gli usurpatori della loro terra fossero determinati a umiliarli. Quel popolo fiero e generoso era stato spogliato persino delle qualità che definiscono l’essere umano. Esistono circostanze in cui persiste solo la volontà di sopravvivere. Circostanze in cui le madri abbandonano i propri bambini in pasto agli sciacalli, perché incapaci di portarli ancora con sé; in cui i giovani lasciano gli anziani a morire; in cui uomini e donne bevono la propria urina, e quella dei loro figli, perché è acqua, qualcosa con cui bagnare la bocca arida, le labbra screpolate intorno a cui, col passare delle ore, si formavano anelli bianchi e salati. (p. 29)

Nel 1963, quando uscì in Inghilterra The Road to Beersheba, pochi lettori occidentali avevano mai sentito parlare della Nakba, e ancora meno avevano letto un romanzo che desse voce ai palestinesi esiliati nel 1948, in seguito alla fondazione dello Stato di Israele. Oggi, grazie alla bella traduzione di Stefania Renzetti per Agenzia Alcatraz edizioni, La strada per Be’er Sheva arriva finalmente in Italia, offrendo una prospettiva rara e attuale su uno dei traumi più complessi del Medio Oriente contemporaneo.

La scrittrice britannica Ethel Mannin, autrice politicamente impegnata, sfida la narrativa dominante del suo tempo – in particolare l’opera di Leon Uris, Exodus che narrava in maniera epica la fondazione di Israele –, e lo fa con un romanzo che è insieme una storia di formazione e una denuncia storica. Il protagonista è Anton Mansour, un giovane palestinese cristiano, figlio di una donna inglese, Marian, e di un agiato proprietario terriero arabo, Butros. 

L’opera comincia quando Anton ha circa dodici anni, quando, il 15 luglio 1948, all’indomani dell’occupazione israeliana di Lidda (oggi Lod), il suo mondo cambia per sempre.  La Nakba, in arabo, “la catastrofe”, è l’esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi nel 1948 per la creazione dello Stato di Israele. In quel fatidico giorno di luglio, la famiglia di Anton è costretta a fuggire insieme a migliaia di palestinesi in una marcia estenuante verso Ramallah. In quelle giornate molti civili, a cui erano stati strappati i mezzi di sussistenza, cibo e acqua soprattutto, soccombono sotto il sole cocente. 

“Vogliono farci soffrire”, pensò, “vogliono umiliarci; posso farci questo, ma non ci possono annientare”. Quel pensiero orgoglioso lo sostenne per un po’, ma poi arrivarono i piccoli aerei neri, volando a bassa quota, e non rimase altro che il terrore, la paura atroce della morte. (p. 32)

Anton porterà per sempre nel corpo e nell’anima quelle cicatrici. Suo padre Butros, ferito nell’orgoglio, dall’espropriazione e dall’umiliazione, morirà di crepacuore dopo pochi mesi. Marian allora deciderà di portare il figlio in Inghilterra per fargli continuare gli studi, come era stato nella volontà anche di Butros. Anton trascorre l’adolescenza in un Paese che non sente suo. Anche prima di partire per l’Inghilterra, a chiunque gli chiedesse se si sentisse più inglese o più arabo, il ragazzo rispondeva di sentirsi arabo in toto, anche se cristiano. Già dodicenne spiegava all’amico Walid:

«Io ho uno zio musulmano. Ha sposato la sorella di mio padre. Vorrei essere nato musulmano».
«Che differenza fa? Crediamo tutti nello stesso Dio».
«Se sei arabo fa la differenza. Non so spiegarlo». (p. 113)

Nel paese di origine di sua madre, il protagonista vive una diaspora identitaria profonda, dilaniato dal ricordo della Palestina perduta e dal silenzio che l’avvolge in Occidente. Il  romanzo lo segue nella sua maturazione, tra studio, lavoro e un amore impossibile con Rosa, una ragazza che non gli rivela subito di essere ebrea. La condizione di doppia appartenenza è ben  evidenziata da Mannin sin dalle prime pagine e prosegue per tutto il romanzo: Anton farebbe qualsiasi cosa pur di dimostrare di essere un vero arabo, che tiene alla sua terra e resiste all’oppressore sionista. Questa condizione pone il giovane tanto ai margini della società britannica quanto della comunità araba, fino a quando lui non farà la sua scelta, che lascio al lettore il diletto di scoprire.

La strada di Be’er Sheva è una città nel sud della Palestina storica, oggi si trova in Israele. E La strada del titolo fa riferimento a una delle rotte percorse dagli infiltrati palestinesi negli anni successivi alla Nakba, quei profughi che cercavano di rientrare illegalmente nei territori occupati, spesso a rischio della vita. Ma La strada per Be’er Sheva è, nel romanzo, molto più di un luogo fisico, è simbolo centrale, denso di significati storici, politici e identitari. Essa rappresenta il ritorno negato ai profughi palestinesi che non hanno mai potuto percorrerla ufficialmente, è il desiderio ostinato di riappropriarsi di sé e della propria storia. Ancora: quella strada, che Anton desidera percorrere insieme all’amico d’infanzia Walid, è un atto di resistenza in un mondo che vuole dimenticare e cancellare la Nakba, è un modo per rifiutare l’oblio di un intero popolo.

Così come la croce era simbolo della sua fede cristiana, la strada per Be’er Sheva era il simbolo della sua massima aspirazione, un cammino che che doveva essere percorso, una via spirituale da intraprendere e a cui tutto conduceva. (p. 193)

La trama del romanzo si sviluppa su due binari intrecciati: da una parte, il percorso personale e psicologico di Anton, dall’esilio fino alla decisione finale, dall’altra la ricostruzione del dramma collettivo della Nakba osservata attraverso la lente dell’intimità familiare, della perdita e del silenzio. Mannin riesce a scrivere una storia densa e coinvolgente, senza retorica, né patetismi, restituendo al lettore una verità che non fa rumore, ma lascia il segno. Credo che La strada per Be’er Sheva sia una lettura attuale e valida per comprendere le ragioni che stanno dietro alla storia della resistenza del popolo palestinese, lontano ancora dalle violenze di certi gruppi armati organizzati come fatah, OLP, Hamas.

“Cosa abbiamo mai fatto noi arabi per essere trattati in questo modo?” (p. 104)

Marianna Inserra