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Un titolo che piacerà molto ai nostalgici di García Márquez: il Brasile sensuale e crudele in questa riedizione del romanzo di Studart

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La libertà è un passero blu
di Heloneida Studart
Marcos y Marcos, maggio 2025

Traduzione di Amina Di Munno

pp. 192
€ 18 (cartaceo)

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Un tempo portavo Dalva con me alla biblioteca municipale. A quell'epoca, lì dentro erano riposte le mie speranze rilegate in pelle, i miei orgasmi in fascicoli colorati. Non riuscivo a separarmi da quei giardini pensili. L'improvviso arresto di João fece sfiorire le mie aiuole di lettere. Mi resi conto che non avevo nulla a che vedere con Racine, Stendhal, Eliot. Il mio mondo era quello dei racconti di Meméia: frate Vidal da Penha che annunciava la fine  del mondo a causa di un'invasione di serpenti; Lampião e Corisco che mettevano a ferro e fuoco il sertão; Pedro Malasarte che faceva i suoi sproloqui. Il mio mondo era quello dell'incubo collettivo' di cui parlava João. Era un mondo nel quale i bambini mangiavano il fango e i giovani ostinati marcivano in fondo alle galere perché affermavano che il passero è un uccello blu. (pp. 29-30)

Aspettavo l'uscita di questa riedizione da tempo, quasi con frenesia e a buona ragione: quando ho letto che la casa editrice ne consigliava la lettura agli amanti di Pedro Lemebel non ho potuto fare a meno di sentire un brivido. Chi mi conosce sa quanto io ami Pedro Lemebel, che ci ha purtroppo lasciati troppo presto e le cui parole sarebbero estremamente consolatorie di questi tempi.

Sta di fatto che, più che agli amanti di Lemebel, questo libro – e so di fare una dichiarazione eccessivamente calorosa – piacerà a chi sente la nostalgia di García Márquez e del suo indimenticabile Cent'anni di solitudine

Ma andiamo con ordine: siamo in Brasile nel secolo scorso, nel vortice focoso e frizzante di una famiglia, quella dei Carvalhais Medeiros - o meglio, delle Cavalhais Medeiros - perché ormai del retaggio nobile e ricchissimo della stirpe non sono rimaste che una manciata di donne: mamma Menina, la matrona dittatrice quasi centenaria; Luciana e Nini, le sue figlie superstiti; Marina e Dalva, le figlie di Luciana; e Meméia, la serva mulatta che ha cresciuto Marina come fosse sua. 

La voce narrante in prima persona è proprio quella di Marina, la protagonista cardine del romanzo: una ragazza inflessibile, dura, intelligente, flagellata dall'asma, il cui carattere risoluto - mamma Menina apprezzerà molto il fatto che non si trucchi, che non corra dietro agli uomini e che le somigli - le concede la fiducia preziosissima della nonna

Tuttavia Marina un uomo lo ama eccome, solo che è un uomo a cui non piacciono le donne, João, l'adorato cugino che si trova in carcere per aver detto e scritto sui muri della città che il passero è un uccello blu.
Ogni sabato Marina va a trovarlo in carcere, dilaniata da quell'amore che non potrà mai essere corrisposto, e ogni sabato lei apprende notizie su ciò che un gruppo di persone misteriose cercano di estorcergli: nomi, fatti, intrighi politici di cui il testo non rende mai note le coordinate. Chiaro è che, però, il riferimento è alla dittatura brasiliana dei decenni scorsi, e al regime che - come una metafora portata avanti nel testo dall'incarcerazione forse arbitraria di João - tarpava le ali (in questo caso, nel vero senso della parola, considerato il titolo del romanzo) a chiunque mostrasse un minimo di intraprendenza. 

Mi mostrava il ponte vecchio, con i suoi parapetti coperti di conchiglie morte - il vento di mare in quel punto era violento, frustava come uno scudiscio sottilissimo. Ogni sabato, João mi portava nei quartieri dei nuovi ricchi - che Dalva frequentava contro il volere di nonna Menina - con le loro piscine verdi, a forma di rene, le gabbie di uccelli su immense terrazze di maiolica e i boschetti di palme da cocco.

