Tra le tante emozioni che un libro dona a chi lo legge, capita di aprirlo e chiuderlo per l'ultima volta con un senso di colpa senza pari. Almeno, è quello che capita a me quando vorrei che ai protagonisti accadesse qualcosa di significativo, persino di traumatizzante. Mi accontenterei di tutto, basta che porti con sé un minimo di azione. Ed è ciò che ho provato alla lettura di La stagione che non c'era di Elvira Mujčić.
L'autrice è naturalizzata italiana e bosniaca di nascita, il che aumenta il mio senso di colpa. Quando, infatti, nel romanzo incomincia a raccontare la nascita del conflitto in Jugoslavia, non si può ignorare che lei ne porta dentro una traccia indelebile; ma, ahimè, il senso di protezione che ha nei riguardi dei suoi personaggi fa sì che, di tanto in tanto, chi legge speri in un colpo di acceleratore. La storia narra, infatti, di tre personaggi principali che conducono le loro vite nell'anonima cittadina natale di S.: Nene, un giovane tornato da Sarajevo sconfitto nell'animo; Merima, una ragazza-madre combattiva e tenace, ed Eliza, sua figlia di otto anni che ha in mente il grande progetto di andare in cerca del padre sconosciuto. I tre vivono vicini, condividono punti di vista ed esperienze, dibattono del futuro della Jugoslavia, che è in procinto di dissolversi.
Tito, infatti, è morto da un pezzo e tra le pagine si introducono con insistenza sempre maggiore i temi che porteranno alla guerra fratricida. Purtroppo, però, si ha la sensazione di assistere unicamente al prologo di una tragedia teatrale, senza potere approfondire le vicende e osservare da vicino l'azione nella sua totalità. In questa piega si inserisce il già citato senso di colpa: quando Eliza esce indenne da tutte le sue pericolose birichinate, e lo stesso accade a chiunque corra il rischio, in quella follia pre-bellica, di essere additato come "diverso", purtroppo, l'attenzione tende a calare. L'autrice è bravissima a lanciare fili di tensione su cui la trama scorre dettagliata, però il conflitto narrativo non si realizza mai.
I personaggi sono quasi solamente contemplativi, non fanno che chiedersi come la loro Nazione unita si sia ridotta a minacciarsi tra etnie e fazioni. «Non si sa mai il momento esatto in cui si poggia il piede sulla pietra che proprio in quel momento si stacca dalla roccia del precipizio e non c'è ritorno» (p. 104), riflette l'autrice a più riprese: nel romanzo, questo punto di vista è ricorrente e i dubbi si rincorrono, in cerca di un colpevole a cui affidare la propria rabbia. Nessuno, però, ne conosce le cause e non rimane che affrontare in modo diverso ciò che resta del proprio tempo in patria. In questo frangente, Mujčić divide le generazioni bosniache in due parti: da un lato, gli anziani si mostrano polemici ma disillusi, dall'altro i giovani rappresentano per lo più la speranza, come nel caso di Merima. Isolato da questa polarizzazione, invece, c'è Nene, il quale sembra in perenne attesa, non agisce e non incide nemmeno un po' nelle rare pagine di azione del romanzo.
Non si empatizza granché con quest'ultimo, ma più con Merima e la sua bambina, vittime di ingiustizia, a partire dal loro abbandono da parte del padre di Eliza per motivi religiosi. In questo senso, l'operazione dell'autrice è molto apprezzabile perché fa in modo che tutti i personaggi subiscano, nelle loro piccole vite, i torti di una Nazione in crisi profonda, che si odia, teme il vicino ed è pronta ad attaccarsi. Questo accorgimento rende tutto più veritiero, come anche l'uso di fonti dirette: telegiornali, radiogiornali, interviste ai protagonisti di quel periodo. Tuttavia, un piccolo senso di frustrazione non può non cogliere il lettore.
Proprio sul più bello, infatti, la narrazione si interrompe e purtroppo non fornisce risposta a molti interrogativi: che fine ha fatto il padre di Eliza? Quale sarà il destino di Nene a S.? E, infine, la domanda che martella Nene fino all'ultimo: cosa resterà della Bosnia? Per questo, lungi dal volere solo il peggio per i personaggi, avrei preferito una narrazione più viva e autentica, anche con tutto l'orrore inspiegabile del conflitto, piuttosto che una volatile e inutilmente delicata.
Camilla Elleboro
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