"Anche questa è miseria, Calunguinha" diceva João. (p. 21)

Contemporaneamente, su una traccia parallela, scorre la vita rocambolesca nella villa delle Carvalhais Medeiros: nonna Menina fa il bello e il cattivo tempo; Luciana, per espiare la colpa di aver sposato un pezzente, vive sotto lo schiaffo della madre, costretta a piegare la testa, ma palesando una crudeltà insopportabile nei confronti della figlia Marina; la zia Nini, zitella e vergine, inacidisce al pensiero dell'imminente testamento; Marina e Dalva, le uniche più o meno stabili, vivono ognuna il proprio tormento passionale.

Quello di Marina nei confronti del cugino è nascosto, indicibile; quello di Dalva emerge nel momento in cui, alla villa, fa il suo ingresso un misterioso e inquietante forestiero muto, Pablo (il cui arrivo mi ha ricordato moltissimo l'arrivo improvviso e apparentemente insensato di Rebeca in Cent'anni di solitudine), uomo bellissimo che ammalia tutta la casa, Dalva per prima. L'unica che sembra essere immune al fascino malato e marcio dell'uomo è proprio Marina. 

L'uomo porta con sé sventure e una carica erotica che la villa non riuscirà ad attutire. Impazziranno la casa, gli animali, persino Dalva e la zia Nini. E non è tutto, perché Pablo sembra in qualche modo coinvolto e legato alle torture inferte a João in carcere (anche in questo dettaglio, ci ho visto molto delle credenze e delle superstizioni legate agli spiriti e alla natura marqueziane).

Non ho nulla in comune con la ragazza che aspettava João appoggiata al davanzale della finestra fra le brocche d'acqua coperte con centrini all'uncinetto. Nei mesi di follia in cui pensavo di essere come le altre - perché credevo che João fosse come gli altri - sentivo scorrere nelle mie vene il vino dolce, e il mondo esplodeva di colori fiammanti di fronte ai miei occhi, erano fuochi d'artificio prodigiosi. Una sola parola di mia madre era bastata a far svanire quei colori e quei suoni. Con le mucose secche, evitando gli specchi, avevo finito per dimenticare i tratti del mio volto. La prigionia di João mi portò a disprezzare tutto il resto. Libri, raccolte, giardini pensili di parole, segni e significati disposti sugli scaffali. Il mio mondo era un altro, cupo, selvaggio, dominato dagli squadroni dell'odio. Il mondo dell'incubo collettivo di cui parlava João. È stata questa scoperta a trasformarmi in un'altra persona. Zia Nini non è la sola a essere cambiata. Siamo tutti diventati altri. (p. 138)

Marina inaridisce, rinnega la sua femminilità. Dalva fiorisce, cede al sesso. Però entrambe perderanno qualcosa, ognuna a modo proprio, la prima la fede nell'amore, la seconda la sua immunità al dolore.

Tutte le donne della famiglia hanno la sensualità e la durezza tipiche delle donne di García Márquez, ma anche la dolcezza e la forza delle donne dei romanzi di Jorge Amado, che probabilmente, connazionale di Heloneida Studart, ha influito maggiormente sullo stile dell'autrice (chiaramente sono mie supposizioni in base a ciò che conosco di questi autori e autrici, Jorge Amado è nato vent'anni prima di Studart, quindi è possibile che lei l'abbia letto e ne sia rimasta influenzata).

Nel romanzo c'è tutto: l'amore, l'odio, anche quello che si racconta con fatica - tra madre e figlia -, l'erotismo, la stupidità delle dittature, i rapporti familiari che sono a volte salvezza, a volte ghigliottina, la speranza e il lutto. Un micromondo tutto al femminile, o quasi, dove ciascuna protagonista incarna una sorta di "donna-tipo": la promiscua, la zitella, la crudele, la forte, la malefica. 

E Pablo e João sono anch'essi ai due poli opposti: il cacciatore privo di scrupoli e l'uccellino in gabbia. In questo caso, restando fedeli al Leitomotiv del romanzo, un passero blu, che altro non è che la metafora di un mondo che esiste e che, per chi ci crede, ha colori impossibili in natura. 
Come la libertà per chi non nasce libero.

Ne consiglio vivamente la lettura agli amanti dei romanzi di García Márquez, di Jorge Amado, di Isabelle Allende. C'è anche qualcosa di Lemebel, nei tratti romantici e disillusi di João, personaggio profondo e carismatico. 
A oggi, per me, la lettura migliore di quest'anno.

Deborah D'Addetta